Francescano, ardente testimone della carità di Cristo
L’avventuriero dell’amore
C’è un detto di san Francesco – a lui attribuito dallo Specchio di Perfezione, ma usato dal beato Egidio, uno dei suoi primissimi compagni – che può essere assunto come emblema per rappresentare l’operoso impegno di carità evangelica e francescana di P. Ludovico da Casoria (al secolo Arcangelo Palmentieri): Tantum scit homo quantum operatur, «Tanto l’uomo sa quanto opera».
Quest’espressione che esprime la concretezza animosa di san Francesco, sempre pronta a intraprendere, per amore di Dio, nuove grandi imprese, senza riguardo alcuno alla stanchezza o alla malattia, si applica opportunamente a Ludovico da Casoria perché la vera fisionomia, il vero volto e la santità di vita vennero fuori splendidamente attraverso il fervore delle opere. Francescano, annunciatore della gioia e dell’amore che il Poverello aveva predicato, egli si accostò ai più poveri dei poveri. Si chinò verso di loro come «Buon Samaritano» che si ferma sulla strada di fronte alle difficoltà di coloro che soffrono, che si prende cura delle loro necessità, che si china per lenire le ferite, che sa rendere concreta la speranza di una vita migliore. Padre Ludovico, frate meridionale appassionato della carità, fu travolgente nella sua attività in favore dei deboli. Ma il suo non fu vuoto attivismo: la sua era un’azione senza soste guidata dal fuoco dell’amore per Dio e per i fratelli. Oggi, di fronte all’estendersi delle sacche di povertà «tradizionale» e insieme all’affacciarsi di nuove forme di povertà, l’opera di Padre Ludovico sarebbe più che mai necessaria. Ma sarebbe esigente, efficiente, soprattutto efficace, con quell’amore che «contagia» generando nuovo amore, nuova speranza di vita. Sarebbe amorevole compagno di viaggio di disabili, tossicodipendenti, immigrati, nomadi, barboni; amico e «padre» per quei minori che in tanti, nelle strade del Sud, sono condotti da adulti senza scrupoli sull’abisso della violenza, fino a diventare smarriti e disorientati sulla propria capacità di ritrovare un retto percorso morale e di rispettare la propria stessa dignità. Servire, educare, istruire: padre Ludovico raccomandava questo. Anche oggi avrebbe molto da dire, molto da dare alla sua Casoria, al Mezzogiorno d’Italia, al Sud del mondo. Sarebbe sicuramente protagonista di un cammino di sviluppo autenticamente umano, Chiamerebbe per nome le ingiustizie; condannerebbe i disonesti; prenderebbe le difese dei poveri, degli emarginati, delle vittime della violenza, dei senza lavoro; reagirebbe indignato di fronte alla barbarie mafiosa e camorristica. Sarebbe, come fu nel suo tempo, esempio limpido per i laici sulla strada di una carità che sia non solo aiuto al fratello che soffre ma autentica promozione umana. Una strada che dà qualità alla carità e la carica di significati alti.
La decisione
La scelta dei poveri e degli infermi maturò in Ludovico nel 1847, dopo dieci anni dall’ordinazione sacerdotale e dopo quindici dal suo ingresso come novizio nell’Ordine Francescano a san Giovanni del Palco, in Lauro, presso Nola. La sua vita cambiò quasi all’improvviso, con una folgorazione mistica e con una meditazione dell’11 novembre 1848, festa di san Diego d’Alcalà, che a Roma, all’Ara Caeli, aveva eroicamente assistito nel 1450, gli infermi. Il ricordo di san Diego e soprattutto l’esempio di san Francesco che, dopo essersi fatto povero, si era messo al servizio dei lebbrosi, lavandone i piedi e fasciandone le ferite, gli suscitò il primo proposito di carità, che fu di aprire nel convento di san Pietro ad Aram in Napoli un’infermeria per i frati della provincia che ne erano privi. Ottenuta la licenza dal P. Provinciale, trasformò alcuni ambienti del Convento, aprì una piccola farmacia «per i poverelli di Cristo», si trasformò in questuante di carbone per la sua povera cucina e di medicine e di altro per la sua farmacia. Fu questa la fiamma che accese un grande incendio perché P. Ludovico associò alla sua opera di carità i fratelli e le sorelle del Terz’Ordine nelle numerose Fraternità da lui istituite e ad essi diede una direttiva molto precisa: «Un paese dove non c’è un ospedale per i poveri è un paese morto. Non mi piace una Congregazione del Terz’Ordine senza un’opera di carità. Nei paesi la Congregazione deve erigere, mantenere, assistere un piccolo ospedale, un’infermeria per la povera gente che muore sulla paglia, abbandonata e senza soccorso. Ogni terziario deve dare una camicia, un lenzuolo e si fa il guardaroba per l’Ospedale dei poverelli». E spiegava: «Dite a un povero malato che sta sulla paglia: Confessati! Non capisce! Egli sente i dolori della sua infermità, le angustie della sua miseria e non capisce altro. Ma se voi lo levate dalla paglia e lo mettete sopra un buon letto, con lenzuola pulite, gli mutate la camicia sudicia e gli date una tazza di brodo, una minestra, un pezzo di carne, egli si solleva e si sente rivivere. Dopo gli parlate di Dio, di Gesù Cristo e gli dite: Ti vuoi confessare?
Quegli piange, si confessa e benedice Iddio». Come si vede, una metodologia semplice e immediata come quella di san Francesco col lebbroso di Sansepolcro!
E senza sottintesi. Dopo la piccola infermeria di san Pietro ad Aram, troppo piccola, P. Ludovico, assistito e aiutato dagli amici Parisi e Pellegrini pensò ad acquistare sulla collina dello Scudillo una casa con terreno annesso per ricavarne un Convento e un’infermeria. In quel luogo dovevano essere accolti frati e poverelli della Diocesi di Napoli e lì sarebbe stata la sua cella, o meglio il suo stambugio dal 1852 al 1870, almeno per dormirvi. Di giorno faceva un po’ il vagabondo questuante per l’infermeria e per la mensa dei poveri, mentre il servizio agli infermi era assicurato da dodici Terziari e dodici Terziarie per i quali P. Ludovico aveva scritto un minuzioso Regolamento.
Nel 1854 un casuale incontro in via Toledo con un sacerdote ligure, don Olivieri, accompagnato da due moretti riscattati come tanti loro compagni dai mercati africani dove erano venduti e rivenduti – spaventoso fenomeno sociale che aveva suscitato enorme impressione in Europa – risvegliò anche in P. Ludovico la passione per l’Africa. Si fece dare i due moretti che erano destinati al convento dei Trinitari e se li portò nel Convento allo Scudillo creando scontento tra i frati. Ludovico vinse la diffidenza e l’incomprensione e raccolse più tardi i frutti della sua carità, quando uno di quei moretti conseguì il diploma di maestro. Padre Ludovico veniva nutrendo un progetto ambizioso. «Convertire l’Africa con gli africani». E pertanto i moretti e le morette riscattati e comperati sui mercati arabi sarebbero diventati, nel suo disegno, sacerdoti e suore missionarie nei loro Paesi d’origine: accanto al Convento sorgeva il Collegio dei Moretti che, prima, due, poi undici nel ’56, poi già 34 nel ’57 e sessanta poco dopo, suscitarono l’interesse di tutta Napoli, dal Card. Riario Sforza ai nobili, alla famiglia reale che s’impegnò immediatamente a riscattare, con decreto di Ferdinando II, dodici moretti sul mercato di Alessandria o del Cairo e anzi P. Ludovico fu delegato dal re di recarsi in Medio Oriente, ad Alessandria d’Egitto, dove fu accolto con onori sovrani.
La carità inestinguibile
L’apertura di cuore di P. Ludovico verso ogni genere di istituzioni caritative, aveva il prezzo di sofferenze, incomprensioni, delusioni, non attenuate dal fatto che non era più solo a sostenerlo perché un bel gruppo di terziari e terziarie secolari lo avevano seguito entrando in vita comune regolare come «frati bigi» e «sorelle bigie» (rispettivamente nel 1859 e nel 1864). Gli Istituti infatti se allargavano il campo della carità non diminuivano gli affanni, le sollecitudini, né lo slancio per nuove imprese di questo autentico avventuriero dell’amore, squattrinato, improvvisatore, ma con il cuore pronto a rispondere a ogni appello.
Ecco l’opera degli Accantoncelli, nata anch’essa tra i vicoli e vicoletti di via Toledo, cuore di una città allora più di oggi selva di bambini vaganti, resa più folta dalla miseria. Scuole, convitti, case di lavoro. Dal 1862 al 1864, inizio dell’opera, già un migliaio di ragazzi erano salvati dall’abbandono, sui 50.000 che vagavano per le strade di Napoli. Alle sette case di Napoli si aggiunsero quelle di Casoria, Terracina, Piperno, Afragola, s. Maria di Capua, Nola, Roma, Eboli. Ma quante? Ad Antonio Stoppani che gliene richiese il numero, P. Ludovico rispose sorridendo: «Non lo so. Io, vede, son fatto così. Quando un’istituzione è riuscita a camminare con i suoi piedi, non ci penso più! Passo a fondare qualche altra cosa e di quelle non mi ricordo più. Son tante, uh!» aggiunse scuotendo il capo. Le contò il suo successore ai Bigi, P. Bonaventura Maresca: fino a 201, alcune modificate, altre scomparse, ma tutte frutto di una generosa risposta all’appello dei diseredati.
I sordomuti e i ciechi sono un’altra strofa di un cantico d’amore. L’Istituto dei sordomuti che era stato aperto a Napoli dal sacerdote don Luigi Aiello fu affidato a P. Ludovico dallo stesso fondatore entrato fra i Bigi (il 13 febbraio 1862 e poi mortovi nel 1866, a soli 47 anni). Un altro istituto per i ciechi e i sordomuti sorse ad Assisi per un’ispirazione improvvisa durante una preghiera davanti a un antico crocifisso di una cappella benedettina abbandonata. Ci si ricorda subito di s. Francesco a s. Damiano. Il 17 settembre 1871, festa delle Stimmate, poco più di un anno dopo quella preghiera, l’opera – benedetta dall’allora Cardinale Gioacchino Pecci, Arcivescovo di Perugia, poi Leone XIII – era inaugurata sui fondamenti della più assoluta povertà, della carità e della libertà. A questo proposito è illuminante un episodio che consente di comprendere lo spirito dell’indipendenza che animava il P. Ludovico. Passando per Perugia, il 20 gennaio 1872, per far conoscere al Prefetto l’opera di Assisi e segnalargli l’opportunità per i sordomuti della Provincia, si sentì accennare da questi che sarebbe stato utile mettere le due opere alle dipendenze dello Stato e di erigerle in enti morali. P. Ludovico rispose decisamente. «Quando le opere si mettono nella moltitudine, nel popolo, non muoiono più; quando si fanno governative isteriliscono. Io rispetto tutti perché sono cristiano. Bacio la fronte al Turco e a Vittorio Emanuele, a tutti. Il frate nelle rivoluzioni deve fare il bene, senza unirsi ai partiti politici». Da questa convinzione ribadita altre volte ai suoi frati («Mai mettersi in mano al governo, mai! Ve ne faccio uno scrupolo») derivò un suo strano progetto dopo la caduta di Roma nel 1870: quello di ricostruire un diverso potere temporale nel riconoscimento della giurisdizione del Papa sulle opere di carità, sottraendole ad ogni ingerenza del potere civile.
Ancora altre opere un po’ ovunque: a Firenze e a Roma, a Sorrento nel celebre «Deserto». Nella Firenze di Cesare Guasti, di Nicolò Tommaseo e Gino Capponi il 20 novembre 1869 si inaugurava un orfanotrofio in via dei Neri prima, poi a Bandino, e lo stesso P. Ludovico si mise a questuare per le vie dell’allora capitale d’Italia per i suoi orfanelli. Dopo varie peripezie, l’Orfanotrofio con tipografia degli artigianelli e scuola di musica, era opera fatta.
In Roma, già nel 1868, con un contributo di Pio X era sorta una piccola scuola affidata a due frati Bigi, che poi in seguito ai fatti del 1870, fu chiusa. Finalmente nel 1879 una lettera di Leone XIII al Card. Monaco La Valletta richiamava l’attenzione sul problema dell’istruzione popolare a Roma, dalla quale il governo liberale dell’epoca aveva escluso quasi del tutto l’insegnamento religioso. L’appello fu subito accolto da P. Ludovico che trovò aiuto nella nobiltà romana. Così spuntò la scuola al rione Macao in via Milazzo. Ma poi, col munifico aiuto dell’industriale laniero vicentino Alessandro Rossi poté avere casa e terreno sull’Esquilino, che poi venne ingrandendosi con la chiesa dell’Immacolata e ottanta vani complessivi (fino alla chiusura nel 1972). Finalmente un’altra opera cara al cuore di P. Ludovico, quella per i vecchi pescatori e per i bambini scrofolosi. Per i pescatori trovò nel 1874 una casa sul mare di Posillipo tra cielo e mare dove andò anche lui a passare gli ultimi giorni della sua vita. Uguale amore suscitò in lui la condizione dei bambini scrofolosi, ai quali serberà una parte dei locali di Posillipo: e siamo nel 1876. Qui siamo obbligati a chiudere un elenco lontanissimo dalla realtà, poiché P. Ludovico passava immediatamente dalla scoperta di un bisogno alla progettazione, alla esecuzione e alla ricerca dei fondi necessari per il sostegno e ciò senza la presunzione di fare cose grandi o in gara con i giganti dell’organizzazione come Don Bosco, da lui incontrato a Roma. Non aveva i fondamenti che non fossero la povertà radicale e la fiducia illimitata, fino all’audacia, nella Provvidenza Divina: «La povertà calpesta il denaro – soleva dire – ci mette il piede sopra».
Alle sorgenti
Di questa e di molte altre iniziative – incluse quelle culturali (come il Collegio della Carità che ebbe tra i suoi allievi illustri Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo) o religiose (come la diffusione della devozione al Sacro Cuore) o sociali e patriottiche (le tipografie degli Artigianelli, i suggerimenti per la soluzione della questione romana in una lettera al Re Umberto I perché trasferisse la Capitale a Napoli e lasciasse Roma al Papa!) – si deve cercare la sorgente e individuare l’idea unitaria, anche per spiegare il «fenomeno» di un frate noto per il suo candore, la sua semplicità sconcertante e tuttavia in grado di promuovere un’infinità di opere e di iniziative. Ebbene la risposta è possibile se si mette all’origine e al termine di tutto, quello che, con geniale intuizione, Antonio Stoppani chiamò il «sistema della carità»: un concetto che lo Stoppani ricavava dall’idea esposta da P. Ludovico per cui tutte le opere di assistenza dovevano, collegandosi tra loro, costituire una specie di Consorzio per «produrre carità» e non semplicemente sopravvivere spremendo quattrini ai ricchi: dovevano non solo cercare risorse, ma anche crearle. Come si vede, la carità era il centro del suo mondo, il focolare del suo ardore, era la sua teologia pratica discendente direttamente dalla sua fede e dalla sua carità teologale. Si comprende perché lo stesso insospettabile Luigi Settembrini, anticlericale napoletano, potesse attestare che conoscendo P. Ludovico era indotto a credere nella verità delle leggende medievali. Ma era evidente che la carità del frate napoletano, che aveva ardito rimproverarlo di aver parlato male di Gesù Cristo, non era una leggenda.
La «Palma Serafica»
Il luogo che più di ogni altro segnò la vita del P. Ludovico e diede un potente impulso alle sue opere fu senza dubbio la «Casa della Palma Serafica»: la grande casa allo Scudillo, che aveva attirato la sua attenzione da lontano, per l’imponenza del grande albero che vi sorgeva davanti. L’acquisto dell’immobile nel 1857 e la successiva ristrutturazione, per adeguarlo alle molteplici finalità a cui egli pensava, furono tra i primi prodigi di carità del buon frate, che riuscì a trovare l’ingente somma occorrente, affascinando amici e collaboratori con il suo entusiasmo e sollecitando la loro solidarietà in encomiabili gare di generosità, con uno stile che lo accompagnerà per tutta la vita. Per i confratelli questo diciottesimo convento della Provincia napoletana dei Francescani Riformati era probabilmente superfluo, ma per P. Ludovico era quasi indispensabile: la Palma costituì la prima e la più articolata realizzazione di un complesso programma di attività caritative e spirituali.
Continuatore dell’opera della Palma di P. Ludovico da Casoria è stato P. Giammaria Giovanni Travaglini, nato a Brusciano il 19 maggio 1912 da Vincenzo e da Rosa di Palma. Compì il noviziato in S. Giovanni del Palco in Taurano sotto l’esperta guida dello zio materno P. Antimo di Palma. Nel 1933 emise la professione solenne in Roma nel Collegio Internazionale s. Antonio nelle mani del Ministro Generale P. Leonardo Di Bello. Fu ordinato presbitero il 28 luglio 1935 da S.E. Mons. Luca E. Pasetto. Nel 1940 conseguì la laurea in Teologia e fu subito destinato all’insegnamento, che esercitò per oltre un ventennio. Fu consigliere provinciale, definitore generale, custode e vicario generale, assistente regionale O.F.S., promotore di vocazioni e missioni. Ha consacrato le sue migliori energie con entusiasmo francescano alla Casa e alle opere di P. Ludovico. L’imponente edificio che ora ospita le varie opere assistenziali e la moderna infermeria dei frati sono frutto della tenacia, della lungimiranza e dello spirito di dedizione e di sacrificio di P. Travagliano.
Collaborò anche, con pari impegno, nella guida pastorale dell’Istituto secolare «Piccola Famiglia Francescana». Ha offerto «illuminata collaborazione» alle Suore Francescane Elisabettine Bigie del B. Ludovico da Casoria, particolarmente nel campo della formazione permanente e nel governo dell’Istituto. Il Padre buono, nella solennità del SS. Corpo e Sangue del Signore il 28 maggio del 1989, gli ha donato l’abbondanza della vita nel suo Regno.
Continua l’opera di P. Ludovico alla Palma il P. Alfonso Ferraro. L’intelligenza viva e pronta ha valorizzato la Palma immettendo l’opera nel nuovo millennio. Con semplicità francescana, sull’esempio di P. Ludovico, domina tutte le situazioni, mirando all’essenza del problema.
Bigi ed Elisabettine
Abbiamo parlato delle opere di P. Ludovico, di come sorsero e con quali scopi. Certo, per portare avanti e sviluppare ogni opera occorreva del personale cui affidarle. P. Ludovico da solo non avrebbe potuto provvedere ad un così vasto numero di case. Fin dal primo momento egli si guardò intorno alla ricerca di collaboratori e decise di trovarli nel Terzo Ordine Francescano che allora era dedito principalmente a pratiche di devozione. Con l’espandersi delle opere P. Ludovico si rese conto che aveva bisogno di collaboratori stabili anche perché le necessità si moltiplicavano, occorreva assistere, educare ed istruire centinaia di ragazzi. Egli capì che doveva provvedere con personale che poteva disporre completamente di sé e pensò a una congregazione di terziari francescani di vita comune e di «altissima povertà». Nascevano così i frati Bigi, dal colore del loro saio. Pochi anni dopo, nel 1862, fondò l’Istituto delle Suore Elisabettine Bigie del Terz’Ordine di s. Francesco. La prima solenne vestizione avvenne a Natale del 1866 a Capodimonte in Napoli. In quella notte indossarono l’abito religioso sei dame della nobiltà napoletana. P. Ludovico dette loro quale patrona santa Elisabetta d’Ungheria dalla quale presero il nome: anch’esse furono dette Bigie dal colore dell’abito che richiamava quello originario francescano. Lo spirito e lo scopo di questo Istituto fu ed è ancora la carità nella povertà, nell’umiltà, nel servizio. Padre Ludovico affidò alle Elisabettiane quelli che furono gli amori della sua vita: «I sacerdoti malati furono i miei primi amori, poi i giovani africani per i quali avrei voluto esporre la mia vita per la loro salvezza; i muti, i ciechi, i vecchi e gli orfanelli sono stati gli amori del mio cuore, della mia fantasia e della mia povertà». E ancora si legge negli Statuti scritti da P. Ludovico: «Le opere in cui più specialmente si esercitano le Figlie del Terz’Ordine nell’Istituto delle Elisabettine sono: l’educazione delle giovanette nell’educazione cattolica, nei mestieri donneschi e nelle lettere; singolarmente poi, l’educazione e l’istruzione delle fanciulle cieche; l’assistenza agli infermi negli ospedali, e altre opere di questa natura». Dopo più di cent’anni le Elisabettiane ancora si adoperano con impegno costante ad essere fedeli alla volontà di P. Ludovico. L’Istituto è infatti presente con numerose case non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti, nel Panamà, in India. Le loro opere si concretizzano in scuole, collegi, convitti, istituti educativo-assistenziali per fanciulli orfani, poveri, bisognosi, disadattati e pluriminorati, case di cura e pensionati per anziani. A ciò si aggiunge l’opera di evangelizzazione.
Invito all’amore per gli ultimi
All’alba del 29 marzo 1885, un lunedì santo, P. Ludovico spira a Posillipo, nell’Ospizio marino, tra il compianto dei suoi Bigi, delle Elisabettine, dei poveri vecchi pescatori e dei bambini scrofolosi. Tutta Napoli accorse in massa per portare l’ultimo saluto al suo più grande benefattore, cittadini di ogni classe si unirono al corteo attraverso le vie della città. Così scrisse l’Unità Cattolica di Torino: «Mai furono viste a Napoli, a memoria d’uomo, esequie tanto solenni, tanto rispettate, tanto commoventi, tanto concordi e spontanee, di universale concorso di ogni classe di persone». Un anno prima della morte P. Ludovico, su richiesta del Cardinale Sanfelice, allora Arcivescovo di Napoli, aveva scritto alcuni appunti per un discorso che non fu mai pronunciato, ma che può essere considerato il suo testamento.
«L’anima mia si liquefaceva di amore verso Gesù Cristo – egli scriveva – ed aveva dentro di me un grandissimo Foco di amore pei poverelli di Cristo. L’amore di Dio era la mia Povertà, la mia Obbedienza e la mia Castità. Non sono stati i voti solenni i motivi che mi hanno indotto e mi hanno ferito il cuore mio ad amare Dio; ma l’amore di Gesù Cristo aveva ferito il mio cuore, il mio costato, le mie mani, i miei piedi, il mio corpo; e non domandavo a Dio, per sfogare il mio amore, l’estasi, il rapimento, le visioni, ma il lavoro, le opere, la fede, la salvezza delle anime. Chiedevo nella preghiera ardore nell’operare, amore di Dio nei combattimenti, nei travagli, nelle angustie, nelle contraddizioni, ed esclamava sempre: o amore, o morire di amore». Segue, nel testamento, l’ultima sezione, quella di raccomandazioni pratiche: dell’amore di Dio, della povertà, della pace, della preghiera e del lavoro apostolico, della fede nella Provvidenza e nelle opere buone, nella Chiesa, «la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana», per sostenerla, seguirla, obbedirla, perché è un’autorità viva in quanto ci porta al fine ultimo della nostra creazione, «che è la salvezza delle anime redente da Cristo».
Padre Ludovico, beatificato il 18 aprile 1993 da Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro, ci insegna, con la luminosità delle sue virtù e della sua santità, che nel cuore di ogni autentico «uomo di Dio» è sempre viva la presenza degli uomini che aspettano «il conforto di Israele» (Lc 2, 25). Il santo è sempre molto vicino ad ogni uomo che soffre e nel suo cuore è presente l’uomo creato a immagine di Dio e redento da Cristo. È presente il mondo che soffre e spera. È presente il dolore di questo mondo che passa e la luminosa certezza della nuova creazione, per offrire alla sofferenza e alle attese dell’umanità dolorante una gioiosa risposta attinta unicamente dalla Croce pasquale del Cristo.
ALFONSO D’ERRICO
© L’OSSERVATORE ROMANO Venerdì 25 Agosto 2000