Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI
di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Vogliamo raccontare la storia di una madre che papi e vescovi avevano già additato all’esempio dell’intero popolo cristiano prima ancora che fosse beatificata.
Paolo VI, nell’Angelus del 23 settembre 1973, parlò di lei: “una madre della diocesi di Milano che, per dare la vita al suo bambino, ha sacrificato con meditata immolazione la propria”. Lo stesso hanno fatto più recentemente Giovanni Paolo II ed il cardinale Martini:
La vicenda appartiene ai nostri tempi, non solo perché parliamo di una donna scomparsa non molti anni fa, ancora giovane, ma perché risponde ad una esigenza sempre più avvertita ai nostri giorni.
Nel Concilio Ecumenico Vaticano II è stato solennemente proclamato che “il Signore Gesù a tutti ed a ciascuno dei suoi discepoli, di qualsiasi condizione, ha predicato la santità della vita” e che dunque “tutti i fedeli, di qualsiasi stato o grado, sono chiamati alla pienezza di vita cristiana ed alla perfezione della carità”, e che “nei vari tipi di vita e nei vari compiti un’unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio”.
Ma ora è necessario che questa convinzione sia testimoniata anche nella scelta di coloro che vengono presentati alla venerazione ed imitazione di tutti i fedeli.
Spesso qualcuno chiede: “Perché i santi sono quasi sempre dei religiosi, o comunque persone che hanno concluso la vita con particolari forme di consacrazione a Dio?”.
Si avverte l’esigenza che vengano proposti come modelli dei santi che abbiano vissuto la vita di tutti, tra lavoro e famiglia, con coniuge e figli, con gioie e preoccupazioni di ogni giorno.
Se la domanda nasconde l’idea che si possa diventar santi anche senza un serio e totale dono di sé a Dio, siamo del tutto fuori strada.
La domanda è invece corretta se manifesta il desiderio di far entrare quel tutto in cui consiste la santità (“amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze”) dentro i ritmi più quotidiani e comuni dell’esistenza.
Il marito di Gianna Beretta, interrogato qualche tempo dopo la morte della moglie, rispose semplicemente:”Io non mi sono mai accorto di vivere con una santa”.
Ma egli stesso chiariva che questa affermazione si spiegava per la persuasione, così diffusa un tempo, che la santità debba sempre manifestarsi con abbondanza di avvenimenti eccezionali (una sorta di costante immersione nel prodigioso).
Poi, ripensando alla vita della moglie, egli comprese “che la santità è la quotidianità della vita, vissuta alla luce di Dio”.
E tuttavia la Chiesa non rinuncia a chiedere, per proclamare qualcuna santo, che sia provata l'”eroicità delle sue virtù”.
Solo che, in questi casi di santità laicale, l’eroicità resta a lungo nascosta dentro una fedeltà a tutta prova, fatta di cose semplici e quotidiane, fino a che l’Amore a Dio e al prossimo non trova occasione di esprimersi in tutta la sua forza e la sua abbagliante purezza.
Torniamo alla testimonianza del marito:
“Gianna era una donna splendida, ma assolutamente normale. Era bella, intelligente, buona. Le piaceva sorridere. Era anche una donna moderna, elegante. Guidava la macchina, amava la montagna e sciava molto bene. Le piacevano i fiori e la musica. Per anni siamo stati abbonati ai concerti del Conservatorio di Milano. Le piacevano i viaggi. Io andavo spesso all’estero per motivi di lavoro e, appena possibile, la portavo con me. Siamo andati in Olanda, in Germania, in Svezia, e un po’ dappertutto in Europa…”.
E’ giusto, tuttavia, proprio perché abbiamo bisogno di quella luce che ad un tratto illumina l’intero quadro, partire dal periodo di maturazione durato sette mesi, durante il quale la “perfetta Carità” invase il cuore di questa sposa e madre.
All’inizio dell’estate del 1961 la dottoressa Gianna Beretta e l’ingegnere Pietro Molla erano una coppia felice: lei lavorava in un ambulatorio medico dove esercitava la professione con competenza e dedizione; lui dirigeva la sua fabbrica di tremila operai. La famiglia, nella quale dominava un totale accordo, era allietata da tre bei bambini ancora molto piccoli, tra i cinque ed i due anni.
Per i due genitori i figli erano una ricchezza, tanto che desideravano ancora un frutto del loro amore.
Lo sappiamo da una lettera di lei: “Io sono sempre felice di Pietro e dei nostri tre magnifici bambini, e ne ringrazio tanto il Signore. Desidererei tanto un altro ‘popo’”.
Nell’agosto si annunciò la nuova desiderata maternità, ma la gioia si mescolò presto alle più gravi preoccupazioni: a fianco dell’utero cresceva un grosso fibroma e si rendeva necessario e urgente l’intervento chirurgico.
Gianna comprese subito a cosa andava incontro. La scienza di allora offriva due soluzioni considerate sicure per la vita della madre: una laparotomia totale con asportazione sia del fibroma che dell’utero; o l’asportazione del fibroma con interruzione della gravidanza.
Una terza soluzione, che consisteva nell’asportare soltanto il fibroma senza toccare il bambino, metteva in grave pericolo la vita della madre.
Leggiamo dalla Relazione clinica del tempo: “Una sutura praticata sull’utero nei primi mesi di gravidanza spesso cede, con secondaria rottura dell’utero e pericolo immediato mortale per la paziente, verso il quarto o il quinto mese di gestazione; rischio ben noto alla dottoressa Gianna”.
Inoltre comunque fossero andate le cose nei mesi immediatamente successivi, il rischio si sarebbe poi ripresentato gravissimo al momento del parto.
La dottoressa Beretta, prima di andare in ospedale, si recò dal sacerdote dal quale abitualmente si confessava, che la esortò a sperare e ad avere coraggio.
“Sì, don Luigi – gli rispose la donna – ho tanto pregato in questi giorni. Con fede e speranza mi sono affidata al Signore, anche contro la terribile parola della scienza medica che mi diceva: ‘o la vita della madre o la vita della sua creatura’. Confido in Dio, sì, ma ora spetta a me compiere il mio dovere di mamma. Rinnovo al Signore l’offerta della mia vita. Sono pronta a tutto, pur di salvare la mia creatura”.
Raccontò lei stessa il primo incontro col chirurgo: “Il professore mi disse prima dell’operazione: ‘Cosa facciamo, salviamo lei o salviamo il bambino?. ‘Prima salviamo il bambino!, gli dissi subito. ‘Per me non si preoccupi’. E, dopo l’operazione, egli mi disse :’Abbiamo salvato il bambino'”.
Il professore, di religione ebraica, rispettò la volontà della paziente, anche se non si sentiva di condividerne la scelta. Solo lui e Gianna sapevano il significato profondo di quell’ “Abbiamo salvato il bambino”. L’espressione annunciava alla madre altri mesi di passione, tanti quanti sarebbe durata ancora la gravidanza.
Quando se la rivedrà davanti, nel momento fatale del parto, il professore esclamerà con un misto di ammirazione e di sconcerto scientifico: “Ecco la madre cattolica!”. Una di quelle profezie che Dio sa trarre dalla bocca dei lontani.
Il primo intervento riuscì: una scelta eroica era stata fatta, ma ora tutto sembrava rientrare nella normalità.
Gianna riprese il suo lavoro in famiglia e nell’ambulatorio e si curò da sola i disagi e le sofferenze di quella pericolosa gravidanza, senza pesare su nessuno, tacendo con tutti, per non turbare la serenità dei figli e del marito.
Ma continuando a vivere normalmente, con gioia perfino, senza smettere di sperare.
Mancava solo un mese al parto e il marito dovette recarsi a Parigi per lavoro. Gianna gli chiese di portarle alcune riviste di moda. “Se Dio mi tiene qui -disse- mi voglio fare dei bei vestiti” e difatti le riviste ci sono ancora con i segni da lei tracciati acanto ai modelli che le piacevano.
Quando diventerà santa, anche quelle riviste saranno reliquie. Non è una banalità, è l’invito ad abituarci a un modo nuovo di giudicare.
Ogni tanto era colta dall’angoscia del continuo pericolo, ma la sopportava da sola per risparmiare i suoi cari, nella preghiera e nell’offerta, con piena coscienza. Sul suo tavolo da lavoro troveranno poi dei testi di medicina aperti al capitolo sulle “maternità a rischio”.
“A me – testimonierà poi il marito – tornava in mente con insistenza la sua richiesta che ‘fosse salvata la gravidanza’, ma non osavo andare oltre con il pensiero. Non osavo parlarne con mia moglie. Qualche tempo dopo: ‘Pietro – mi disse -, ho bisogno che tu, che sei sempre stato tanto amorevole con me, lo sia ancor di più in questo periodo, perché sono mesi un po’ tremendi per me’. Continuavo a vederla tranquilla. Si occupava con il solito affetto dei nostri bambini e dei suoi malati. Poi un giorno mi sono accorto che metteva a posto la casa con una attenzione particolare. Che riordinava i cassetti, gli armadi…come se avesse dovuto partire per un lungo viaggio…”
Soltanto al fratello sacerdote Gianna manifestò il suo stato d’animo: “Il più ha ancora da venire. Tu non te ne intendi di queste cose. Quando sarà il momento, o io o lui”.
Ma non era una sfida, era tenerezza verso il piccolo che cresceva dentro.
Torniamo al racconto del marito:
“Un mese e mezzo prima della nascita di nostro figlio è successa una cosa che mi ha sconvolto. Dovevo uscire per andare in fabbrica e avevo già infilato il cappotto. Gianna -mi pare ancora di vederla- era appoggiata al mobile dell’anticamera della nostra casa. Mi è venuta vicino. Non mi ha detto: ‘ Sediamoci’, ‘fermati un momento’, ‘parliamo’. Niente. Mi è venuta vicino così come succede quando si debbono dire cose difficili, che pesano, ma alle quali si è tanto meditato, e su cui si vuole ‘tornare’. ‘Pietro – mi ha detto-, ti prego….Se si dovrà decidere tra me e il bambino, decidete per il bambino, non per me. Te lo chiedo’. Così. Nient’altro. Sono stato incapace di dire qualunque cosa. Conoscevo benissimo mia moglie, la sua generosità, il suo spirito di sacrificio. Sono uscito di casa senza dire una parola”.
Glielo ripeterà ancora prima del parto. Così anche a una amica:
“Vado all’ospedale, ma non sono sicura di tornare. La mia maternità è difficile; dovranno salvare o l’uno o l’altro; io voglio che viva il mio bambino”.
“Ma hai tre bambini, preoccupati di vivere tu, piuttosto!”.
“No, no…Voglio che viva il bambino”.
A un’altra amica incontrata dal parrucchiere disse:”Prega, prega anche tu! Durante questa difficile gravidanza ho tanto studiato e pregato per la mia nuova creatura…Prega affinchè sia pronta a fare la volontà di Dio!”.
E Dio volle che la sua passione cominciasse proprio il Venerdì Santo del 1962.
Raccontò una suora dell’ospedale:
“La incontrai mentre saliva i gradini per essere accolta in reparto. Mi disse: ‘Suorina, eccomi, sono qui per morire’, ma aveva uno sguardo buono e sereno. E aggiunse: ‘Basta che vada bene il bambino, per me non fa niente!”.
Il terribile travaglio durò tutta la notte; alle undici del Sabato Santo nacque, con parto cesareo, una bella e sana bambina, proprio nel momento in cui – secondo la Liturgia in uso prima del Concilio- si scioglievano le campane e si cominciava a festeggiare la Resurrezione.
Quando si svegliò dall’anestesia le portarono la piccola. Racconta il marito:
“L’ha guardata con uno sguardo lunghissimo in silenzio. Se l’è tenuta accanto con una tenerezza indicibile. L’ha accarezzata leggermente senza dire una parola”.
Poi la sua passione continuò per un’altra lunga settimana, mentre una peritonite settica la conduceva alla tomba, senza che si riuscisse a far nulla per salvarla.
Passò gli ultimi giorni continuando ad offrirsi umilmente, come su un altare, pregando e chiedendo che non le dessero stupefacenti perché voleva restare cosciente, mentre invocava Gesù Crocifisso e la sua stessa mamma, che la portassero in paradiso.
Il mercoledì dopo Pasqua si risvegliò dal coma e disse al marito: “Pietro, ora sono guarita. Ero già di là e sapessi cosa ho visto! Un giorno te lo dirò. Ma siccome ero troppo felice, stavo troppo bene, con i nostri meravigliosi bambini, pieni di salute e di grazia, con tutte le benedizioni del cielo, mi hanno rimandato quaggiù per soffrire ancora, perché non è giusto presentarsi al Signore senza tanta sofferenza”.
Le mancavano ancora tre giorni di passione, secondo la misteriosa misura con cui ognuno deve, nel disegno buono di Dio Padre, completare nella sua carne la Passione di Cristo.
Dovremo tornare su questa morte, e su quei sette mesi di Via Crucis durante i quali la vita di Gianna Beretta acquistò quella totale trasparenza all’Eterno, in cui consiste la santità.
Ma ora dobbiamo, alla luce di quanto è accaduto, ripercorrere brevemente la sua intera esistenza, non per cercarvi a forza altri episodi eroici, ma per rivedere all’opera come viene tessuta quella stoffa cristiana che rende possibile la santità.
Scrive ancora il marito, quasi dialogando con lei:”Non hai fatto cose eccezionali, non penitenze eccezionali, non hai cercato la rinuncia per la rinuncia, non l’eroismo per l’eroismo. Sentivi e attuavi i tuoi doveri di giovane, di sposa, di madre e di medico con piena disponibilità ai disegni ed alla volontà del Signore, con spirito e desiderio di santità, per te e per gli altri”.
Eccezionali furono certamente i genitori di Gianna: una di quelle coppie di inizio secolo, con numerosi bambini (Gianna era la decima di tredici figli), per le quali la fede era sostanza della giornata, nel lavoro e nell’educazione, nei pensieri e nei sentimenti, nelle gioie e nelle pene della vita.
Quando Gianna, sette anni dopo la loro morte, incontrerà il suo fidanzato, ella gliene parlerà così: “I miei santi genitori, tanto retti e sapienti, di quella sapienza che è riflesso del loro animo buono, giusto e timorato di Dio”.
E quando si sposerà, il celebrante (uno dei fratelli di Gianna) le dirà durante la predica:” Gianna, non ti metto davanti i santi, ma la nostra mamma. Ricordi come era sempre dolce, sorridente, docile, paziente, attiva, sempre unita a Dio, sia nei momenti di gioia come di dolore”.
Un altro fratello ricorda: “La mamma, pioggia o non pioggia, freddo o caldo, ogni mattina presto, i suoi figli se li conduceva alla Santa Messa e Santa Comunione. Ci svegliava non con un ordine o una imposizione, ma con un dolce invito, passandoci la sua mano sul viso e lasciandoci la libertà poi di alzarci o di continuare nel sonno. Ci aiutava poi lei a dire le parole a Gesù prima della Comunione e dopo; ci raccoglieva tutti intorno a lei nel banco della chiesa, dopo averci lasciati un poco soli con il Signore, subito dopo la Comunione, perché parlassimo noi con Lui e, poi, cominciava lei, facendoci ripetere le sue parole: non erano preghiere lette, ma le improvvisava lei, semplici e bellissime”.
La santità dipende sempre da una familiarità nei riguardi del Signore Gesù, e la familiarità comincia sempre con un incontro.
Vivere in una famiglia davvero cristiana significa che questo incontro (soprannaturale) col Dio fatto uomo accade “naturalmente”, così come è naturale incontrarsi tutti i giorni con mamma e papà, con i loro insegnamenti ed i loro esempi, con le loro premure e le loro preoccupazioni, con la loro correzione ed il loro perdono: in una parola, con la loro fede, speranza e carità.
In tal caso, il miracolo della conversione (del voltarsi verso Gesù) riesce facile, come è semplice a un bambino orientarsi verso la voce ed il volto della madre.
La santità di Gianna cominciò così. Poi questo dono familiare si dilatò nel dono di una tradizione, di un flusso cioè di vita ecclesiale che la raggiunse e la condusse con sé.
Cerchiamo di cogliere i momenti determinanti di questo fluire.
Quando si avvicinava ai sedici anni, partecipò ad un corso di esercizi spirituali in preparazione alla Santa Pasqua.
Abbiamo i suoi appunti, da lei intitolati: Ricordi e preghiere di Gianna Beretta.
Una delle preghiere comincia così: “Gesù, ti prometto di sottopormi a tutto ciò che permetterai mi accada. Fammi solo conoscere la tua volontà.”
Abbiamo poi la lista di undici propositi, o decisioni per la vita, e vale proprio la pena rileggerli, per capire come si forma una coscienza cristiana, negli anni così delicati della prima giovinezza.
1. Faccio il santo proposito di fare tutto per Gesù. Ogni mia opera, ogni mio dispiacere, li offro tutti a Gesù.
2. Faccio proposito che, per servire Dio, non voglio più andare al cinematografo, se non sappia prima se esso si possa vedere, se è modesto e non scandaloso, immorale.
3. Di voler morire, piuttosto che commettere un peccato mortale.
4. Voglio temere il peccato mortale come se fosse un serpente, e ripeto: mille volte morire piuttosto che offendere il Signore.
5. Voglio pregare il Signore che mi aiuti a non andare all’inferno, quindi evitare tutto ciò che può far male all’anima mia.
6. Dire una Ave Maria tutti i giorni, perché il Signore mi faccia fare una buona morte.
7. Prego il Signore perché mi faccia comprendere la sua grande misericordia.
8. Ubbidire e studiare, sebbene non ne abbia voglia, per amore di Gesù.
9. Voglio sempre recitare da oggi in poi le mie preghiere in ginocchio, tanto la mattina in chiesa come alla sera nella mia camera, ai piedi del mio letto.
10. Voglio sopportare qualunque rimprovero… La via della umiliazione è la più breve per arrivare alla santità.
11. Pregare il Signore di farmi andare in Paradiso. Dire sempre che ho paura di non andarci, così pregherò e con l’aiuto di Dio entrerò nel Regno dei cieli, con tutti i santi e le altre anime.
Non è difficile scoprire in questi propositi il tono ed il sapore delle prediche di una volta.
Qualcuno dirà, forse, che c’era troppo moralismo; è certo che c’era anche molta serietà e molta voglia di amare Gesù con i fatti e non solo riempendo le agende di appunti intelligenti, e di belle citazioni, come spesso accade.
Tanto che questi propositi generarono poi una ricca vita di comunità che Gianna sviluppò assumendosi delle responsabilità educative nell’ambito dell’Azione Cattolica.
Insegnerà alle sue ragazze, con le parole e con l’esempio, che bisogna rendere la verità amabile, offrendo in se stessi un esempio attraente e, se possibile eroico, perché l’uomo ha sempre bisogno di vedere, di palpare, di sentire; non si lascia facilmente conquistare da una parola. Il dire soltanto non trascina, ma il far vedere sì. Pertanto occorre essere testimoni viventi della grandezza e bellezza del cristianesimo.
Sono tutte espressioni tratte dagli schemi che Gianna, studentessa universitaria, preparava per la gioventù femminile di Azione Cattolica.
Dopo gli studi di medicina all’università – affrontati tra i grandi disagi del tempo di guerra- iniziò ad esercitare la professione negli ambulatori di Magenta e di Mesero non tralasciando di occuparsi attivamente anche di politica nelle elezioni del 1948.
Per alcuni anni rifletté intensamente sulla sua vocazione. Non doveva seguire uno dei suoi fratelli che, dopo essere divenuto medico, s’era fatto cappuccino ed era partito missionario per il Brasile?
Intanto sappiamo da alcuni appunti, da lei scritti su un ricettario, come ella vivesse la professione medica:
“Bellezza della nostra missione. Tutti nel mondo lavoriamo in qualche modo al servizio degli uomini. Noi lavoriamo direttamente sull’uomo. Il nostro oggetto di scienza e di lavoro è l’uomo che dinanzi a noi dice:…’Aiutami’, e aspetta da noi la pienezza della sua esistenza…La nostra missione non è finita quando le medicine non servono più. C’è l’anima da portare a Dio. C’è Gesù che dice: ‘Chi visita un ammalato visita me’. Missione sacerdotale: come il sacerdote può toccare Gesù, così noi medici tocchiamo Gesù nel corpo dei nostri ammalati, poveri, giovani, vecchi e bambini. Che Gesù si faccia vedere in mezzo a noi. Che egli trovi tanti medici che offrano se stessi a Lui”.
Anche questi sono probabilmente appunti presi da qualche conferenza ascoltata, ma a commentarli c’è poi la testimonianza di tutti coloro che l’accostarono e la videro applicarli con semplicità, perfino nell’ultimo giorno, quando appesantita dalla gravidanza, fece le ultime visite, prima di andare in ospedale a morire.
Un’ulteriore decisiva tappa verso la santità avvenne nel 1955, quando -a trentatré anni- si fidanzò con l’ingegner Pietro Molla.
Il 1954 era stato proclamato “anno mariano” e Gianna era stata a Lourdes in pellegrinaggio. Al ritorno raccontò a una amica:”Sono stata a Lourdes per chiedere alla Madonna cosa devo fare: se andare alle missioni o sposarmi: Sono arrivata a casa, ed è arrivato il signor Pietro”.
Si erano conosciuti frequentando i cineforum del centro culturale di Magenta, si rividero al teatro della Scala, a uno spettacolo di balletti per la festa di fine anno, e brindarono assieme al nuovo anno in casa Beretta. Da allora si moltiplicarono le occasioni per conoscersi meglio e si fidanzarono ufficialmente nel febbraio del 1955.
Abbiamo riferito l’elenco dei primi incontri nella loro esteriorità, quasi mondana – senza parlare dell’incontro profondo delle loro anime, fin dalle prime intuizioni – proprio per sottolineare che questo “racconto di santità” accade sul normale scenario della nostra moderna società.
“Ci comprendiamo sempre meglio”, annotava allora Pietro.
Ambedue si accorgevano d’avere gli stessi desideri e aspirazioni, speranze e certezze.
Pietro annotava:”Più conosco Gianna e più mi persuado che migliore incontro Iddio non poteva donarmi”.
Gianna gli scriveva:” Pietro, potessi dirti tutto quello che provo per te! Ma non ne sono capace. Supplisci tu. Il Signore proprio mi ha voluto bene. Tu sei l’uomo che desideravo incontrare, ma io non ti nego che a volte mi chiedo: ‘Sarò io degna di lui?’. Sì, di te, Pietro, perché mi sento così un nulla, così capace di niente, che, pur desiderando grandemente di farti felice, temo di non riuscirci. E allora prego così il Signore: ‘Signore, tu che vedi i miei sentimenti e la mia buona volontà, rimediaci tu e aiutami a divenire una sposa e una madre come tu vuoi e penso che anche Pietro lo desideri’. Va bene così, Pietro?”.
Quando Gianna era piccola, il prete le aveva un giorno detto che era fortunata ad avere una madre che rassomigliava alla “donna forte” di cui parla la Bibbia, nel libro dei Proverbi.
E ricordandosene, dopo aver ricevuto l’anello di fidanzamento, ella scrisse al suo compagno:
“Mio carissimo Pietro, come ringraziarti del magnifico anello? Pietro caro, per ricompensarti i ti dono il mio cuore e ti amerò sempre come ti amo ora. Penso che alla vigilia del nostro fidanzamento ti faccia piacere sapere che tu sei per me la persona più cara a sono costantemente rivolti i miei pensieri, affetti, desideri, e non aspetto che il momento in cui poter esser tua per sempre…Mi piace spesso meditare quel brano: ‘la donna forte chi la troverà?…Il cuore di suo marito può confidare in lei…ecc.’. Pietro , potessi essere per te la donna forte della Bibbia! Invece mi pare e mi sento debole….”.
E il fidanzato risponde: “Tu sei per me la donna forte della Bibbia. Vicino a te la mia gioia è perfetta”.
In un’altra lettera lei scrive:
“Ti amo tanto tanto, Pietro, e mi sei sempre presente, cominciando dal mattino quando, durante la Santa Messa, all’offertorio, offro, con il mio, il tuo lavoro, le tue gioie, le tue sofferenze, e poi durante tutta la giornata, fino a sera”.
E, quando ormai prossimo il matrimonio, gli confida:
“Sei il mio Pietro, e mi sento ormai un’anima e un cuore solo con te…le tue gioie sono anche le mie e così pure tutto ciò che ti preoccupa e addolora, preoccupa e addolora anche me. Quando penso al nostro grande amore reciproco, non faccio che ringraziare il Signore”.
Tutte le lettere sono piene di vera umanissima tenerezza che non sente estranea a sé la fede. Anzi, quell’amore è una incarnazione della loro reciproca fede.
Ecco come lei progetta il futuro:
“Con l’aiuto e la benedizione di Dio faremo di tutto perché la nostra nuova famiglia abbia ad essere un piccolo cenacolo, dove Gesù regni sopra tutti i nostri affetti, desideri e azioni. Pietro mio, mancano pochi giorni, e mi sento tanto commossa ad accostarmi a ricevere il sacramento dell’Amore. Diventiamo collaboratori di Dio nella creazione, possiamo così dare a Lui dei figli che Lo amino e Lo servano”.
Ecco una lettera scritta dai campi di sci, al fidanzato rimasto in città, legato alla sua fabbrica:
“Mi dispiace che lunedì tu abbia avuto tanto lavoro. Ti seguo sempre con il pensiero, e se potessi aiutarti, lo farei con tutto il cuore. Ieri e oggi è ritornato un sole splendido. Mi alzo al mattino alle ore 8 (che lazzarona! Tu sei già in ufficio) perché alle 8.30 c’è la Santa Messa. Credi, non ho mai gustato tanto la Messa e la Comunione come in questi giorni. La chiesetta tanto bella e raccolta è deserta. Il celebrante non ha nemmeno il chierichetto, quindi il Signore è tutto per me e per te, Pietro, perché ormai dove ci sono io ci sei anche tu”.
Il marito rievocherà poi così quel tempo: “Tu eri per me, ogni giorno di più, la creatura meravigliosa che mi trasmettevi la tua gioia di vivere …la gioia della nostra nuova famiglia, ormai prossima, la gioia della grazia di Dio”.
Il giorno del matrimonio Gianna pretese un abito da sposa bellissimo, di una stoffa particolarmente preziosa.
Alla sorella spiegò:”Sai, la voglio scegliere molto bella perché poi voglio farne una pianeta per la prima messa di qualche mio figlio prete”.
Davanti a questo continuo intreccio di amore umano e di amore sacro, pensieri spirituali e profani – per così dire – non è difficile sentirsi un po’ sconcertati.
Ci resta però da riflettere su un punto essenziale: che il cristianesimo è questo intreccio, così come in Gesù si uniscono indissolubilmente la divinità e l’umanità.
Chi raggiunge questo punto di sintesi cristiana, vede costantemente i due aspetti nella loro completa armonia. I passaggi tra l’uno e l’altro gli sembrano così naturalmente soprannaturali e così soprannaturalmente naturali! Chi, invece, si sottrae alla sintesi viva, o la pensa solo con il cervello, esperimenta necessariamente quelle stonature che egli stesso ha dentro:
Del tempo felice del matrimonio e della vita familiare allietata da tre bambini, citiamo solo la rievocazione che ne ha fatto il marito:
“Tu continuavi a possedere la gioia della vita, a godere l’incanto del creato, i monti e le loro nevi, i concerti di musica sinfonica, il teatro, come nella tua giovinezza e nel periodo del nostro fidanzamento. In casa eri sempre operosa: non ti ricordo una sola volta in ozio….Nonostante gli impegni della nostra famiglia, hai voluto continuare la tua missione di medico a Mesero, soprattutto per l’affetto e la carità che ti legavano alle giovani mamme, ai tuoi vecchi, ai tuoi ammalati cronici….I tuoi propositi, i tuoi atti erano sempre in piena coerenza con la tua fede, con lo spirito… di carità della tua giovinezza, con la piena fiducia nella Provvidenza e con il tuo spirito di umiltà. In ogni circostanza ti richiamavi sempre e ti affidavi alla volontà del Signore. Ogni giorno, lo ricordo, avevi sempre la tua preghiera, la tua meditazione, il tuo colloquio con Dio, il tuo ringraziamento per il dono dei nostri meravigliosi figlioli. Ed eri tanto felice”.
Anche le domande più delicate, quelle sulla intimità coniugale, sono state affrontate durante il processo canonico di Beatificazione. E abbiamo la testimonianza giurata del marito.:”A riguardo della castità coniugale, il teste insiste nel dire che la fedeltà ai principi della morale cristiana, ai quali erano stati educati, fu assoluta”.
Completato il nostro itinerario, senza dimenticare le esperienze delle tre nascite e le mille gioie, cure e preoccupazioni legate alla crescita dei tre bambini, dobbiamo ora tornare a quegli ultimi mesi in cui Dio le chiese di donare tutto.
Non si trattò di un solo gesto di eroismo, compiuto di getto, quasi ad occhi chiusi, ma di una meditata immolazione (come la definì Paolo VI) durata sette mesi. Un tempo interamente impregnato di una costante decisione:”Non salvate me, ma il bambino”.
Per comprendere questa sua meditazione di madre, possiamo anche soffermarci su quella che fu la domanda di tutti. Dalla donna del popolo che, saputo della sua scelta, commentò brutalmente:”Che scema!”, all’amica che obiettava: “Hai tre figli, pensa piuttosto a vivere tu”, al marito che condivideva, nella stessa fede, la scelta della moglie ma non riusciva nemmeno a pensarci e a parlarne, a Gianna stessa che sul letto di morte dirà alla sorella: “Sapessi quanto si soffre quando si lasciano i bambini tutti piccoli!”.
Che cosa dunque la spinse a quella scelta?
Certamente la coscienza chiara, senza ombra alcuna, di dover obbedire a quel Dio che dice: “Non uccidere”. L’aveva detto lei stessa, da medico, ad una ragazza che le chiedeva di farla abortire:” Non si scherza con i bambini!”.
Non si possono curare tre bambini sacrificandone un altro.
Sarà il marito stesso, nonostante lo strazio, a spiegare ciò che spinse la moglie al sacrificio: “Quello che ha fatto non lo ha fatto ‘per andare in Paradiso’. L’ha fatto perché si sentiva una mamma…Per comprendere la decisione non si può dimenticare, per prima cosa, la sua profonda persuasione, come mamma e come medico, che la creatura che portava in sé era una creatura completa, con gli stessi diritti degli altri figli, anche se era stata concepita da appena due mesi. Un dono di Dio, al quale era dovuto un rispetto sacro. Non si può nemmeno dimenticare il grande amore che aveva per i bambini: li amava più di quanto amasse se stessa. E non si può dimenticare la sua fiducia nella Provvidenza. Era persuasa, infatti, come moglie, come madre di essere utilissima a me e ai nostri figli, ma di essere soprattutto in quel preciso momento, indispensabile per la piccola creatura che stava nascendo in lei…”.
Finalmente siamo giunti alla parola decisiva, quella parola antica che è l’unica luce cui possiamo veramente guardare quando l’esistenza sembra farsi oscura e difficile da decifrare: la Provvidenza di Dio.
Se non c’è la Provvidenza divina, la creatura può agitarsi, fare i suoi calcoli, perfino uccidere nella persuasione di migliorare la vita propria e altrui. Se c’è l’umile, semplice, antichissima fede nella Provvidenza – quella a cui Cristo ha dato un volto filiale e paterno – allora la ragione dell’uomo continua a percepire le sue evidenze. Per questo la scelta di Gianna fu “meditata”, come ha detto il Papa, “una reazione ragionata” come ha coraggiosamente scritto il marito.
E l’evidenza era che agli altri tre figli ella era necessaria, ma a quello che portava in grembo era indispensabile.
Senza di lei Dio poteva “provvedere” agli altri bambini, ma neppure Dio avrebbe potuto “provvedere” a quello che aveva in grembo, se lei lo rifiutava.
Lauretta Molla, la terzogenita a cui Dio stesso ha provveduto aveva allora quasi tre anni. A sedici anni ricorderà così la madre in un tema scolastico:
“Avevo solo tre anni e forse non capivo il significato di tutte quelle candele accese e di tutti quei pianti… Quello che mi è rimasto più impresso è la sua immagine di vera madre, consapevole dei doveri verso la famiglia….Svolgeva il suo lavoro di dottoressa con tanta cura e felicità, e le piaceva soprattutto curare i bambini, specialmente quelli più bisognosi. Fra tutte le sensazioni provate, quella che ha ancor maggior rilievo nella mia vita è la profonda ammirazione che suscita in me il pensiero di una madre che per la sua creatura ha dato la propria vita….Posso dire di essere veramente fiera di aver avuto una madre di così grande coraggio, che ha saputo veramente vivere come Dio desiderava….Sento che mi è sempre vicina, e mi aiuta come se fosse ancora in vita”.
Il resto è affidato tutto al nome che venne dato al frutto di tanto sacrificio. Mentre ancora la madre era sul suo letto di morte, la bambina venne portata in chiesa e battezzata col nome di Gianna Emmanuela: il nome della madre unito al nome di quel Gesù che è “Dio con noi”. Poi il papà consacrò la bambina alla Madonna, come Gianna amava sempre fare.
Non era pronta la tomba di famiglia, e allora il parroco commosso mise a disposizione la cappella centrale del cimitero di Mesero. Così la bara venne deposta nella tomba dei sacerdoti, forse un segno di delicatezza da parte di Dio, davanti al sacrificio di questa madre.
Ma in quel momento il bambino più grande, Pierluigi, di cinque anni e mezzo, chiese al papà:”Perché la mamma è là chiusa? Dove va la mamma?…” E insisteva:” Mamma mi vede? Mi tocca? Mi pensa?”. Poi concluse: “Per la mamma ci vuole una casetta d’oro”.
Perciò quando la cappella di famiglia venne ultimata, il marito volle che la parete di fondo fosse ricoperta da un mosaico dorato. Vi è raffigurata Gianna che offre alla Madonna di Lourdes la sua bambina. E la scritta, in latino, è tratta dal libro dell’Apocalisse.
Dice così: “Sii fedele fino alla morte!”.