PARTICOLARI DEGLI ULTIMI GIORNI E DELLA PREZIOSA MORTE DEL SERVO DI DIO CARLO D’AUSTRIA
Oltre al libretto fin qui tradotto, il medesimo Autore compose una narrazione più minuta degli ultimi giorni e della preziosa morte del Servo di Dio. Qui si offre la traduzione di questo secondo opuscolo.
La navicella scendeva lungo il fiume verso il mare (Lungo il Danubio verso il Mar Nero). Il Re e la Regina abitavano l’angusta cabina del capitano. Faceva freddo. Il viaggio procedeva monotono e durante la notte si fece sosta. Presso Moldava ci fu un’interruzione più lunga. Ne fu causa un atto d’omaggio che si voleva fare al monarca prigioniero in quel giorno, 4 novembre 1921, suo onomastico.
II giorno appresso si approdò a Orsova e il viaggio fu continuato in automobile. Ecco un’altra volta la popolazione ai due lati della strada. “Bacio la mano!” gridavano quei contadini; e in molti luoghi la gente si metteva in ginocchio, e molti piangevano.
Così fu percorsa tutta quella strada; e quando la regia Coppia salì sul treno, dovette vedere con raccapriccio che il popolo veniva allontanato col calcio dei fucili.
All’ultima stazione prima di Bukarest, il Ministro degli Esteri di Rumenia voleva far loro i suoi ossequi: ma fu dagli Inglesi respinto.
A Galatz si trovarono parimente i curiosi in gran numero. Qui si unirono alle Loro Maestà – altro accompagnamento non fu loro concesso – il Conte e la Contessa Hunyadi.
Intanto l’Imperatrice Zita aveva cominciato a rappezzare la biancheria che le era rimasta: poca e in stato abbastanza cattivo.
Da Galatz fino a Sulina si fece uso d’un vaporetto, nel quale fece da cuoco uno che prima era stato cuoco di corte: ed era cosa commovente vedere l’impegno di quest’uomo, che s’ingegnava di consolare le Loro Maestà con cibi simili a quelli della loro patria.
Le Loro Maestà non si stancavano di chiedere che fosse loro data la possibilità d’assistere ad una Santa Messa, ma sempre inutilmente, anche in Galatz, perché non fu loro permesso di mettere piede in una chiesa.
Finalmente, alle 10, apparve un Padre cappuccino, che portava seco il Santissimo, col Quale egli potè dare ai sovrani la Benedizione. Ma gli esuli dovettero poi restare senza poter assistere ad una Santa Messa fino a Gibilterra.
Giungono a Sulina, dove trovano ancorato l’incrociatore inglese “Cardiff”, sul quale avrebbero dovuto passare immediatamente le Loro Maestà. Fu loro assegnata la cabina dell’ammiraglio. Il capitano, in quel momento, era assente: ma, appena tornato dalla sua caccia alle cornacchie, si mostrò subito quell’ufficiale pieno di riguardi, e cavalleresco, ch’egli era.
Per non dover tenere il monarca come un carcerato, lo pregò d’una dichiarazione in iscritto, e sulla sua parola d’onore; e l’Imperatore gliela diede senz’altro.
Fino agli ultimi anni della sua vita, il capitano conservò il documento come cosa preziosa: e durante tutto quel viaggio era facile vedere quanto gli riuscisse penoso l’ufficio di custodire un tal prigioniero.
Il giorno 8 novembre, alle otto e mezzo antimeridiane, la “Cardiff” raggiunse Costantinopoli. L’Imperatore e l’Imperatrice poterono ravvisare il luogo, ove, nel 1918, avevano bevuto il tè, quali ospiti dell’Imperatore ottomano.
Di fronte alla Hagia Sophia la nave si arrestò. Schiere d’uccelli marini volavano per l’aria. Sopra quella città favolosamente bella stava l’arcobaleno. Il capitano dichiarò ancora una volta quanto gli pesasse il suo ufficio. Disse che aveva chiesto telegraficamente a Londra dove aveva a portare le Loro Maestà; e che, non avendo ottenuto risposta, aveva cercato saper qualche cosa per mezzo dell’ammiraglio, il quale pure si dichiarò privo d’ogni informazione.
Alle 2 pomeridiane il Conte Hunyadi sbarcò per comperare un vestito non militare per il Sovrano. Ne portò uno, ma era troppo stretto. Tuttavia ebbe ancor tempo sufficiente per cambiarlo con un altro che andava bene.
L’Imperatrice chiese di poter scrivere una breve lettera, in francese, ai figlioli, aperta: ciò che dapprima le fu negato. Finalmente l’ammiraglio prese sopra di sé l’incarico di far giungere egli stesso la lettera alla sua destinazione.
La sera giunse un telegramma dal colonnello Strutt, che assicurava della buona salute dei bambini, ma che restava ancora all’oscuro, come prima, circa il futuro destino dei piccoli arciduchi.
Il 9 novembre giunge l’ordine di far vela verso Gibilterra. Alle 12 e mezzo di notte furono levate le ancore. Era una notte meravigliosa. Sopra le acque splendeva in tutta la sua luce la luna e, con essa, le stelle: uno spettacolo stupendo. Il Mar di Marmara era liscio come uno specchio. Nei Dardanelli il tempo si fece nebbioso. Da ogni parte potevano essere un pericolo i resti delle navi affondate durante la guerra mondiale.
Al capitano era proibito approdare, e così si passò velocemente tra quei resti di mine.
Il 10 novembre – nel Mare Egeo – circa le 2 dopo mezzanotte cominciò il tempo cattivo, che continuò fino a tutto il giorno seguente.
In Malta il capitano chiese qual fosse la meta del viaggio. “Probabilmente Madera”, fu la risposta, che il capitano comunicò all’Imperatore e alla sua Consorte, e disse titubante che si trattava dell’isola dell’Assunzione, dove il clima è sì micidiale, che un europeo non può, a lungo, sopportare.
L’imperatrice guardò, piena di raccapriccio, l’Imperatore. Era impallidito, e vide apparire sulla sua fronte gocce di sudore.
“Allora non si potranno più rivedere i figliuoli”. Queste furono le sue prime parole. Ma, dopo breve intervallo, si asciugò il sudore, sorrise e disse con altra voce: “Come io sono pusillanime! Essi non possono mandarmi se non in quel luogo, che ci ha destinato Iddio”.
Il 12 novembre si ebbe un tempo migliore. Alle 2 pomeridiane era venuta in vista la Sicilia. Poi si andò lungo la costa africana.
Un radiotelegramma di Strutt assicurò nuovamente che i figlioli stavano benissimo.
Il capitano organizzò una caccia alle colombe; e l’Imperatore, dopo tanto tempo, riprese in mano il fucile.
Il 14 novembre si passò davanti ad Algeri. Quella notte si ebbero nuovamente a passare ore tempestose. Il giorno seguente, ecco apparire la costa meridionale della Spagna.
Il 16 novembre, alle 7 di mattina, la nave entrò nello stretto di Gibilterra. Non si poteva ancora sapere qual termine dovesse avere il viaggio.
A Madera !
La sera venne il comando di passare immediatamente lo stretto e di recarsi a Madèra. Si era sollevata una spaventosa tempesta, per cui il capitano decise di differire la partenza. Di più, egli provvide che, la mattina seguente, venisse celebrata sulla nave una Santa Messa, durante la quale la Coppia imperiale potè ricevere la Santa Comunione. Poco appresso, quella nave da guerra degli Inglesi usciva nell’Oceano Atlantico.
Il 19 novembre, festa di Santa Elisabetta, ecco apparire l’isola dell’esilio. La Coppia imperiale guarda fissamente la costa che passava davanti ai loro occhi.
Si fece il giro ad una lingua di terra, ed ecco apparire, davanti ad uno sfondo di montagne, la città e il porto di Funchal. L’Imperatore guardò attentamente, e con interesse, il magnifico quadro; poi volse lo sguardo a destra e in alto sopra due torri stroncate d’una chiesa di montagna.
“Qual nostalgia risveglia in noi quella chiesa!”, esclamò l’Imperatore. “Come ci ricorda le nostre chiese! Certo è una chiesa della Madonna. Dunque presto, andiamo su!”
Era “Nossa Senhora do Monte”, Nostra Signora del Monte: la chiesa, in cui pochi mesi appresso doveva essere seppellito.
Il 19 novembre era giorno di sabato, uno dei molti sabati ricchi d’importanti avvenimenti nella vita dell’Imperatore. Era stato cresimato in un sabato, aveva ricevuto il Sacramento del Matrimonio in un sabato, era stato coronato Re in un sabato. Era giorno di sabato, quando, nel principio del primo tentativo di restaurazione, il Re, tornato in patria, entrava in Ungheria, e in un sabato fece quella ripulsa, così piena di conseguenze, di rinunciare al trono d’Ungheria. Ancora in un sabato doveva aver luogo il passaggio al nebbioso clima del Monte. E doveva essere giorno di sabato quel primo d’aprile 1922 nel quale Dio chiamò a Sé il Suo Servo.
Allo sbarco un Prelato di quel luogo salutò l’Imperatore con la parola tedesca: “Wilikommen!” (benvenuto!).
Si era rovesciata sopra quel luogo una gran moltitudine di popolo, ch’era stato informato della persona che doveva arrivare, e, pieno d’affetto, salutava amichevolmente.
Le Loro Maestà entrarono in un’automobile e si recarono a Villa Vittoria, l’abitazione loro assegnata. Da ogni parte trovavano tacita, riverente simpatia.
Per desiderio del Papa Benedetto XV, il Vescovo si occupò di loro con grande amore e con ogni impegno, e dispose che servisse alle Loro Maestà l’altare della cappella che teneva in casa sua. Assai presto fu loro concesso d’ospitare continuamente, giorno e notte, sotto il proprio tetto, il Santissimo Sacramento.
Dopo una lunga privazione, ciò significava, per l’Imperatore, una specialissima consolazione. Spesse volte, durante il giorno, egli diceva : “Voglio vedere se arde ancora la lampadina”. Si vide che con queste parole voleva dire che andava a fare una Visita, e non breve, a Gesù, e lo si lasciava solo nella cappella col Re dei re.
L’Imperatore e l’Imperatrice cominciarono a visitare la città e i dintorni. Il Conte e la Contessa Hunyadi, ch’erano stati loro compagni nel viaggio, furono per lungo tempo le sole persone della loro patria che avessero al proprio séguito. Ma quella simpatia piena di compassione degli abitanti dell’isola divampò ben presto in manifesto entusiasmo.
Anche qui accadde quello che si vide nella Svizzera; i cuori d’un popolo straniero, quasi attratti da un incanto, volavano a precipizio, per così dire, verso le Loro Maestà. L’Imperatore, sorridendo, osservava:
“Io vorrei quasi dire: la mia fedele città di Funchal”.
L’offerta della vita
Le prime settimane passarono tranquillamente. Ma l’Imperatore, che, esternamente, pareva persona tanto semplice, diventava ognor più ricco di lumi soprannaturali e d’amor di Dio. Faceva gran passi per i sublimi sentieri della santità.
L’Imperatrice e le altre persone un po’ alla volta se ne accorsero; e, da principio, ebbero anche a provarne una specie di spavento.
L’Imperatrice Zita ebbe a dire più tardi ricordandosi di quei giorni : “Era impossibile tenere dietro a quelle sue rapide ascensioni. Essendo egli così chiuso in se stesso, non si sapeva mai quali progressi spirituali nascondesse il suo silenzio”.
Si erano sparse voci che l’Imperatore fosse ammalato e in pericolo della vita. Erano voci senza fondamento. Esprimevano solo un desiderio dei suoi nemici. Ma corrispondevano ad un presentimento dell’Imperatore, e gliene parlava un giorno l’Imperatrice nel parco di Villa Concordia. Carlo, alzando gli occhi a Nostra Signora del Monte, disse: “Io non vorrei morire qui”. Ma tosto sorrise e, quasi correggendo le sue parole, disse: “II buon Dio farà quello che Egli vuole”.
In questi giorni l’Imperatore pareva che stesse lottando per la soluzione definitiva di un’importante questione. Già da lungo tempo egli aveva una certa persuasione che Dio voleva da lui il sacrificio della vita per la salvezza dei suoi popoli. Comunicò la cosa all’Imperatrice, la quale non seppe che replicare. Era attonita e fuori di sé. L’Imperatore taceva e pareva voler aspettare; poi, volgendo gli occhi alla chiesa di Maria, conchiuse con accenti di gran fermezza : “E lo farò”.
Zita pregava in cuore suo Iddio che liberasse l’Imperatore da quel pensiero. Tuttavia l’Imperatore cominciò da quel giorno a darle dei consigli sulle cose da farsi, ove egli, forse entro non molto tempo, non si trovasse più presso di lei.
Passarono le settimane, e non mancavano, per ogni giorno, le sollecitudini; i figlioli e la madre dell’Imperatore, i suoi fedeli in Ungheria. Quale sarà il destino del suo séguito espulso dalla Svizzera? Si aggiunga la condizione delle sue finanze che ogni giorno si faceva più disperata, e Carlo si trovava abbastanza privo di consiglio davanti ad essa.
Si aggiunga l’essergli tagliata ogni comunicazione col resto del mondo, e veder sistematicamente reso vano ogni tentativo di ricevere per compagno uno dei tanti signori che un giorno gli facevano corona.
Il conte e la contessa Hunyadi potevano stare a Madera solo di passaggio. Il conte non lasciò l’isola senza lasciare a disposizione del monarca il credito d’una rilevante somma di danaro. Ma Carlo non ne fece mai uso.
Il personale di servizio, cioè una cuoca, un cameriere, un servo con la sua moglie, poterono far vela verso Madera solo circa a Natale. Il conte Revertera e il barone Hye si sforzarono, ma inutilmente, d’ottenere il passaporto.
Non c’era chi potesse dare un consiglio all’Imperatore che, in cose finanziarie, era inesperto, e quel continuo assottigliarsi degli aiuti pecuniari (che avvenne, a quanto sembra, secondo un piano determinato) diventò la causa mediata della tragica fine. Poiché la necessità di diminuire le spese, senza saper bene da che parte cominciare, obbligò Carlo ad uscire, dalla Villa Vittoria, posta in luogo salubre, per passare all’aria insalubre del monte.
Improvvisamente, quando già si poteva sperare il vicino arrivo dei figliuoli, giunse la sconcertante notizia ch’era necessario far all’arciduca Roberto una operazione all’intestino cieco. Tosto l’Imperatrice fece i passi necessari onde ottenere un passaporto per entrare nella Svizzera. Dovette dare il suo consenso alle condizioni più ridicole e alle misure di sorveglianza; e finalmente, al principe del gennaio 1922, potè, senza séguito, cominciare il suo viaggio. L’Imperatore restò nell’isola. Unico suo compagno, in quelle settimane, era il conte Almeida, un Portoghese, che aveva servito nell’armata austro-ungarica.
L’Imperatrice potè vedere il suo Roberto, ma le era stato concesso di star con lui solo poche ore. Il piccolo arciduca aveva subito l’operazione ed era ancora febbricitante, quando la madre, dovette uscire nuovamente dalla Svizzera.
Questa volta poté rivedere e riprendere seco i figlioli (tranne Roberto), e, insieme con essi l’arciduchessa Maria Teresa, ritornare a Funchal.
L’Imperatore, che già trovavasi al molo, salì sulla nave. Chi può descrivere il giubilo dei fanciulli, quando li salutò e li abbracciò!
Scorrevano lagrime d’allegrezza sopra le sue guance, mentre scendeva la scala del bastimento portando in braccio il più piccolo di essi, Rodolfo. Erano venute insieme coi fanciulli, per accompagnarli, alcune persone del séguito di Carlo. Queste rimasero quasi spaventate vedendo com’egli era diventato stanco e grigio. Ma non ebbero a scorgere sul suo volto un tratto di amarezza, ne ad udire dalle sue labbra una dura parola.
In quei giorni di solitudine egli aveva preso la risoluzione di passare immediatamente a Quinta do Monte, in un’abitazione che gli era stata offerta da un patrizio di quei luoghi: e questo in vista delle strettezze finanziarie in cui si trovava.
La casa si trovava proprio a quell’altezza, alla quale, in quella stagione, il monte è assediato da un esercito di umide e fitte nebbie con micidiali esalazioni. Mancando la detta abitazione di mezzi di riscaldamento (era destinata solo per abitarvi d’estate), le pareti gocciolavano per l’umidità.
L’Imperatore, nonostante il benevolo avviso che sarebbe stato bene aspettare sino all’estate, compì il passaggio a mezzo febbraio.
La nuova e ultima abitazione
Insieme coi fanciulli era venuta a Funchal una quantità di pacchi ed altri oggetti. Tutto questo doveva essere trasportato al Monte. E Carlo Imperatore aiutava anche lui a fare i pacchi, caricarli e scaricarli. Nei ritagli di tempo si occupava sempre dei bambini. Assisteva anche la sua più piccola, l’arciduchessa Lotti che stava ancora nella culla.
Benché l’animo suo fosse tormentato al considerare la miseria dei suoi popoli, benché fosse oppresso da tante sollecitudini, da tante nostalgie, restava sempre, in tutto il suo contegno, sereno e tranquillo. E sempre ripeteva: “A noi la va bene più di quello che meritiamo”.
Terminato il trasporto, la famiglia si raccolse, per la prima volta, nella sala da pranzo per la preghiera comune: terminata la quale, passò a benedire la casa, e i singoli vani di essa Mons. Zsàmboki, il giovane Sacerdote della famiglia, ch’era entrato in essa insieme con altre persone destinate all’educazione dei bambini.
Nei giorni seguenti, l’Imperatore prese seco molte volte, nelle sue passeggiate, i due figli maggiori, il Principe ereditario Ottone e l’Arciduchessa Adelaide.
Un giorno avvenne che s’incontrassero in un funerale. Dietro la bara camminava un bambino che piangeva e dava la mano alla madre tutta vestita a lutto. Ottone e Adelaide ne rimasero scossi. “Certo è morto suo padre”, disse uno di loro; “povero bambino!”.
“Sì, povero bambino!”, ripetè l’Imperatore. Un’ombra passò sopra il suo volto.
Il 2 marzo tornò l’Arciduca Roberto, perfettamente guarito, tra le braccia dei suoi genitori. L’accompagnava la contessa Korff-Schmising-Kerssenbrock.
Ancora una volta, e per brevissimo tempo, potè stare insieme col padre la sua famiglia: in circostanze che si possono meglio da ogni altra fonte, togliere dallo scritto d’una cameriera che in quei giorni si trovava con lui.
A cagione della sua originalità riproduciamo qui lo scritto parola per parola.
“Noi siamo passati da Funchal al Monte. Lassù non c’era quasi niente di mobili, e quasi tutto abbiamo dovuto prendere in prestito dall’Hotel Vittoria. Anche il nostro trasporto, biancheria, vasellame, bicchieri, non era ancora venuto: e perciò anche queste cose abbiamo dovuto prenderle in prestito dall’Hotel. In questi giorni ho dovuto, la maggior parte del tempo star laggiù, occupandomi dei letti, armadi, bicchieri, tini e altri utensili e servizi per acqua. Anche quassù, naturalmente, c’è molto da fare. Laggiù sarebbe certo molto bello; ma le povere Maestà non hanno danaro e non potevano più pagare l’Hotel troppo caro per loro, e un banchiere, che è uno dei padroni dell’Hotel, aveva offerto alle Loro Maestà, gratuitamente, una villa sul Monte, ciò che le povere Maestà, naturalmente, hanno accettato, e con ringraziamenti.Ora qui, al Monte, appena nei mesi dì maggio e dì giugno si comincia a star bene: laggiù, invece, c’è un bel sole ogni giorno, e, anche quando piove, è cosa che non dura molto. Quassù, invece, abbiamo appena tre giorni belli, poi sempre pioggia, nebbia, umidità. Quassù non abbiamo luce elettrica; acqua ne abbiamo al primo piano e giù nella cucina. La villa sarebbe bella, ma abbiamo poco posto, benché vi sia appena il personale strettamente necessario. Per il riscaldamento non abbiamo che legna verde, che manda fumo di continuo. Qui non si può lavare che con acqua fredda e sapone. Grazie a Dio qui abbiamo la nostra caldaia che si mette fuori all’aperto. La biancheria, lavata nell’acqua fredda, si mette al sole. È vero che qui il sole riscalda molto, ma quando c’è. La casa è tanto umida e puzza di muffa. In tutti si vede il fiato che mandano fuori dalla bocca. II povero Imperatore prende solo tre pasti al giorno. In ogni angolo, in ogni estremità della casa manca qualche cosa. II maestro dei fanciulli abita in una casetta del giardino, mezzo disfatta, con un solo locale, aggiustato alla meglio. In una seconda casetta, anch’essa cadente, c’era un solo locale. Questo fu diviso con una parete di assi in due spazi e vi furono collocati due servitori con le loro mogli. Ciò che è il peggio, Sua Maestà l’Imperatrice avrà in maggio un bambino; e non si potrà avere né una levatrice né un medico. Qui c’è solo una bambinaia, ma è del tutto inesperta. Qui io sono proprio disperata. Bisogna fare una protesta. Le Loro Maestà non si muoveranno; e, senza dire una parola, si lasciano chiudere in un buco di cantina a pane ed acqua, se questo si esige da loro. Nella nostra cappella domestica c’è alle pareti un ben grosso strato di muffa. In tutte le stanze non si potrebbe resistere, se non vi fosse continuamente il fuoco del camino. Naturalmente, tutti ci aiutiamo l’un l’altro per far guerra al male. Alle volte viene proprio meno il coraggio: ma quando vediamo con quanta pazienza le Loro Maestà accettano tutto, riprendiamo fiato e tiriamo innanzi. Sua Maestà l’Imperatore ha già da qualche settimana un catarro maligno con tosse. Anche l’arciduca Carlo Lodovico sta a letto con raffreddore. Delle mucche, qui, ce ne sarebbero molte, ma tutte tubercolotiche, e il loro latte deve essere cotto bene… “.
Le relazioni con la patria, in quei giorni, a cagione della irregolare organizzazione delle poste, erano interrotte quasi del tutto. L’Imperatore aveva questa sensazione d’essere da tutti abbandonato, da tutti dimenticato. Ma le ore dell’abbandono non valevano a piegare, ad abbattere il suo animo. “Io sono”, diceva, “riconoscente al mio Dio per tutto quello che Egli manda”.
II 9 marzo, l’Imperatore, insieme col Principe ereditario e con l’Arciduchessa Adelaide, fece una passeggiata. Voleva comperare giocattoli per l’Arciduca Carlo Lodovico, di cui si avvicinava il compleanno.
Giù nella città faceva molto caldo; e pare che, nel ritorno, l’Imperatore si sia raffreddato alquanto, passando per quella regione nebbiosa e più fredda.
Il giorno appresso si celebrò quel compleanno; e fu l’ultima festa di famiglia, cui prendesse parte l’Imperatore.
Il 14 marzo uscì per l’ultima volta per far delle compere. Appena tornato cominciò a sentirsi male, colpi di tosse, mancanza di respiro. Si vide costretto a mettersi a letto.
Il giorno della festa di S. Giuseppe fu celebrata la Santa Messa nella sua stanza. Qual fu la sua consolazione!
Ma intanto la malattia progrediva. Per motivi di risparmio, l’Imperatore, sul principio, non volle chiamare medici. Solo dopo una settimana acconsentì che venisse chiamato il dottor Monteiro. Era il 21 marzo. Il dottore giudicò il caso molto serio. Trovò ch’erano attaccati i polmoni; e raccomandò si chiamasse un secondo medico. Fu scelto il dottor Porro, che venne il giorno seguente e confermò il giudizio del collega.
Intanto era giunto a Funchal il conte Giuseppe Kàroly, fratello dell’infelice rivoluzionario, che portava notizie della patria. Fu subito ammesso. Questa fu l’ultima visita ricevuta dall’Imperatore.
II giorno 23 marzo decisero di far passare l’Imperatore dalla stanza piccola e stretta del primo piano in una del pian terreno, grande e soleggiata, abitata fin qui dall’arciduchessa Maria Teresa.
L’Imperatore non voleva che altri avessero a soffrire per lui; ma finalmente si lasciò persuadere e salì sulla portantina e poi discese senza lasciar che altri lo aiutassero.
Quando ebbe preso possesso della nuova stanza, tosto si videro i figlioli metter dentro il capo dalla porta, gridando: “Buon giorno!”. Ma l’Imperatore, che temeva il contagio, gli allontanò.
Il 25 marzo la febbre salì a quaranta gradi. Tutta la notte il povero infermo fu tormentato da assalti di tosse, ciascuno della durata di tre fino a cinque minuti. Ma niente poteva scuotere la pazienza dell’Imperatore, né quel fare amichevole che aveva con tutti.
Da principio l’Imperatrice prese sopra di sé tutte le cure e le veglie notturne, e solo dopo molti giorni si lasciò aiutare dalla contessa Mensdorff, che aveva imparato assai bene l’arte delle infermiere.
La domenica 26 marzo fu celebrata una Santa Messa nella sala attigua alla camera dell’ammalato, con l’uscio semiaperto tra i due locali. L’Imperatore dopo la funzione, volle che gli fosse letto ancor una volta il vangelo della miracolosa moltiplicazione dei pani. Ma intanto, in quella Messa, era accaduta una cosa meravigliosa.
Certo la gravissima infermità dispensava l’Imperatore da ogni digiuno eucaristico. Ma egli aveva la persuasione di poter bensì prendere qualche bevanda, ma non cibi. Due ore dopo la mezzanotte aveva preso un biscotto e perciò si astenne dal chiedere la Santa Comunione. Inoltre, temeva anche una profanazione, per il suo continuo tossire. E l’Imperatrice, per incarico dell’Imperatore, comunicò tutto questo al Sacerdote prima della Messa.
Ora che cosa avvenne? Durante la celebrazione cessò del tutto la tosse dell’infermo. Da principio, l’Imperatore aveva ordinato che la porta fosse aperta solo un pochino, per poter udire e non essere veduto: ma poi la fece aprire del tutto dicendo: “Avrei gran piacere di veder l’altare”. Dopo la Comunione del Sacerdote si recitò il Confiteor. L’Imperatore chiese all’Imperatrice: “Chi si comunica?”.
“La contessa Mensdorff”.
“Anch’io vorrei comunicarmi”.
“È impossibile, perché non c’è che una sola particola”.
“Ti prego, va e dì che anch’io devo comunicarmi”.
L’Imperatrice s’alzò, e, giunta alla porta, vide che il Sacerdote aveva già dato la Santa Comunione alla contessa Mensdorff e aveva ancora in mano una seconda particola, e girava intorno lo sguardo, quasi cercando a chi darla.
Durante la Messa, egli aveva sentito in sé una forza misteriosa che lo costringeva consacrare per poi dare ad altri una seconda particola.
L’Imperatrice fece un segno e l’Imperatore ricevette il Corpo del Signore.
Zita pensava che l’Imperatore avesse dimenticato il biscottino da lui mangiato: ma Carlo, nel pomeriggio, discorrendo di quella Santa Comunione, disse: “Oggi m’è accaduto qualche cosa di rimarchevole nella Santa Comunione. Mentre io udivo le parole del Confiteor, mi pareva d’aver Gesù presso di me, e che mi dicesse : “Si, farà la Comunione „. Io non capivo e stavo esitando; e Gesù disse: “Presto, ora la Comunione si deve ricevere! „. Allora non pensai più ad altro; nemmeno pensai che durante la notte avevo preso qualche cosa. Per questo io dissi che tu dovevi far presto”.
La febbre era ancora ai 40 gradi, e perciò si eseguì l’iniezione di terpentina alla gamba destra, operazione dolorosissima, che doveva provocare un tumore e liberare l’infermo dall’infiammazione ai polmoni. In principiò seguì una grande reazione, e l’ammalato si mostrava assai contento e tranquillo. Ma poi si gonfiò tutto il ginocchio e diventò straordinariamente sensibile.
Il giorno seguente si ripetè l’iniezione e se n’ebbe il medesimo risultato.
Quanto acerbi fossero i dolori dell’Imperatore, si poteva riconoscere solo quando prendeva un po’ di sonno; perché allora, appena si fosse toccato, anche leggerissimamente, dava segni di gran dolore, e, senza accorgersene, stendeva la mano cercando di tenere lontana la coperta dal punto, ove era l’infiammazione.
Gran gioia era per lui udire dalla finestra le voci dei figlioli che giocavano e lo chiamavano. Una volta distinse la voce del Principe ereditario, che passeggiava col Conte Kàroly e parlava ungherese. Gli Arciduchi Felice e Carlo Lodovico erano anch’essi ammalati di grippa e giacevano a letto. Per qualche tempo ebbero a trovarsi non tanto bene, e l’Imperatore non finiva d’informarsi del loro stato. La Contessa Herssenbrock doveva dare informazioni molto minute.
Proprio quel giorno (la quarta domenica di quaresima) gli abitanti di Funchal organizzarono, come al solito di tutti gli anni, la loro processione alla chiesa del Monte in onore di Gesù portante la Croce.
Questa volta la processione si fece “per la salute del buon Imperatore Carlo”. Molti, dopo la processione, vennero alla villa per informarsi delle condizioni dell’infermo.
Il 27 marzo portò un peggioramento. Durante la notte gli si diede un po’ di gelatina. Poi, tutto malinconico, disse : “Già lo so che non sono obbligato a ricevere la Santa Comunione, ma La desidero tanto!”.
L’Imperatrice parlò con Mons. Zsàmboki, il quale decise di dargli la Santa Comunione la mattina seguente, come fece. Anche poi la S.Comunione gli fu data ogni giorno. Più volte, il Santissimo rimase esposto nella sua stanza durante il giorno, per più ore.
Durante il giorno non c’era più quella tosse così tormentosa, ma si faceva peggiore nella notte. Cominciò a fantasticare. La febbre era salita a 40,5. La mancanza di respiro pareva proprio insopportabile. Fu necessario dargli dell’ossigeno.
Quando l’ammalato s’accorse che volevano dargli quella medicina, chiese : “Sto proprio così male, che sia necessario darmi l’ossigeno?”.
Nel pomeriggio fu constatata un’infiammazione gripposa bilaterale, dei polmoni, e si mise mano a iniezioni di canfora e di caffeina.
Verso sera lo stato dell’ammalato peggiorò nuovamente. Mons. Zsàmbocki consigliò di dare all’Imperatore l’Estrema Unzione. Appena l’Imperatrice gliene parlò, Carlo se ne mostrò subito contento, e pregò gli fosse amministrata quella sera stessa. Volle che anzitutto Zita gli leggesse il rituale, tutto quello che riguarda l’Estrema Unzione, per poter poi seguire assai bene le cerimonie e le parole.
Poi chiese di confessarsi, dicendo: “Prima di ricevere un nuovo Sacramento, voglio confessarmi”.
Poi pregò che tornasse ancora presso di lui il giovane Sacerdote della casa, e disse forte e solennemente : “Io perdono a tutti i miei nemici, a tutti coloro che mi hanno offeso e a tutti quelli che lavorano contro di me”.
Poi diede l’ordine: “Venga Ottone”. Erano le dieci di notte. Avevano già svegliato il principe ereditario: ma si meravigliavano di quel desiderio dell’Imperatore, che, fin qui, per timore di qualche infezione, non aveva mai permesso ai figlioli d’entrare nella sua stanza.
Come egli venne, lo chiamò proprio vicino al suo letto, dicendo: “Egli deve vedere tutto e bene”. Così l’Imperatore ricevette l’Estrema Unzione alla presenza dell’Imperatrice e del suo primogenito. Il principe ereditario, quando fu nuovamente fatto uscire, baciò al proprio padre la mano, e Carlo gli sorrise.
Appena lasciata la stanza il principe scoppiò in pianto, “perché il papà aveva un aspetto così miserabile, col Crocifisso in mano, come se dovesse morire”. Più tardi aggiunse: “Adesso capisco perché la Madonna era così addolorata sotto la croce”.
Quando si era parlato per la prima volta della Estrema Unzione, l’Imperatore aveva detto con volto amichevole e tranquillo, senza alcun lamento: “Ringrazio il buon Dio, che sia giunta la fine di questo giorno. Io non avevo proprio mai saputo che vi potesse essere un giorno così penoso”. L’Imperatrice, benché attentissima a tutto, non avrebbe mai pensato che Carlo, proprio in quel giorno, avesse tanto patito: la pazienza inesauribile dell’Imperatore, la mancanza in lui d’ogni pretensione erano tali che sapeva, esternamente, far comparire come bagatelle i propri dolori.
Dopo l’Estrema Unzione, alle 11 di notte, subentrò un miglioramento, e la notte passò tranquilla. Per la prima volta l’Imperatore permise che la contessa Mensdorff l’aiutasse durante la veglia notturna; e, dopo quindici giorni, l’Imperatrice potè, durante la notte, riposare alquanto. Tuttavia rimase vestita.
Alle sette s’alzò e tornò a mettersi presso il letto dell’Imperatore.
La contessa Mensdorff, per parte sua, non voleva ritirarsi per riposare; ma l’Imperatrice le comandò espressamente d’andare a letto, dicendo: “Se Lei, ora, non vuole andare a dormire, non Le permetto più nemmeno di darmi aiuto, ne di vegliare la prossima notte”.
Le veglie notturne di Zita erano oltre ogni dire penose. È vero che l’Imperatore si asteneva dal manifestare alcun desiderio per non stancare minimamente la persona che lo vegliava; ma è chiaro che spesso conveniva far cambiare la posizione all’ammalato per rendergli più facile il respiro. Egli non finiva d’insistere che l’Imperatrice andasse a riposare. Spesse volte Zita fingeva di dormire, e intanto osservava l’ammalato, tenendo semiaperte le ciglia.
Quel miglioramento fu di breve durata. Il 28 marzo, prima del mezzogiorno, l’Imperatore espresse il desiderio che si mandassero dei telegrammi al Primate Czernoch e al Cardinale Piffl per informarli del suo stato.
Dapprima si volle lasciar pensare all’Imperatore che si trattasse d’una bronchite grave: ma questi non si lasciò ingannare.
Parlò, sorridendo, della “cosiddetta” bronchite. La sera fu constatato un nuovo focolare d’infiammazione nei polmoni. La febbre si teneva sempre sopra i 40 gradì.
Partiti i medici, l’Imperatore chiese: “Che cosa hanno detto?”.
“Sono contenti”.
Ma Carlo scosse il capo sorridendo, e osservò : “So abbastanza il portoghese per intendere le loro osservazioni”.
Durante il giorno s’informò della salute del Principe ereditario. Gli si potè dire che, grazie a Dio, Ottone stava benissimo. L’Imperatore soggiunse: “Povero ragazzo! Ieri gli avrei volentieri risparmiato la visita. Ma era necessario chiamarlo a motivo dell’esempio. Egli deve sapere come abbia a contenersi, in simili casi un cattolico e un Imperatore “.
Cominciò un tantino ad addormentarsi, e l’Imperatrice prese in mano un giornale di Vienna. L’Imperatore aperse gli occhi e la pregò di leggergli quel giornale. Ma, poiché ogni conversazione lo faceva stancare. Zita disse; “Non c’è niente d’interessante”.
Ora volle udire dal giornale portoghese gli ultimi telegrammi sopra la conferenza di Genova; e, avendogli risposto l’Imperatrice che ciò lo avrebbe stancato, le rispose con molta energia: “Tu sai che questo non importa niente. È mio dovere di tenermi al corrente, non mio diletto. Ti prego, leggi!”.
Nel pomeriggio tornò a vaneggiare. Questi brevi vaneggiamenti servivano a dar sempre nuova luce per conoscere il suo interno e i suoi occulti pensieri.
Questi riguardavano sempre i figlioli, la patria, l’esercito, i doveri d’un monarca. Ora si occupava dei fanciulli viennesi, ai quali doveva procurare il latte, spesso si adoperava per avere un po’ d’acqua per un soldato ceco nel lazzaretto. E sempre nuovamente lo affliggeva l’omesso sgombro della Transilvania prima dell’entrata dei Rumeni, e si sfiatava parlando di essi con Tisza.
In questo giorno cominciò a chiedere ripetutamente della fine della settimana. “Oggi è forse venerdì?”, chiedeva già nel martedì. “Viene presto il venerdì?”.
“Che giorno della settimana è oggi?”. Pareva che non potesse aspettare la fine della settimana.
Mercoledì, 29 marzo.
La notte fu tranquilla, fino alle due del mattino. Alle quattro subentrò per la prima volta un indebolimento del cuore. I medici la dichiararono una crisi.
Bisognava porvi sopra, ogni ora, semi di lino con sènapa. L’Imperatore sentiva nausea di questi medicamenti, e disse: “Ora cominciano a sporcarmi questo letto, fin qui del tutto pulito”.
In principio, era per lui un tormento lasciarsi mettere le fasce dalla Contessa Mensdorff; e si mostrò riconoscente, quando questa gli disse che bastava offrirle il braccio destro fuori della camicia. Spesso sì addormentava e fantasticava: ma tosto cresceva la oppressione del cuore e la difficoltà del respiro. Tra l’uno e l’altro di questi assalti, l’Imperatore chiedeva dei suoi figlioli: quale di essi fosse sano, quale la temperatura dell’ammalato.
In quel tempo, gli Arciduchi Carlo Lodovico e Felice giacevano a letto, malati d’infiammazione ai polmoni; anche l’Arciduca Roberto aveva contratto una malattia agl’intestini. Anche tutto il personale, uno dopo l’altro era stato colto dall’influenza.
Inoltre l’Imperatore chiedeva notizie del Conte Kàroly, e se erano venute buone notizie dalla patria.
L’ammalato, nonostante l’ultima febbre, passava, parlando con tutta facilità, da una lingua all’altra. Salutava i medici in francese, e con la Contessa Mensdorff parlò ceco fino all’ultima ora. Le sue mani erano in continuo moto, e passavano sopra le coperte del letto quasi come per cercare qualche cosa. Spesso contemplava l’estremità delle dita, che, dal lunedì, avevano cominciato a farsi azzurre. I dolori nelle gambe sembravano insopportabili.
Era già il terzo giorno che sosteneva questa tortura
senza poter appoggiarsi al lato destro. “La gamba duole?” chiese il medico. “Niente affatto”. Ma il medico constatò: “Essa deve certo farLa patire molto “.
Nemmeno a sua moglie voleva ammettere ch’egli patisse tanto.
“Ho promesso al buon Dio”, disse durante la notte all’imperatrice, “la cura che vogliono fare; non fare di mia testa nulla che non sia necessario, ma, per Suo amore, ubbidire in tutto alle prescrizioni dei medici “.
Così se ne stava in silenzio e senza esprimere alcun desiderio.
Talvolta accadeva che, per non disturbare, stesse in posizione molto incomoda, nonostante la difficoltà, che provava, a respirare. E appunto perché se ne stava cosi tranquillo, nessuno voleva molestarlo. Così egli pativa in silenzio, e senza far udire alcun lamento.
Una volta avvenne che, essendo uscito dal luogo ov’era stato collocato un fiasco d’acqua caldissima, toccò il punto ov’era stata fatta una iniezione. Dapprima egli si morse le labbra, ma poi disse tutto tranquillo: “C’è qualcosa sopra il mio piede: prego di levare quella cosa, che mi brucia tanto”.
L’Imperatrice Zita sbagliò dapprima, recandosi a un punto del letto diverso da quello ov’era il male, e così perdette un po’ di tempo. Ma quale non fu il suo raccapriccio trovando poi il fiasco sopra il tumore senza che l’ammalato dicesse nemmeno una parola o facesse un lamento!
Le sue fantasie, e anche i suoi pensieri avvertiti, si occupavano nuovamente dei fanciulli: “Ho tanto desiderio dei figlioli: ma ti prego non permettere che entrino, sarebbe un’imprudenza”.
Verso mezzogiorno, l’Imperatrice lasciò, per un tempo assai breve, la stanza dell’ammalato. In non più d’otto minuti si lavò le mani, fece una visita ai figlioli e prese il suo pranzo.
L’Imperatore, vedendola tornare, si mostrò grato, e chiese: “Come? solo otto minuti? A me pareva che fosse passato un tempo molto più lungo”. Ora ella restò presso di lui, senza più allontanarsi.
Solo nelle prime ore del mattino, mentre egli sonnecchiava, si portò alla cappella e pregò il Sacerdote di darle la Santa Comunione.
Giovedì, 30 marzo.
La notte, l’Imperatore ebbe molto a patire. Dormendo, ripeteva spesso: “Sono stanco. Sono così stanco”. Poi, essendo sveglio, disse all’Arciduchessa Maria Teresa: “Ti prego, nonna, vedi che non abbia tanto a sudare!”.
“I medici dicono che ti fa bene”.
“Ma io temo che non potrò più a lungo resistere”.
L’Arciduchessa accennò con la mano il Crocifisso, e disse: “Che, per noi ha sudato sangue”.
Carlo Imperatore toccò anch’egli il Crocifisso, e lo considerò con uno sguardo ben lungo, poi più volte piegò il capo per assentire. Da questo momento non fece più parola del tormento che gli dava il sudore, il qual tormento certo dovette continuare fino alla morte.
“Come sono diventato magro!”, disse una volta considerando le sue braccia consumate.
La sera si rese visibile un piccolo miglioramento. I medici ordinarono una seconda iniezione di terpentina, questa volta alla gamba sinistra. Sebbene l’Imperatore sapesse qual dolore lo attendeva, e che, da quel momento non avrebbe potuto appoggiarsi nè a destra nè a sinistra, si mostrò subito, nel modo più amichevole, pronto e fece tutto quello che occorreva per prepararsi. Durante la notte furono constatati due nuovi focolari d’infiammazione nei polmoni. I medici applicarono alla schiena sei ventose (coppette). L’infermo sentì qualche alleggerimento, ma era stato comperato con dolori. Essendosi poi, ancor cinque volte, ripetuta la stessa procedura, la schiena dell’Imperatore, un po’ alla volta diventò una sola piaga, la quale gli procurava un tormento, essendo obbligato a giacere disteso. Ma non si udiva un lamento, non un sospiro.
I medici pensavano ad una trasfusione di sangue: la prima ad offrirsi tu l’Imperatrice. Ma poi si lasciò cadere questo pensiero.
Nel pomeriggio l’Imperatore vaneggiò molto. Pensava che fossero venuti degli Austriaci e desiderassero essere ricevuti.
“Ma io non posso. Sono tanto debole!”.
L’Imperatrice cercò tranquillizzarlo e disse: “Poiché tu sei ammalato, voglio andare io a ricevere gli ospiti”. Ma l’Imperatore non permise e, sempre vaneggiando per la febbre: “No”, disse, “poiché sono venuti così da lontano, non voglio respingerli. Falli entrare. Voglio, almeno, far loro un inchino col capo”.
Si sforzava, con gran fatica, a fare dei saluti, e aggiungeva : “Ma ciò mi stanca tanto, mi stanca tanto!”.
Poi sognava di trovarsi davanti a studenti austriaci e di tener loro un discorso sopra il governo degli Habsburgnesì: ma s’interrompeva dicendo: “Non è questa una sciocchezza? Non c’è niente da fare. Non si conchiude niente”.
Una volta si coperse tutto di sudore, e, insieme, di tristezza, e sussurrò all’Imperatrice “Povera Elisabetta! Quanto deve patire in questo momento!”.
Durante la notte spesse volte si scuoteva spaventato, e chiedeva: “Dove siamo? Siamo tutti sicuri al Monte? Anche tutti i figlioli? Sono tutti insieme? Succede loro qualche disgrazia? “.
“No, Maestà”, rispondeva la Contessa Mensdorff.
“Sta con essi la Korffi”. Così nuovamente si acquietava. Al mattino, mentre la Contessa l’aiutava a passare ad un altro letto, lo udì dire: “Quanto è buona cosa confidare nel Cuore Santissimo di Gesù; altrimenti tutto questo non si potrebbe tollerare!”.
Venerdì, 31 marzo.
La notte fu relativamente tranquilla e la febbre per qualche tempo, discese a 39,5; ogni minuto, da 50 a 55 respiri. Chiese “Mamma!”. Poi: “Max”, (Massimiliano), “sei tu?”. La voce era forte, nonostante la terribile mancanza di respiro.
Gli furono applicate, due volte, sei ventose. Intanto venne dentro Anna Hubalde, portando sul braccio una bottiglia d’acqua calda, coperta.
L’Imperatore chiese: “È il bambino? Datemelo qua”.
Le sue braccia, a cagione delle frequenti iniezioni, erano infiammate, e gl’impiastri di senapa, mèssivi sopra, abbruciavano la schiena già piagata dalle ventose, cosicché ne uscirono quattro grandi bolle di scottature. Si era collocata nel letto una spalliera: ma l’ammalato non poteva star seduto se non con gran disagio. Bisognava legargli la testa, perché egli non aveva più forze per tenerla dritta.
Voleva sputare; ma, sollecito com’era del pericolo d’infezione, domandò: “Ci sono qui i figlioli?”.
“No”, disse l’Imperatrice, “non ci sono”.
“Ho udito qualche rumore presso il paravento”.
“No, i nostri fanciulli non ci sono qui”.
“I nostri no; ma io non voglio comunicare il male a nessun fanciullo”.
Durante la sua ultima infermità, il dominio di se stesso, l’intensa tenacia, la forza d’animo inesauribile di Carlo si dimostrarono così chiaramente come mai in altri tempi. I medici affermavano che non avevano mai veduto una tal forza d’animo. Rimaneva poi inesplicabile il fatto che l’infermo sapeva dominare le proprie facoltà spirituali, nonostante la febbre alta, nonostante il dolore, il malessere, gli indicibili dolori corporali. Una sola volta si sbagliò, salutando i medici in tedesco, ma subito si corresse e salutò in francese.
Ogni giorno s’informava come stessero il giardiniere e il portinaio, ch’erano ammalati. Mai chiese d’aver qualche sollievo.
Nelle ultime ore del pomeriggio l’infermo era, più del solito, stanco e in uno stato compassionevole, perché gli assalti di tosse, che non finivano mai, da molto tempo non gli avevano permesso di dormire convenientemente. L’Imperatrice Zita trasse fuori l’immagine del Sacro Cuor di Gesù che stava sotto il guanciale di Carlo, e gliela tenne davanti agli occhi, dicendo che gli era assolutamente necessario un po’ di sonno, e perciò chiedesse a Gesù questa grazia.
L’Imperatore fissò l’immagine e disse pieno di fiducia: “Caro Salvatore, Ti prego, fa ch’io dorma!”. S’addormentò immediatamente, e dormì tre ore.
L’unico mezzo per facilitargli alquanto il respiro era l’ossigeno. Doveva essere portato da Funchal entro sacchetti. Ma se ne trovava pochissimo, e ogni balla bastava solo per sette minuti.
Poiché l’Imperatore mostrava di sentir così terribilmente bisogno d’aria, tanto che appena poteva aver pace qualche momento, l’Imperatrice credette bene di esortarlo ad aver coraggio: e cominciò dicendo che certo era cosa molto difficile aver pazienza senza stancarsi mai. Egli la guardò meravigliato, e chiese:
“Stancarsi? Lamentarsi? Ma, quando si conosce la volontà di Dio, tutto è buono”.
E, qualche momento appresso: “Ora voglio dirti al tutto chiaro come la penso: io tendo sempre e unicamente a questo, a conoscere sempre e in tutte le cose, più che sia possibile, chiaramente, – e seguire la volontà di Dio, – e precisamente nel modo più perfetto”.
E, dopo qualche istante, ripete: “Soltanto non lamentarsi”.
S’era fatto sera (31 marzo). L’Imperatrice aveva cominciato a recitare tutte le solite preghiere dell’Imperatore invece di lui, perché egli non dovesse affaticarsi troppo. Ma ebbe ad osservare come tuttavia le labbra dell’Imperatore continuamente si muovevano, onde lo pregò che finalmente cercasse di dormire, perché essa aveva veramente recitate le preghiere in luogo suo. L’Imperatore assicurò: “Io veramente prego solo perché abbia fine lo scisma in Boemia”.
“Anche questo ho già fatto per te”.
“Sì, ma una volta sola. Io prego a questo fine tante volte durante al giorno. Non posso mai tornare abbastanza spesso a far questo. E poi ho pregato per tutte le altre intenzioni”.
“Anche per queste ho pregato”.
Carlo la guardò sorridendo e disse: “Ma tu non sai per quante altre cose io prego”.
“Anche per questo si è pensato”, soggiunse essa.
“Io ho pregato per tutte le cose, per le quali, inoltre, tu sei solito pregare, anche se io non so quali siano queste cose”. Carlo piegò il capo in segno d’approvazione.
Ma l’Imperatore era ancor sempre nella impossibilità di prendere sonno, ed era molto agitato. L’Imperatrice sedeva vicino al suo letto, e teneva la sua mano. Finalmente lo interrogò quale fosse la cosa che lo inquietava.
“Niente, grazie a Dio, tutto va bene. Solo non posso dormire “.
Dopo nuove interrogazioni, finalmente manifestò il suo desiderio. ” Avrei caro “, disse, ” di bere un po’ d’acqua. Ma solo a patto che tu non abbia, per questo ad alzarti e a stancarti “. L’Imperatrice subito si alzò e portò l’acqua. Era così contenta di potergli dare qualche cosa: appunto per questo sedeva presso il suo letto.
” Ah! “, disse l’Imperatore, “ sempre sto vacillando tra il mio immenso amore per te e per i figlioli da una parte, e il mio egoismo dall’altra “.
Un bicchier d’acqua: questo era dunque ch’egli chiamava il suo egoismo!
Molto tardi, quando le ombre della notte già avvolgevano ogni cosa, sospirava dicendo, nella febbre:
“Ma perché non ci lasciano andare a casa? Io vorrei andare a casa con te “.
Finalmente si addormentò un pochino.
In questa notte anche l’Imperatrice potè concedersi un po’ di riposo, e lasciare alla Contessa Mensdorff il servizio immediato dell’ammalato. Era la notte dal venerdì 31 marzo al sabato, primo aprile 1922.
Dopo breve tempo, l’Imperatore si svegliò, volse gli occhi al Crocifisso, e cominciò a pregare. Era tanto debole, che la Contessa doveva aiutarlo a congiungere le mani. Dopo un po’ di tempo disse: “Non posso più. Sono cosi stanco!”.
La Contessa pregò: “Vostra Maestà deve piuttosto dormire”. Ma egli aggiunse: “Ho ancora tanto da pregare!”.
Verso le cinque del mattino, subentrò un indebolimento del cuore. La febbre si abbassò fino a 37,7; poi subito salì a 38,1 e 38,3.
Fino a qui l’ammalato stava continuamente attento a farsi capire da tutti, comunicando loro qualche suo pensiero. Ma ora non faceva altro che sorridere amichevolmente e chinare il capo.
Intanto l’Imperatrice che, durante quella notte, aveva ricevuto la Santa Comunione, e poi si era coricata alquanto, era tornata presso l’ammalato.
Venne Mons. Zsàmboki, diede all’Imperatore la benedizione degl’infermi, e gli comunicò la Benedizione Papale ch’era appena arrivata.
Alle 7 e un quarto, essendo necessario rifare il letto, l’Imperatore fu trasportato nell’altro letto. In quell’istante, improvvisamente, gli si irrigidirono delle articolazioni, e cosi fu impedito, per più minuti, di muovere le braccia. Terribili oppressioni facevano che l’ammalato non potesse respirare se non con estremi sforzi. Si dovette spalancare la finestra. Con dita quasi fossero di ferro strinse la mano dell’Imperatrice.
L’Arciduchessa Maria Teresa coperse gli occhi dell’ammalato con un cuscino, affinchè non fosse offeso dall’accecante luce nebbiosa.
“Ti prego, nonna, non stancarti!”. Queste parole uscirono da labbra già azzurre. Le mani e le braccia erano diventate fredde. I medici gli fecero iniezioni di sale di cucina. Il loro giudizio: “Ancor due ore!”.
Tutt’e due i medici piangevano come bambini, e il dottor Porro, disse stringendo le mani: “Tutto è perduto, se qui non avviene un miracolo”.
L’ammalato era tormentato dalla sete. La febbre salì a 39,1. II polso si faceva ognor più rapido.
Mentre un medico, dietro il paravento, preparava le iniezioni, l’Imperatore, nella febbre, chiese: “Buon dottor Delug, che cosa fa lei sempre?”. Ma sùbito, riflettendo che il dottor Delug doveva essere in Vienna, scosse il capo e si scusò.
L’Imperatrice andò a mettere in ordine il letto e pregò la Contessa di tenere, intanto, la mano dell’Imperatore, il quale, volgendosi alla sua consorte, fece un sorriso di gratitudine. Ma l’Imperatrice, al vedere quei lineamenti coperti di pallore mortale, benché si sforzasse di dominare perfettamente se stessa, fu colta da visibile spavento, e a stento potè chiedergli come si sentisse. Ed egli rispose: “Bene”.
Poco appresso lo colse un gelo, che lo faceva tremare. Non piacendogli questo suo tremore, scosse il capo, dicendo: ” Io non ci ho colpa “.
L’Imperatrice era uscita a parlare coi medici: ma bentosto Carlo cominciò a chiam