È una gloria dell’Umbria Pontificia per la devozione che nutrì verso la Santa Famiglia di Nazareth e diffuse tra i fedeli, e le opere di carità che suscitò a favore dei poveri. Egli nacque a San Lorenzo di Trevi, nella diocesi di Spoleto (Perugia), il 15-3-1841 da Sabatino, modesto coltivatore diretto, e da Maria Allegretti. Fu battezzato, però, a Castel San Giovanni coi nomi di Pietro, Stefano e Giuseppe perché nel suo paese non c’era il battistero. Il 17-11-1844 fu cresimato nella parrocchia di Cannaiola, nella valle spoletina, che lo avrebbe avuto parroco per 35 anni.
Il Bonilli ricevette la sua prima educazione cristiana dalla mamma e dal parroco poiché, a San Lorenzo, non esistevano né scuole, né maestri. I genitori avrebbero voluto fare del proprio figlio un buon agricoltore, Pietro invece, a nove anni, ottenne di trasferirsi a Trevi per attendere agli studi.
Le scuole allora erano tutte raccolte nel Collegio che il nobile Virgilio Lucarini aveva fondato (1644) nel proprio palazzo, in cui studiò al tempo del Bonilli anche il B. Placido Riccardi OSB (+1915). Pietro fece consolanti progressi negli studi. Difatti, nell’archivio del comune di Trevi, riguardo all’anno scolastico 1858-1859 c’è questa annotazione: “Bonilli, prefetto del collegio, ha meritato il primo premio di diligenza e profitto nella filosofia razionale, morale e matematiche”.
Anche nella virtù il Beato fece rapidi progressi sotto la guida di Don Ludovico Pieri, sacerdote trevano un po’ “semplicetto” e “visionario” (1829-1881), ma entusiasta educatore di ragazzi mediante la direzione delle scuole serali, caritatevole cappellano dell’ospedale e zelante fondatore della Pia Unione di S. Giuseppe alla quale il Bonilli si iscrisse tra i primi. Per le riunioni il vescovo assegnò agli associati la chiesa di San Francesco. Un giorno Don Pieri vi scoprì un dipinto della Santa Famiglia di Nazareth, lo fece restaurare, riordinò l’altare che gli sottostava, e diede inizio a quella devozione alla S. Famiglia che in seguito divenne il punto centrale della spiritualità e dell’opera del Beato.
Nel dirigere e nel confessare il discepolo, Don Pieri non tardò molto a scorgere in lui la vocazione allo stato sacerdotale. A sedici anni, perciò, con il permesso dell’ordinario di Spoleto, lo rivesti dell’abito talare e gli fece proseguire gli studi nel collegio Lucarini giacché non disponeva del denaro necessario per entrare in seminario. Di lui attestò Don Pieri: “È un angelo in carne; il Signore lo chiama per la sua gloria”. Dal Diario che due anni dopo il Beato cominciò a scrivere, appare con quale decisione si sia costantemente “proposto di fare in tutto e per tutto la santa volontà di Dio”. Dal collegio, però, sarebbe uscito volentieri perché nessuno gli dava uno stipendio in qualità di prefetto dei convittori, non poteva attendere agli studi come voleva e gli allievi erano indisciplinati assai. Supplicò lo zio Don Luigi Bonilli, avaro impenitente, di trovargli un alloggio, ma lo zio gli impose di continuare a fare il prefetto nel collegio in cui aveva per lo meno il vitto e l’alloggio assicurati.
Per poter disporre di “qualche paolo”, nel 1860 il Beato chiese di occupare nel collegio l’ufficio di economo, rimasto vacante, ma non ne fu ritenuto capace. Nel Diario annotò: “Patirò facendo il prefetto. Ebbene, sia fatta la volontà di Dio”. Gli riusciva di grande consolazione la preghiera, anche quando la faceva immerso nel tedio e nell’aridità, e la comunione che gli era consentito di ricevere soltanto due volte la settimana. In quel tempo sperimentò un forte desiderio di consacrarsi alle missioni estere, ma il suo direttore gli disse a chiare lettere: “Le tue missioni sono qui”. Scrisse allora nel Diario: “Eterno mio Dio, non voglio avere più volontà… fa di me quello che vuoi… voglio pensare solo a farmi santo”. E propose di continuare in umiltà e ubbidienza a prepararsi al sacerdozio combattendo gli scrupoli e le tentazioni d’impurità che in quel tempo non gli davano tregua. Per liberarsene andava a supplicare la Madonna nel santuario delle Lacrime in Trevi o in quello della Stella. Si rivolgeva a lei dicendole: “Fammi prima morire che offendere Gesù”, e supplicava suo Figlio gemendo: “Io non sono contento se non mi dai un amore per Te più grande di quello dei santi, immenso… Infiammami questo mio cuore di un tale amore. Io non voglio più altro”.
Il Bonilli tirò un respiro di sollievo quando Mons. Arnaldi, arcivescovo di Spoleto, decise di accoglierlo in seminario per metterlo in condizione di “fare meglio gli studi sacri”. Nei Diario annotò: “Dio mi vuole in seminario, sia benedetto!… Dispongo di osservarne il regolamento alla perfezione e di camminare sotto la speciale protezione della S. Famiglia”. Prima di entrarvi dimostrò a Dio tutta la sua riconoscenza per la grazia ottenuta emettendo il voto mensile di castità. In compenso della retta che non era in grado di pagare, anche in seminario continuò a fare il “prefetto degli ordinandi”. Quando fu ammesso al suddiaconato soltanto il nonno lo aiutò a costituire il patrimonio necessario all’ordinazione, non i genitori e neppure lo zio. Ne ignoriamo il motivo. Si preparò a riceverlo pregando: “Mio Dio, se vedi che io non sarò santo, per carità, levami da questa vita, ora, si, adesso”. Con gli stessi sentimenti, si preparò pure al sacerdozio che ricevette il 19-12-1863 a Terni, dal vescovo Mons. Saverio Arnaldi (+1867) che era stato imprigionato dal governo piemontese nella rocca di Spoleto a causa del sostegno dato a Pio IX durante l’occupazione nel 1860 dell’Umbria e delle Marche da parte dell’esercito italiano.
Appena ordinato prete Don Bonilli prese possesso della parrocchia di S. Michele Arcangelo di Cannaiola, che contava circa 600 abitanti. Gli era stata affidata fin dal 31-8-1863 dal vescovo perché, a causa della scarsezza delle rendite, era rifiutata da tutti. Il Beato ne soffrì non per sé, già abituato a fare a meno di tante cose, ma per l’impossibilità di aiutare i poveri e provvedere all’abbellimento della chiesa fatiscente. Si rimboccò subito le maniche e, dotato com’era di buona salute e voce vigorosa, concentrò il suo lavoro sulla predicazione, coadiuvato da Don Pieri, e il ministero delle confessioni, la scuota e la catechesi ai fanciulli, la propagazione della devozione alla S. Famiglia e la riorganizzazione di tutte le confraternite. È considerato il precursore dell’Azione Cattolica perché divise i parrocchiani in associazioni secondo il sesso e l’età. Istituì, difatti, onde spingere i fedeli a una maggiore frequenza dei sacramenti, per i ragazzi dai 7 ai 15 anni la Compagnia dei Figli della S. Famiglia; per le donne sposate la Pia Unione delle Madri Cristiane; per gli uomini la Compagnia della S. Famiglia; per le adolescenti l’Associazione di S. Luigi Gonzaga; per le giovani la Pia Unione delle Figlio di Maria; e per annodare in una sola Compagnia, divisa in più sezioni, le varie categorie di persone, istituì pure la Compagnia delle Guardie d’Onore, chiamata .anche Pia Unione della S. Famiglia.
Per aiutare i fedeli a crescere nella virtù Don Bonilli fece rifare quasi dalle fondamenta (1870) la chiesa parrocchiale. Ai parroci che lo tacciavano di imprudenza perché aveva dato inizio ai lavori soltanto con un deposito di L. 200, rispondeva: “C’è la Provvidenza che mi assiste”, oppure: “La cassa della Provvidenza è sempre aperta”. Dopo che fu privatamente benedetta, se ne servì per adunarvi ogni sera i fedeli per la visita al SS. Sacramento e la lode alla S. Famiglia. A Cannaiola il Beato viveva molto appartato con i genitori e un fratello sposato, nonostante le difficoltà avute con essi durante gli studi. Tuttavia, appena il vescovo gli diede in aiuto un cappellano (1873), egli allargò la cerchia del suo apostolato dandosi alla predicazione delle missioni al popolo e degli esercizi spirituali ai sacerdoti e ai religiosi nelle diocesi umbre insieme con i membri della Società dei Missionari della S. Famiglia, istituita a Spoleto da Don Pieri con l’approvazione dell’arcivescovo Mons. Cavallini Spadoni il 6-l-1873.
Don Bonilli non fu mai un profondo teologo per la rapidità con cui fece gli studi in seminario e nemmeno un grande oratore. Preparava, però, con cura i sermoni di indole parenetica che teneva nei vari paesi in cui si recava con i confratelli. Nel Diario scrisse: “Io soffro un supplizio ogni volta che ho da predicare, ma non ci bado. Non bado a quello che si dirà di me perché già so meglio di ogni altro che sono incapace specialmente di predicare, ma guardo all’anima e a Dio e vedo che, di questo mozzicone, vuole servirsene per qualcosa”. In cima ad ogni suo pensiero stava la diffusione dell’Associazione della S. Famiglia e del periodico che fondò per farla conoscere.
Dopo la morte di Don Pieri anche il Beato venne sospettato di diffondere “superstizioni” con gli scritti devozionali e le stampe le quali talora contenevano espressioni discutibili riguardo al culto da prestare alla S. Famiglia. Anziché impressionarsene egli rilevò una piccola tipografia per stampare il suo Apostolo della S. Famiglia. La curia spoletina gli impose un giorno l’invio di tutte le bozze del periodico per la revisione prima della stampa. Don Bonilli soffrì di quella diffidenza dimostrata dall’ordinario del luogo verso la sua persona. Al superiore dei Missionari della S. Famiglia, Don Paolo Bonaccia, scrisse difatti: “Aiutiamoci con l’orazione a portare insieme la pesantissima croce”. Per distoglierlo forse dalla sua idea fissa, il vescovo gli offrì il priorato di Bevagna, ma vi rinunciò a causa della povertà in cui versava. Ne diede notizia al suo superiore scrivendo: “Non ho un centesimo per le spese di bolle, di possesso, di successione, che sono enormi”. E dire che certi confratelli malevoli, perché invidiosi, ritenevano che con la diffusione delle sue stampe facesse buoni affari.
Lo smarrimento del Bonilli e dei suoi colleghi giunse al culmine quando dalla S. Congregazione dell’Indice arrivò a Spoleto l’ordine di ritirare dalla circolazione il Manuale dei Missionari della S. Famiglia, il Regolamento dei Cooperatori, e di togliere dal Direttorio del P. Francoz, S.J., che a Lione aveva fondato nel 1861 l’Associazione mondiale delle Famiglie consacrate a Gesù, Maria e Giuseppe, quanto il Bonilli vi aveva aggiunto nella traduzione italiana. Al decreto il Beato fece pronta ed esplicita sottomissione dichiarando: “L’obbedienza alla S. Sede fu il latte che mi nutrì da fanciullo, la luce che mi guidò da giovane e la virtù che vorrei praticare da sacerdote ora e sempre fino agli estremi”. Accettò, quindi, anche lo scioglimento della Società dei Missionari della S. Famiglia (1883) e la ricostituzione da parte dell’arcivescovo Mons. Elvezio Pagliari di un’altra associazione con programma strettamente diocesano. Don Bonilli accettò di restare nella Società rifondata e di pubblicare il periodico La Sacra Famiglia al posto di quello soppresso, intitolato l’Apostolo della S. Famiglia, sotto la guida immediata dell’ordinario del luogo, per la riforma del clero e il rinnovamento della società perturbata dai moti suscitati contro la chiesa dai liberali e dai massoni.
Vedendosi ristretto il campo di apostolato, il Beato pensò di estendere le sue cure agli orfani della parrocchia e di istituire l’Opera delle Campagne per l’elevazione materiale e spirituale dei contadini (1884) mediante ”case e ricoveri per orfani… patronati per giovani, società cattoliche operaie e di mutuo soccorso”. Mons. Pagliari ne accettò il patronato. Nel 1887 Don Bonilli inaugurò il suo primo piccolo orfanotrofio con l’introdurre in esso le statue di Gesù, Maria e Giuseppe in precedenza fatte portare solennemente in processione, e pubblicò, per farlo conoscere, Il Bollettino Nazareno come supplemento a Sacra Famiglia. Aveva ragione di annotare nel Diario: “Perché un’opera possa prosperare è necessario che venga patrocinata e diffusa dalla stampa”. Le offerte che i fedeli gli inviavano non bastavano, però, a fare fronte alle spese, motivo per cui fu costretto ad andare alla questua del grano.
Per la direzione dell’orfanotrofio il Beato si rivolse alla superiora generale delle Suore della S. Famiglia di Comonte di Seriate (Bergamo), fondate dalla B. Costanza Cerioli (+1865) per l’istruzione e l’educazione dei figli dei contadini, ma la sua richiesta fu disattesa. Decise, quindi, di fare da sé con l’aiuto di giovani povere, umili e ubbidienti.
Sorgevano così il 13-5-1888, con l’approvazione di Mons. Pagliari, le Suore della S. Famiglia di Spoleto alle quali il fondatore affidò il compito di prendersi cura delle orfane, dei malati, delle sordomute e delle cieche. Al riguardo scrisse: “L’aspro patire, il fiero strazio dell’anima, le agonie mortali dello spirito a pochi furono noti. Ben li conobbe, però, la S. Famiglia, la sola che ci poteva conoscere e consolare”.
Le Suore dell’Istituto Nazareno a poco a poco si moltiplicarono in modo sorprendente sotto la guida paterna e forte del santo fondatore, non a Cannaiola, ma a Spoleto dove le Suore, con l’aiuto di insigni benefattori, si stabilirono nel 1897 con le prime sei orfane e cinque sordomute prima nell’ex-convento delle Convertite, e poi nel palazzo dei Buoncristiani (1900). Perché potesse condividerne la sorte, il vescovo nominò Don Bonilli prima canonico penitenziere del duomo, poi amministratore del seminario (1899) e, infine, rettore dal 1905 al 1909. In quel tempo il Beato ebbe la gioia di assistere alla rinascita della Società dei Missionari della S. Famiglia, rimasta per diversi anni inattiva, e di poter incrementare con la sua tipografia la stampa di altri periodici tra cui Il Tabernacolo e il Consolatore delle Anime Purganti e diffondere così nel popolo cristiano oltre la devozione alla S. Famiglia, anche quella all’Eucarestia e alle anime del purgatorio, le quali costituivano i suoi tre grandi amori.
Nel primo capitolo generale radunato a Spoleto nel 1912 dalle Suore della S. Famiglia, in seguito al Decreto di Lode ottenuto l’anno precedente da Pio X, fu eletta superiore generale Suor Maria Nistri. Gli affari più importanti dell’Istituto furono, però, trattati direttamente dal fondatore il quale, dal suo modesto appartamento sistemato nel retro cappella di casa madre, provvedeva a istruire le orfane, a formare le novizie, a regolare l’apostolato delle suore facendo uso, quando occorreva, anche di riprensioni. Con le aspiranti alla vita religiosa era molto esigente. Alle sue collaboratrici diceva: “Per farle entrare apriamo una porta, per farle uscire apriamo un portone”. Ci teneva magari ad avere cinque suore, ma ferventi, che cento, ma tiepide.
Il Beato voleva soprattutto che le Suore della S. Famiglia fossero caritatevoli e umili perché solamente così avrebbero attirato le benedizioni di Dio sull’Istituto. Da parte sua diceva a chi gli mostrava ammirazione: “lo sono un uomo che non voglio fare rumore; vorrei fare il bene, ma… senza che nessuno se ne avvedesse”. In occasione degli auguri disse una volta alle sue religiose : ‘Ricordatevi che io ho fatto niente. Quello che si è fatto si deve a Dio. Nessuna si deve gloriare, guai! Noi siamo capaci soltanto a guastare. Il Signore soltanto è quello che opera”. Se ardivano fargli notare che anche loro, se non nelle proporzioni del Cottolengo, del Palazzolo, di Don Bosco, avevano fatto qualche cosa, rispondeva: “Sì, consoliamoci con l’aglietto”, cioè con cose da poco. Un giorno lo andò a trovare una donna di Montefranco. Appena lo vide esclamò: “Padre, ma lei è un santo!” Don Bonilli si fece scuro in viso e poi, con voce severa, le disse: “Ritira quella parola. Non ti vergogni di insultare così un povero prete?”.
Nell’accettazione delle orfane e delle infelici Don Bonilli non amava che le suore si mostrassero preoccupate per il loro mantenimento. Le riprendeva ogni tanto dicendo: “C’è la Provvidenza che ci pensa”. Nei momenti più difficili ripeteva loro: ”Il Signore arriva sempre all’ora giusta, state tranquille. Solamente il peccato deve angustiarci”. A una suora afflitta da pene e da malattie scrisse per consolarla: “Dio ci guida sempre da padre e da sposo; non permette le vicende dolorose che per fondarci nella virtù. Bisognerebbe che penetrassimo questa verità: Gesù fu sulla croce fin dal primo istante della nascita… Quando Gesù vuoi dare un segno di amore a un’anima, le consegna la croce… Nel patire sta la nostra, gioia… La caparra del paradiso”. Per conto suo diceva: ”Mi pare una giornata perduta quella che passo senza croce”.
Alle sue figlie spirituali il fondatore ripeteva sovente: “Voi dovete essere anime riparatrici”. Per questo diede impulso alla pratica dell’Ora Santa nella chiesa di San Filippo, e introdusse nella cappella dell’Istituto l’ora di adorazione in tutti i venerdì dell’anno in riparazione dei peccati commessi dagli uomini e per la conversione dei peccatori. Sua costante raccomandazione era che si facessero sante “mica con estasi, ma con il lavoro, la pazienza e il sacrificio”.
Quando Mons. Pietro Pacifici, arcivescovo di Spoleto, volle dare alla famiglia religiosa del Beato una forma più regolare in conformità al nuovo codice di diritto canonico entrato in vigore nel 1917, non mancarono recriminazioni da parte delle suore per le disposizioni di lui giudicate arbritrarie. Don Bonilli, pur non condividendo certi spostamenti di superiore e certi ritardi nelle ammissioni al noviziato e ai voti delle suore non cessava di dire loro: “Lasciate fare, negli ordini dei superiori c’è sempre la volontà di Dio”.
Fino al 1918 Don Bonilli ebbe la consolazione di godere di una eccellente salute. Poi cominciò a sentire i primi acciacchi della vecchiaia alle gambe, alla testa e agli occhi che poco a poco gli si spensero completamente. Si ridusse, perciò, a starsene in casa come un eremita, incapace di conversare a lungo, ma intento alla recita del rosario, alla meditazione, alla lettura delle vite dei santi. In quella condizione, che durò per molti anni, a chi lo andava a trovare e gli domandava come stesse, rispondeva: ”Sia benedetto il nome del Signore! Sto benissimo! Si porta la croce”. Nel 1929 dovette
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subire d’urgenza un’operazione di ernia e perse del tutto la luce degli occhi. Anziché lamentarsene dichiarò: “Sia tutto per amore di Dio: la vecchiaia, gli incomodi, la cecità, le umiliazioni, tutto, tutto sia per amor di Dio. Queste parole bisognerebbe musicarle a grande orchestra, con ripetizioni insistenti, infinite, in tutti i toni, per esprimere grandiosamente a Dio il nostro abbandono in Lui”.
Negli ultimi mesi della malattia la spina più acuta che gli feriva il cuore era quella di non poter più celebrare la Messa. Fu allora udito esclamare: “Oh, la Messa, la Messa… Voi non sapete quale grazia sia per me e per voi il potere celebrare il santo Sacrificio!… Il sacerdote che non dice la Messa è nulla, è un corpo senz’anima. Dunque, io sono inutile. Che cosa faccio più sulla terra? È bene, quindi, che Dio mi chiami a sé e presto. Io dal cielo farò tanto bene quanto non ho potuto e saputo fare sulla terra”. Assistito da Mons. Giovanni Capobianco, vicario della diocesi e in seguito vescovo di Urbania, il 5-1-1935 si spense come una candela, a causa di una bronchite, all’invocazione: “Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia!”.
I funerali di Don Pietro Bonilli, fondatore delle Suore della S. Famiglia, Cameriere Segreto Sopranumerario di Sua Santità e Cavaliere della Corona d’Italia, riuscirono un trionfo. Le sue reliquie sono venerate nella cappella di casa madre dell’Istituto. Giovanni Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 30-6-1986 e lo beatificò il 24-4-1988.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1 Udine: ed. Segno, 1991, pp. 84-92.
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