LA VERITA E LA CONOSCENZA. I. La nozione di verità. 2. La verità e l’ente. 3. La verità nella conoscenza
Capitolo Secondo
LA VERITA E LA CONOSCENZA
I. La nozione di verità
Che cos’è la verità? E questa la domanda che, secondo formulazioni diverse, si sono posti i filosofi d’ogni epoca, e che, nonostante l’apparente semplicità, nasconde non pochi enigmi. Le risposte date, ai nostri giorni e in passato, a questo interrogativo hanno diverso valore e sono apparentemente molto differenti, anche se in quasi tutte è presente un elemento comune che si identifica proprio con quello scoperto dalla metafisica classica.
1.1 La verità come adeguazione
Nel primo articolo della questione che apre il De Veritate, san Tommaso si pone proprio tale interrogativo: Quid sit veritas, e dà la seguente risposta: la verità è l’adeguazione della cosa e l’intelletto. Tale risposta possiede due caratteristiche che la fanno preferire a qualsiasi altra: 1) esprime la ragione formale della verità: la conformità o adeguazione tra cosa e intelletto esprime infatti l’essenza della verità; 2) comprende tutti i significati che il termine verità può assumere, e ad essi si estende. Tuttavia, soltanto comprendendo adeguatamente tale definizione se ne possono cogliere tutte le virtualità; se essa invece viene intesa in forma semplicistica, può cadere sotto quelle critiche che così frequentemente l’hanno bersagliata.
1.2. Il concetto di verità e il concetto di ente
San Tommaso arriva a questa definizione in un modo rigoroso e in perfetta armonia con le tesi della propria metafisica realista. Egli parte dal concetto di ente inteso come la nozione che l’intelletto concepisce per prima, dato che è l’idea più evidente e nella quale tutte le altre nozioni debbono risolversi. Ora, il concetto di verità è tanto ampio quanto quello di ente e si converte in quest’ultimo: ens et verum convertuntur. L’ente equivale al vero, poiché tutta la realtà è, in quanto determinata, conoscibile: ogni ente può divenire oggetto dell’intelletto. Tuttavia, il significato dei termini “vero” ed “ente” non coincide perfettamente: affermando che l’ente è vero non si pronuncia una tautologia, non si fa una ripetizione inutile. Come avviene anche per i rimanenti concetti trascendentali, “vero” ed “ente” significano la stessa cosa reale (res significata), ma la significano in modo diverso (modus significandi). Per usare la terminologia di Frege, si può dire che essi hanno lo stesso significato (Bedeutung), ma diverso senso (Sinn). La nozione di verità, infatti, aggiunge qualcosa a quella di ente, ma non come una caratteristica ad esso estranea, dato che all’ente non può essere aggiunto nulla come natura estranea: ogni natura, infatti, è essenzialmente ente. La verità aggiunge qualcosa all’ente, in quanto esprime una formalità, un aspetto, che non viene manifestato dalla semplice parola “ente”: si tratta della sua profonda intelligibilità.
Il concetto di verità nasce dalla relazione fra l’ente e un ben preciso termine, cioè l’intelletto. Ma è lecito chiedersi: come è possibile che l’ente trascendentale possa riferirsi all’intelletto, che è deve rispondere che ciò è possibile in quanto anche l’intelligenza è, a suo modo, trascendentale. Questa considerazione costituisce un punto fondamentale e immensamente fecondo dell’antropologia aristotelica che accompagnerà l’intero pensiero occidentale nel suo sviluppo. L’enunciato chiave compare nel III libro del De Anima: “l’anima è in un certo modo tutte le cose”; è questo ciò che il “vero” aggiunge all’“ente”, l’adeguazione della cosa con l’intelletto. Il concetto di verità presuppone quello di ente, in esso si fonda ed è implicitamente contenuto. Ciò che nel primo viene esplicitato del secondo è proprio questa conformità, ovvero ciò in cui la verità consiste formalmente.
1.3. Cosa bisogna intendere per adeguazione veritativa
Tale adeguazione o conformità non va certo intesa in senso materiale o fisico. L’intelletto, come ben si capisce, non può avere fisicamente la stessa forma della cosa conosciuta. Quando conosco un albero, ad esempio, la forma dell’albero non inerisce a me nello stesso modo in cui l’anima informa il mio corpo, né come la forma del mio volto configura quell’immagine che i miei amici sanno riconoscere. Quando conosco qualcosa, io ne posseggo la forma, “mi conformo”, mi adeguo ad esso, ma in un modo immateriale, intenzionale.
La conformità veritativa è un’adeguazione conoscitiva. È proprio questo ciò che i critici della teoria gnoseologica classica sembra non comprendano: non bisogna cioè pensare che nella mente vi sia una “copia” o “immagine” della cosa conosciuta. Se così fosse, se cioè si ritenesse che la verità consiste nell’adeguazione di una cosa esterna con un’altra “cosa” interna, avremmo bisogno di un terzo termine nel quale riconoscere l’adeguazione fra i due precedenti, e si avrebbe con ciò un processo all’infinito. Ma non è questo quanto la teoria classica sostiene.
Per comprendere meglio il problema, conviene approfondire il concetto di verità come adeguazione. “La conformazione (conformazione) dell’intelligenza con la cosa conosciuta non è una semplice ‘somiglianza’ più o meno fedele. Si tratta di qualcosa di più profondo. Con questo termine si vuole affermare che l’intelletto, quando il suo atto gode della proprietà di essere vero, acquista la stessa forma che la cosa conosciuta ha in se stessa. Si tratta, dunque, di un’identificazione, in virtù della quale ciò che è conosciuto e l’intelletto conoscente diventano ‘intenzionalmente’ ‑ come insegna la Psicologia ‑ una cosa sola; e ciò presuppone che l’intelletto non si esaurisca in un unico modo di essere, ma possa diventare, mediante le relative intellezioni, ciò che i differenti oggetti intelligibili sono. Cosicché, le diverse forme o modi di essere non solo informano le realtà extramentali, ma possono anche rendersi presenti nell’intelletto che le conosce, possono cioè informarlo. A tal fine è necessaria una particolare capacità entitativa che permetta all’intelletto di ‘uscire’ da sé e di farsi incontro ad ogni altro essere”.
Esplicitiamo quanto fin qui abbiamo esposto: pur avendo fatto necessariamente ricorso a nozioni metafisiche, quanto detto concorda perfettamente con l’esperienza comune e, pertanto, con l’uso ordinario delle parole “vero” e “falso”. Se dico che “sta piovendo”, dirò il vero se effettivamente adesso piove; se invece dico che “gli animali parlano”, sono nel falso perché di fatto i bruti non conversano tra di loro. Citando Aristotele, al cui insegnamento ‑ a partire da Tarski ‑ si cerca di rendere nuovamente giustizia, “dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; mentre dire di ciò che è che è o di ciò che non è che non è, è vero”. L’adeguazione veritativa è una relazione intenzionale tra intelletto ed essere, nella quale è l’essere a reggere l’intelletto e non viceversa. È dunque l’intelletto a conformarsi alla realtà delle cose, le quali non sono come sono perché noi così le pensiamo. “Si adegua alla verità chi pensa come separato ciò che è effettivamente separato e come unito ciò che è effettivamente unito, sbaglia invece colui il cui pensiero si pone in contraddizione con le cose. Quand’è allora che esiste o non esiste ciò che chiamiamo vero o falso? Bisogna esaminare ciò che intendiamo con questo. Tu non sei bianco, infatti, perché noi pensiamo che tu veramente lo sia, ma piuttosto poiché tu sei bianco, noi che lo affermiamo siamo nel vero ”.
1.4. 1 diversi significati della verità
Da quanto abbiamo appena rilevato, si deduce che la realtà, l’ente, costituisce il fondamento della verità: “l’entità della cosa precede la ragione di verità”. Chiamiamo la conoscenza “vera” perché essa manifesta e chiarifica l’essere delle cose (verum est manifestativum et declarativum esse); e così facendo ci riferiamo all’effetto di tale rapporto di fondazione. Se invece consideriamo il fondamento stesso, possiamo chiamare “veri” anche gli enti, in tal senso diciamo che vero è ciò che è (verum est id quod est): gli enti si dicono veri in quanto causano la verità.
Questi due significati della verità si aggiungono, pertanto, a quello di adeguazione di intelletto e cosa. La verità, allora si dice in tre sensi fondamentali: 1) come conformità dell’intelletto con la cosa; 2) come conoscenza vera; 3) come verità delle cose. La nozione di adeguazione è presente in tutti e tre i significati: nel primo è considerata in se stessa; nel secondo si considera ciò che viene causato dall’adeguazione (una conoscenza che non fosse effetto della verità non sarebbe conoscenza, giacché conoscere qualcosa in modo falso significa non conoscerlo affatto); finalmente, nel terzo ci si riferisce alla causa dell’adeguazione.
Le cose, pertanto, si dicono vere solo in relazione all’intelletto. Per questo S. Tommaso non esita a concludere che la verità si trova principalmente nell’intelletto piuttosto che nelle cose.
Tale tesi, però, può apparirci strana dopo aver insistito tanto sul valore del realismo, per il quale nella conoscenza vera è l’essere a misurare la mente, e non viceversa. Si potrebbe infatti obiettare che, se la verità sta principalmente nell’intelletto, il giudizio vero seguirebbe a ciò che si pensa in ogni singolo caso, e con ciò si cadrebbe nell’errore dei relativisti e degli scettici: tutto ciò che si pensa sarebbe vero, fino al punto che due proposizioni contraddittorie potrebbero essere vere.
La tesi da noi sostenuta, invece, non giustifica affatto tale obiezione, né contrasta il realismo metafisico. L’affermazione che l’essere costituisce il fondamento della verità è perfettamente compatibile con l’altra, secondo la quale la verità si trova principalmente nell’intelletto piuttosto che nelle cose.
Per comprendere quanto si sta dicendo occorre ricordare che il concetto di verità è analogo, secondo l’analogia di attribuzione; quell’analogia, cioè, per la quale un termine viene attribuito a diversi oggetti secondo un ordine di priorità e posteriorità. Orbene, in questo tipo di predicazione analogica non è necessario che il soggetto cui il termine comune è attribuito prioritariamente sia la causa degli altri: è sufficiente, afferma S. Tommaso, ch’esso sia il primo nel quale quella ragione comune si trova. Ad esempio, il termine “sano” si dice con priorità, cioè principalmente, dell’animale, dato che soltanto in esso si può riconoscere la ragione perfetta di salute: in senso proprio è l’animale ad essere sano. La medicina, invece, è causa della salute: il termine “sano” si predica di essa successivamente all’animale, poiché il rimedio terapeutico si può dire “sano” solo per attribuzione. Lo stesso avviene nel caso della verità: gli enti sono causa della verità, ma la ragione formale della verità è propria dell’intelletto.
Ricordiamo che il “movimento” della facoltà conoscitiva termina nella mente. Quando si conosce, infatti, il conosciuto in quanto tale si trova nel conoscente. Il vero, sebbene abbia causa e fondamento negli enti, dice relazione all’intelletto. In quanto causata e fondata, quindi, la verità si trova nelle cose, ma formalmente, cioè in se stessa, essa sta nella mente, poiché una cosa non si dice “vera” se non per la sua adeguazione coll’intelletto, cosicché il vero si trova innanzitutto nell’intelletto e secondariamente nelle cose.
1.5. La verità considerata secondo i diversi tipi di intelligenza
Possiamo chiarire ed esplicitare tale teoria considerando la verità in relazione ai diversi tipi di intelligenza che possiamo classificare nel modo seguente:
Intelligenza Umana
Pratica (a), Speculativa (b), Divina (c)
a) L’intelligenza umana pratica dell’artefice è la causa del prodursi (fieri) delle cose artificiali e la misura della loro verità (ma solo in quanto artificiali e non in quanto enti). Effettivamente l’artefice realizza la sua opera in accordo con l’idea esemplare che ha nella propria mente; pertanto la verità dell’artefatto dipende dall’adeguazione con tale modello ideale.
b) L’intelligenza speculativa dell’uomo riceve dalle cose la conoscenza che possiede, è misurata e in certo modo causata da esse. Nella conoscenza speculativa umana, l’intelligenza accoglie le cose come sono e, pertanto, queste sono la misura e la regola della verità dell’intelligenza teorica.
c) L’intelligenza divina misura le cose fin nel loro intimo, dato ch’essa è l’origine di tutta la realtà. Tutte le cose create si trovano in essa come nella loro causa, in modo simile a come gli artefatti sono presenti nella mente dell’artefice. Questo terzo tipo di intelligenza è simile allora all’intelligenza pratica dell’uomo, anche se l’artefice divino è causa di tutto l’essere delle cose, mentre l’artefice umano è causa del solo fieri o prodursi: egli agisce sempre su una materia, non è l’origine dell’essere dell’opera, ma solo del processo per il quale una certa materia acquista una nuova forma.
L’intelligenza divina (e la sua verità), pertanto, è misura ma non è misurata (mensurans non mensurata); la cosa (e la sua verità) è misurata dall’intelletto divino e, a sua volta, misura l’intelletto umano (mensurata et mensurans); la nostra intelligenza è misurata (mensurata) dalle cose naturali che conosce speculativamente; è misura (mensura) soltanto della produzione delle cose artificiali.
Alcune ideologie moderne e contemporanee intendono la verità soprattutto nel senso dell’intelligenza pratica e per di più tendono a ridurla ad un’immagine tecnica. Il composito panorama dei tipi di verità, come ce lo offre la concezione classica, perde il suo carattere analogico e si restringe in una concezione molto più rigida. Già Cartesio contrapponeva all’antica sapienza una filosofia che avrebbe dovuto trasformare l’uomo in “signore e dominatore della natura”. Mentre il pensiero classico ha sempre ritenuto che nella conoscenza intellettuale umana vi è un elemento di pura contemplazione recettiva ‑ “un ascolto attento all’essere delle cose ”, secondo l’espressione del vecchio Eraclito ‑, l’atteggiamento caratteristico della modernità è senz’altro operativo e trasformatore. Kant giunge ad affermare che la conoscenza intellettuale è un semplice fare (ein blosses Thun); e Marx sostiene che il problema della verità, se slegato dalla prassi, è triviale: teoria e prassi vanno identificate, dato che la verità è ciò che l’uomo fa in quanto inserito nel processo storico totale. Un pragmatismo meno ambizioso, ma senz’altro non meno radicale, ha dominato buona parte del pensiero occidentale: la verità è rendimento, efficacia, successo.
Certo non sempre la filosofia ha concesso alla verità pratica l’attenzione ch’essa merita; tuttavia, la sua riabilitazione è plausibile ‑ e già la si sta opportunamente promuovendo – “quando non si assolutizzi la prassi dell’uomo con il conseguente dissolvimento del valore della verità”.
La “perdita dell’essere”, che si constata in gran parte del pensiero moderno e contemporaneo, conduce alla perdita del senso della verità. Il senso autentico della verità è dato dalla condizione delle cose create, le quali hanno relazione con Dio, che le crea, e con l’uomo, che le conosce. “Per questo, scrive S. Tommaso, la cosa naturale, collocata fra due intelligenze, si dice vera in virtù dell’adeguazione all’una e all’altra. Infatti, per l’adeguazione con l’intelligenza divina si dice vera in quanto realizza ciò cui l’intelletto di Dio l’hà destinata (…). Per l’adeguazione con l’intelligenza umana, si dice vera in quanto ordinata per natura ad essere conosciuta secondo verità”: cioè, in quanto può essere conosciuta secondo verità, essa si mostra come è e, di per sé e intrinsecamente, non dà luogo ad errore.
1.6. La verità e l’intelletto umano
Secondo tale prospettiva metafisica, la verità sta nell’intelletto divino in modo proprio e primario (proprie et primo); mentre nell’intelletto umano in modo proprio ma secondario (proprie et secundario); e, infine, nelle cose si trova in modo improprio e secondario (improprie et secundario), dato che è in esse soltanto in relazione alle altre due verità. Più esplicitamente: sappiamo che la verità si trova propriamente nell’intelletto, come la salute nell’animale; ma ciò è vero principalmente per l’intelligenza divina, alla quale originariamente si adeguano le cose da essa create; in modo derivato, ma conservando un senso proprio, la verità appartiene all’intelletto umano, giacché questo possiede la ragione formale dell’adeguazione che definisce la stessa verità. Al contrario, la verità si trova nelle cose create solo in quanto queste hanno rapporto con i due tipi di intelletto e, di conseguenza, si può predicare di esse solo secondo analogia di attribuzione.
La verità predicata delle cose in riferimento all’intelletto umano è in un certo modo ad esse accidentale, non le costituisce in ciò che sono. L’essere delle cose non dipende dalla conoscenza che ne può avere l’uomo. L’affermazione contraria è un’illusione, è segno dell’alienazione dell’uomo che non accetta la propria condizione creaturale e si colloca al centro del mondo e di tutta la realtà. Un soggettivista coerente potrebbe sottoscrivere i seguenti versi di Juan Ramón Jiménez: “Sé bien que, cuando el hacha de la muerte me tale, se vendrá abajo el firmamento”.
Più prosaica è, invece, l’esperienza comune, secondo la quale la volta celeste non è legata con alcun filo alla vita di nessun uomo: tutti possiamo morire almeno con la serenità di non provocare un simile cataclisma. La “faccia invisibile della luna” era reale e vera anche prima che gli astronauti la osservassero. È davvero poco ciò che l’uomo conosce, e la realtà non aspetta i nostri giudizi per esistere in forme tanto diverse e, a volte, sorprendenti. Anche nell’ipotesi più radicale che l’intelletto umano non esistesse e non potesse esistere, le cose continuerebbero a permanere nella loro essenza.
1.7. La verità e l’intelletto divino
La verità che si dice delle cose in rapporto all’intelletto divino, invece, appartiene ad esse in modo inseparabile, dato ch’esse non potrebbero sussistere senza l’intelligenza divina che le produce e le costituisce in ciò che sono. L’uomo stesso non sfugge a questa condizione comune a ogni creatura, anche se a volte si considera del tutto autonorio e autosufficiente.
La tesi per cui la verità si trova principalmente nell’intelletto va intesa come riferita in primo luogo all’intelletto divino. Infatti, la verità “si dà nelle cose innanzi tutto in riferimento all’intelletto divino e solo dopo a quello umano, perché l’intelletto divino ne è la causa, mentre l’umano ne è in certo modo l’effetto, in quanto l’intelligenza dell’uomo riceve il sapere dalle cose. Dunque, ogni cosa si dice vera in rapporto principalmente alla verità dell’intelletto divino”.
La verità delle cose, che è “una proprietà dell’essere di ogni ente” e delle intelligenze create, è una partecipazione della Verità piena infinita, del Deus veritas, come amava dire S. Agostino: “Noi conosciamo le cose perché sono, ma esse sono perché Tu le conosci”. Tutta la verità si riconduce, come al suo principio, alla Verità per essenza, a Dio che è intelletto puro e verità intelligibile suprema, essendo l’Ipsum esse subsistens. L’essere sussistente di Dio è assolutamente intensivo e riassume in sé tutte le perfezioni trascendentali pure: Egli è il Bene, l’Unità, la Bellezza, la Verità nella loro perfetta pienezza. Dio è spirito, conoscenza compiuta di se stesso, totale autotrasparenza. Nell’intelligenza divina il conosciuto si identifica con l’intelletto: vi è perfetta adeguazione (ragione formale di verità), e pertanto è la prima e somma Verità’. Dio è l’origine di ogni verità, poiché è il principio dell’essere di tutte le cose. Tutte le cose sono vere in virtù dell’unica Verità divina. Si può tuttavia affermare che vi sono molte verità, in quanto vi sono molti enti veri e molteplici intelligenze che li conoscono. Il nostro compito consiste nell’acquisire sempre nuove verità, al fine di avvicinarsi alla Verità dell’Uno per essenza, nel quale la ricerca si acquieta.
2. La verità e l’ente
Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente vorrebbero contribuire ad evitare possibili equivoci suscitati da un fraintendimento della tesi secondo la quale le cose si dicono vere per la loro relazione all’intelligenza, e la verità sta nell’umano intelletto in modo proprio e prioritario rispetto alle cose. Tale tesi si riferisce alla ragione formale di verità, ma non riguarda l’ordine di fondazione, secondo il quale la verità è causata dalle cose.
2.1. Verità, conoscenza e realtà
La verità si riferisce al momento in cui le cose “muovono” l’intelligenza e la informano. La prassi conoscitiva termina nell’anima, essendo necessario che il conosciuto stia nel conoscente secondo il modo di essere di quest’ultimo (con ciò non si sostiene alcun soggettivismo di tipo kantiano, secondo il quale la forma degli oggetti conosciuti verrebbe imposta dall’azione spontanea dell’intelletto; si sostiene, invece, che il conosciuto sta nel conoscente in modo immateriale, non fisico). Mentre la conoscenza va dalle cose alla mente, il movimento della facoltà appetitiva tende alle cose stesse, poiché ciò che si appetisce è costituito dalle cose non in quanto conosciute, ma in quanto reali. Per questo Aristotele, riferendosi agli atti dell’anima, pensa ad un “circolo”: la cosa esistente fuori dell’anima muove l’intelletto, e la cosa conosciuta muove l’appetito, il quale si dirige verso la cosa, da cui appunto il movimento era partito.
Bisogna dunque ritenere che la verità viene causata nell’anima dalla realtà e non dipende dal giudizio dell’intelletto, ma dall’esistenza delle cose, dato che a seconda che la cosa è o non è, si dice che il nostro conoscere è vero o falso. Conoscere non significa apprendere una cosa così come essa si trova nell’intelletto; ma apprendere nell’intelletto la cosa così come essa è.
2.2. Cose e oggetti
Il senso realista della definizione classica è ben reso dai termini di adeguazione dell’intelletto con la cosa (res) e non con l’oggetto. La terminologia,’in questo caso, ha un’importanza notevole. “Oggetto”, infatti, significa ciò che è presente dinanzi a colui che conosce, ciò che il soggetto ha di fronte a sé (obiectum). L’essere oggetto di una potenza conoscitiva non è una proprietà reale delle cose, né significa direttamente la realtà del conosciuto: riguarda, invece, la conoscibilità di ciò che si coglie. Si può elaborare ‑ una gnoseologia basata sulla relazione soggetto‑oggetto senza uscire propriamente da un ambito immanente.
L’immanentismo, infatti, non si identifica con il soggettivismo. Gli idealismi più radicali sono stati idealismi “oggettivi” (ci riferiamo a Fichte, Schelling, Hegel e, in un certo senso, all’idealismo critico di Kant). Gli idealisti possono benissimo ammettere che si conoscono oggetti, ma non ammettono che si possano conoscere delle cose, cioè realtà che in se stesse trascendono la relazione immanente soggetto‑oggetto.
È molto significativo, a riguardo, il caso di Kant che riprende la definizione tradizionale della verità nei seguenti termini: “La verità, si dice, consiste nell’adeguazione della conoscenza con l’oggetto”. La sostituzione del termine “cosa” con “oggetto” sembra innocua perché Kant non dà ancora a quest’ultima espressione il significato critico, ma la utilizza in modo aproblematico. Tuttavia, le difficoltà che il filosofo tedesco incontra nella definizione tradizionale, mostrano che quel mutamento terminologico non era poi così innocente. Una delle aporie può essere espressa con queste parole: “Kant ritiene che detta definizione conduce ad un circolo vizioso senza vie d’uscita. In effetti, se si considera la verità come adeguazione della conoscenza con l’oggetto, la conoscenza sarà vera se coincide con l’oggetto. Ma il confronto fra conoscenza e oggetto è possibile soltanto se quest’ultimo ci è noto. Si può quindi concludere che possiamo giudicare soltanto se la nostra conoscenza dell’oggetto coincide con la nostra conoscenza dell’oggetto”.
Più avanti vedremo come questo tipo di critica implichi una petizione di principio. Per adesso ci basta sottolineare che, secondo la prospettiva metafisica realista, la cosa non può essere ridotta ad oggetto: se mai è vero il contrario. L’oggetto della conoscenza, infatti, è la cosa conosciuta nella sua realtà extra‑mentale, cioè in quanto sussiste in se stessa; anche se di tale cosa non v’è conoscenza finché essa non sta nel conoscente, così come il colore della pietra può essere conosciuto soltanto attraverso la sua specie o forma presente nell’occhio. Come rileva Gilson, “dire che ogni conoscenza è il coglimento della cosa così come essa è, non significa affatto che l’intelletto colga la cosa come essa è, ma che solamente quando così avviene vi è conoscenza. Ciò ancor meno significa che l’intelletto esaurisca con un solo atto il contenuto del proprio oggetto: ciò che la conoscenza coglie nell’oggetto è reale, ma il reale è inesauribile e, anche quando se ne apprendessero tutti i particolari, rimarrebbe ancora da svelare il mistero della sua stessa esistenza”.
2.3. Ente e cosa.
La definizione classica, quindi, parla con piena consapevolezza di adeguazione con la “cosa”. Ma che significa il termine “cosa”? “Non c’è nulla che si possa dire affermativamente e in modo assoluto di ciascun ente se non la sua essenza, grazie alla quale si dice cosa esso sia; e così abbiamo il termine cosa, che, secondo
ente, in quanto quest’ultimo si prende dall’atto di essere, mentre la prima esprime la quiddità o essenza dell’ente. Si dice “cosa” ciò che ha un essere compiuto e stabile nella natura”. Tuttavia, poiché il termine “cosa” designa l’ente in quanto ha un’essenza reale, fa anche riferimento all’atto di essere.
2.4. L’essere come fondamento della verità
L’ente è internamente costituito da essenza e atto di essere, coprincipi trascendentali della realtà concreta. Sulla base di questa dottrina metafisica, S. Tommaso afferma decisamente: “La verità si fonda sull’essere della cosa, più che sulla quiddità, così come il termine ens si impone a partire dall’esse”.
Attraverso questa tesi estremamente importante, S. Tommaso ci rivela il nucleo originale della propria gnoseologia, che porta con sé il superamento tanto di ogni immanentismo, quanto di ogni formalismo o logicismo. L’essere come atto (actus essendi) è il fondamento della verità. Il formalismo viene trasceso, poiché qualsivoglia forma, reale o conosciuta, trova il proprio ultimo fondamento nell’atto di essere, il quale non è un contenuto formale, ma il puro atto attuante la totalità delle determinazioni. L’actus essendi non è posto dal soggetto, come pretende la tesi kantiana, che considera il pensare come fondamento dell’essere. Nemmeno si riduce alla effettività esistenziale, al semplice fatto, corrispondente, come caso particolare, a una struttura logico‑formale, secondo la teoria della verità sostenuta dai neopositivisti. L’atto di essere costituisce il principio interno di autoposizione reale dell’ente concreto, la radice della verità delle cose, la causa e l’ultimo termine di riferimento della verità della conoscenza, poiché la verità si presenta nell’operazione con la quale l’intelligenza coglie l’essere delle cose (esse rei) così com’è.
In effetti, ogni conoscenza ha il suo termine nell’esistenza, nella realtà che partecipa dell’essere. L’esse rei è quindi la causa del giudizio vero che la mente formula sulla cosa.
Si potrebbe obiettare che di verità si parla anche nella logica e in altre discipline formali, nelle quali il riferimento alle cose reali non sembra presente. Tuttavia, le relazioni logiche (secundae intentiones) sono enti di ragione cum fundamento in re: hanno cioè un fondamento nelle cose, anche se non immediato. Solo se, come avviene nelle correnti positiviste della filosofia contemporanea, si realizza una “logica senza metafisica” o un’analisi del linguaggio autosufficiente, la teoria della verità viene sospinta da inevitabili difficoltà in un vicolo cieco.
2.5. La verità e l’ente
La verità si fonda dunque sull’ente (veritas supra ens fundatur). Il vero è una disposizione dell’ente. al quale però non aggiunge nulla e del quale non esprime una modalità specifica (verum è un concetto trascendentale, non categoriale); esso invece manifesta qualcosa di comune a tutta la realtà e che non è espresso dal termine “ente”, cioè la relazione di convenienza con l’intelletto. In quanto qualcosa ha entità, può essere conosciuto dall’intelletto: la ragione di vero segue alla ragione di ente. Anche se l’ente e il vero non differiscono realmente (nel loro significato), vanno distinti concettualmente (nel loro senso), dato che vi è qualcosa nella ragione di vero che non è compresa nella ragione di ente, pur non essendoci nulla nella ragione di ente che non si trovi anche nella ragione di vero. Il concetto di vero, quindi, non ha un’estensione maggiore del concetto di ente: tutto ciò che è vero, è, in certo modo, ente; e ciò anche quando il vero sia un ente di ragione, poiché anche questo è, sia pure solo con un essere intenzionale, un ente.
“Ciò che immediatamente e con la massima evidenza sappiamo delle cose è che esse sono. Quella di ente è la prima nozione che il nostro intelletto coglie: se ne esplicita la verità nel primo giudizio radicale e originario: questo è. Senza questa prima conoscenza, non conosceremmo nulla; e in essa si risolve, come in ciò che è più evidente, ogni altra conoscenza posteriore. Non vi sono nozioni più semplici e fondamentali: per questo è difficile spiegarne il significato; e per questo anche non vi è nulla di più facile da capire”. S. Tommaso sottolinea spesso il primato gnoseologico della nozione di ente: “L’ente è la prima nozione che l’intelletto concepisce, come ciò che è soprattutto intelligibile e nel quale ogni altra nozione si risolve”.
L’entità, di conseguenza, è più radicale della verità: l’ente è conoscibile in quanto è ente, e non è ente perché è conoscibile.
Una cosa è conoscibile in quanto è in atto; e come per l’eccessiva, luminosità non possiamo guardare in faccia il sole, così ciò che è maggiormente ricco di intelligibilità non può darsi pienamente a conoscere ad un intelletto limitato“. L’esempio della luce va qui ben oltre la metafora: “L’attualità di una cosa, dice S. Tommaso, è come una luce in essa”. L’attualità di un ente è il suo principio di realtà, ciò che lo fa emergere dal nulla e, quindi, manifestarsi. Per questo, quanto più una realtà è in atto, tanto più sarà luminosa e conoscibile. La verità, come adeguazione dell’intelletto con la cosa, propriamente non ammette gradazioni: o c’è o non c’è. “Tuttavia, se si considera l’essere della cosa, che è la ragione della verità, allora la disposizione delle cose nell’essere e nella verità è la stessa: pertanto ciò che è più ente, è più verità”.
2.6. L’origine della verità
La sorgente prima della verità è l’essere. Le cose finite partecipano dell’essere e, nella stessa misura, partecipano della verità. Non sono l’essere, ma lo hanno in parte: nemmeno sono la verità, ma ne partecipano. Ogni ente creato è composto di potenza e atto, ed è tanto meno vero quanto più è potenziale. Soltanto l’Atto Puro, l’Essere sussistente, è la Verità piena e illimitata, causa ultima di tutte le verità. La ricerca della verità trova riposo solo nell’Essere per essenza.
La verità è luce dell’intelletto, e lo stesso Dio è la regola di ogni verità. Per questo il linguaggio umano è illuminante a condizione che i concetti espressi abbiano in qualche modo relazione con la Verità prima. Infatti, nella nostra mente, due differenti principi stanno alla base dei concetti: Dio, che è la Verità prima, in quanto origine della verità di tutte le cose da lui create; e la volontà di colui che conosce, dalla quale non deriva l’ordine della realtà. Il linguaggio, come manifestazione della struttura del reale, è insieme locuzione e illuminazione; se invece manifesta soltanto le mie preferenze e i miei desideri, è unicamente locuzione. Quando, ad esempio, una persona afferma che “l’uomo è razionale”, dice il vero perché manifesta una realtà che si fonda, in ultimo termine, sulla Verità suprema, in quanto riferentesi alla struttura dell’essere. Ma il linguaggio umano può a volte dipendere anche dalla volontà dell’uomo, come nella frase “voglio fare questo o quello”. In questo caso, la locuzione non fa di per sé riferimento alla Verità prima, dalla quale dipende che le cose siano come sono, ma alla volontà umana, dalla quale invece non dipende che le cose siano come sono, e che pertanto non è direttamente illuminatrice della realtà. Per questo motivo, le opinioni degli uomini non sono una fonte chiara di verità. “La ragione di tale diversità sta nel fatto che la volontà non è luce dell’intelletto, né la regola di verità, ma partecipa della luce; e pertanto il manifestare le cose che dipendono dalla volontà creata, in quanto da questa dipendono, non è illuminare”. Per progredire nella conoscenza della verità, dobbiamo sforzarci di cogliere meglio la realtà delle cose, e non semplicemente di informarci meglio intorno alle opinioni degli uni e degli altri: la semplice erudizione, la collezione di informazioni, è ben lontana dall’autentica sapienza. Quando si dimentica tale importante verità, occorre domandarsi:
Where is the wisdom
we have lost in knowledge? Wbere is the knowledge we liave lost in information?.
S. Tommaso esprime lo stesso concetto in una frase che merita un’attenta riflessione: “Lo studio della filosofia non è ordinato alla conoscenza delle opinioni degli uomini, ma ad apprendere la verità delle cose”.
3. La verità nella conoscenza
3.1. Verità logica e verità ontologica
Già sappiamo che la verità, formalmente considerata, consiste nell’adeguazione del soggetto conoscente con la cosa conosciuta. Si tratta ora di scoprire in quale operazione o momento conoscitivo essa si dà compiutamente.
Occorre premettere che la verità non è un’adeguazione qualsiasi, ma è essenzi . almente un’adeguazione conosciuta. Ad esempio, tra la mia persona e la sua immagine riflessa in uno specchio non vi è conformità veritativa, poiché tale adeguazione è posseduta dallo specchio, ma non da esso conosciuta. In modo simile, io posso avere un’immagine o un concetto adeguati a una cosa, ma si avrà verità propriamente detta soltanto se conosco l’adeguazione in quanto tale. Questa verità si definisce, in senso stretto, verità logica o formale. Con questo non si vuole dire ch’essa abbia luogo soltanto o preferentemente nell’ambito della “logica”; ma piuttosto che è una verità corrispondente al logos, relativa, cioè, proprio alla conoscenza (e, più in concreto, alla conoscenza umana). Dalla verità logica si distingue la verità ontologica o materiale, la quale corrisponde a ciò che fino ad ora abbiamo chiamato verità delle cose o verità degli enti. Così, la “verità ontologica è una proprietà dell’ente, cioè qualcosa che ogni ente possiede in quanto, per il suo carattere entitativo, è intelligibile. La verità logica, quella propria della conoscenza, corrisponde invece ad una sola classe di entità, ovvero le intellezioni reali aventi per oggetto ciò che le cose sono”.
Nel paragrafo precedente abbiamo parlato soprattutto della verità ontologica; mentre il problema sollevato adesso riguarda la verità logica.
3.2. La verità logica non si dà nella conoscenza sensibile
La verità propriamente e formalmente considerata, cioè la “verità logica”, non si trova nella conoscenza sensibile. Ciò non significa che i nostri sensi ci ingannino, o che la sensazione non corrisponda alla cosa sensibilmente percepita, ma che l’adeguazione presente nei sensi non ha carattere veritativo, proprio perché non è conoscitivamente posseduta come tale. Possedere la verità equivale a conoscere l’adeguazione; ebbene, i sensi non hanno modo di conoscerla, poiché, ad esempio, sebbene la vista abbia in sé una somiglianza di ciò che è visto, non conosce il rapporto esistente fra la cosa vista e ciò ch’essa percepisce. In ogni sensazione vi è coscienza di sentire, ma, non essendo la potenza sensibile riflessiva, ciò non equivale a conoscere l’adeguazione fra la cosa e ciò che di essa viene colto.
3.3. La verità logica non si dà nella semplice apprensione
L’intelletto, invece, può conoscere la propria conformità con la cosa conosciuta. Tuttavia, tale adeguazione non viene colta al livello della prima operazione della mente o “semplice apprensione”, con cui si conosce l’essenza o quiddità della cosa, formando il concetto corrispondente. Già Aristotele, con la concisione che lo caratterizza, faceva notare: “Il vero e il falso non stanno nelle cose, ma nella mente; tuttavia se si guarda all’apprensione del semplice o alla definizione, bisogna riconoscere che non stanno nemmeno nella mente”.
La ragione che sostiene una tale affermazione è simile a quella addotta nel caso delle sensazioni: l’adeguazione fra il concetto e ciò ch’esso rappresenta non è conosciuta, in modo formale ed esplicito, dalla semplice operazione mentale che porta alla formazione e alla conoscenza del concetto. Se, ad esempio, penso al significato dei termine “rosso”, non’v’è dubbio che nella mia mente esiste una conformazione attuale con l’oggetto di tale concetto e, innanzi tutto, con la realtà da cui è stato astratto: nel nostro caso, la rosa che mi sta adesso davanti agli occhi. Avere il concetto di rosso, comunque, non equivale a conoscerne forrnalmente l’adeguazione con una realtà quale può essere la rosa del nostro esempio.
Ti concetto è una specie rappresentativa semplice, non complessa. Quando si comprende o si dice qualcosa di incomplesso, questo di per sé non è né adeguato né inadeguato alla cosa, poiché l’uguaglianza e la differenza si dicono sempre fondandosi su una somiglianza, mentre l’incomplesso o semplice non ha in sé alcuna similitudine o relazione con la cosa. Per questo, non si può dire che un concetto sia vero o falso; mentre tali proprietà sono attribuibili a ciò che è complesso, a ciò in cui viene designata la relazione del semplice alla cosa, grazie alla rappresentazione della composizione o della divisione. Ebbene, l’intellezione semplice, nel conoscere ciò che una cosa è (quod quid est), apprende l’essenza della cosa confrontandola con la cosa stessa, dato che la coglie come quiddità di tale cosa determinata, e non di altre.
Per questo, occorre precisare che, anche se il concetto non è di per sé vero o falso, l’intelletto che apprende ciò che una cosa è, è di per sé sempre vero, pur potendo essere falso accidentalmente (infatti, per quanto un concetto possa essere in sé semplice, racchiude sempre una certa complessità di caratteristiche che possono non concordare fra loro).
In conclusione, nella conoscenza sensibile e nella semplice apprensione vi è adeguazione fra la potenza conoscitiva e la cosa. L’intelligenza conosce tale adeguazione in modo implicito nella semplice apprensione, e in modo esplicito nel giudizio. Passiamo ora allo studio di quest’ultimo.
3.4. La verità logica si dà nel giudizio
Come la verità, formalmente considerata, si trova principalmente nell’intelligenza e non nelle cose, così la si rinviene innanzitutto nell’intelletto che giudica. allorché forma una proposizione, e non nell’atto per cui l’intelletto, elaborando concetti, conosce le essenze delle cose. In senso proprio, l’intelletto può essere vero o falso solo quando giudica di una cosa conosciuta. Perciò, la verità si trova primariamente nella composizione e divisione dell’intelletto, ovvero nel giudizio; mentre secondariamente e con posteriorità si dice vero l’intelletto in quanto elabora i concetti.
La verità è la conformità del conoscente in atto con il conosciuto in atto. Nello stadio della semplice apprensione, quindi, l’intelletto non si trova ancora in atto rispetto alla compiuta conoscenza dell’essere della cosa. Tale completa attualizzazione avviene soltanto nel giudizio. Come ha insegnato Hoenen, la differenza fra queste due operazioni della mente consiste, in tale prospettiva, in ciò: “durante l’apprensione lo spirito non sa ancora che il contenuto della propria rappresentazione è conforme (o meno) alla realtà, alla res; quando giudica lo sa”.
L’intelletto, a differenza dei sensi, può conoscere la propria conformità con la cosa intellegibile; ma non nel momento in cui coglie l’essenza, bensì quando giudica che la cosa corrisponde realmente alla forma da esso appresa. Solo allora l’intelletto conosce e dice il vero, cioè compone e divide: nelle proposizioni, infatti, si attribuisce o si separa da una cosa, espressa dal soggetto, la forma espressa dal predicato.
Nel giudizio appare qualcosa di nuovo e di decisivo: il riferimento all’essere reale della cosa. (Riferimento che si dà anche, sia pure in modo indiretto o remoto, nei giudizi su entità fittizie). La proposizione esprime un confronto fra ciò che è stato appreso e la cosa; infatti si afferma (o si nega) che la cosa abbia realmente (nell’ordine dell’essere) quella forma che viene attribuita nel predicato. Nel giudizio si ritorna sulla semplice apprensione, su ciò che era stato colto come qualcosa di unitario (per modum unius) in un’apprensione sintetica, e se ne analizzano e distinguono gli aspetti diversi con distinti concetti, che si cerca poi di sintetizzare in accordo con la composizione di soggetto e forma, presente nella cosa stessa.
Il giudizio comporta la costituzione di una proposizione, il riconoscimento della convenienza dei termini in re, e l’assenso. La forza assertiva lega il contenuto della proposizione alla realtà, conferendole rilievo veritativo. Il giudizio implica un “impegno ontologico”, una dichiarazione circa la realtà delle cose; per principio, quindi, deve essere o vero o falso.
Nella semplice apprensione, la mente umana possiede una somiglianza della cosa conosciuta, ma ancora non ne è consapevole; mentre nel giudizio “non soltanto ha la similitudine della cosa, ma per di più riflette sulla similitudine stessa, conoscendola e formulando dei giudizi intorno ad essa”. In tale giudizio che si riferisce ad una semplice apprensione, il conoscente ha acquistato una conoscenza completa del contenuto reale dell’apprensione; ora sa che, in quel concetto, possedeva una similitudine della cosa: riconosce l’adeguazione fra cosa e concetto, ed è consapevole di conoscere la cosa reale. Questa maggiore intensità di conoscenza è stata acquisita per mezzo di una riflessione sull’atto nel quale si conosce un contenuto reale.
3.5. La dimensione riflessiva della verità
Pertanto, la teoria realista della verità non fa assegnamento soltanto sul modello di adeguazione, ma comprende anche una imprescindibile dimensione riflessiva implicita, essenziale per la verità formale e presente in ogni giudizio. Per cogliere la verità, non è pertanto necessario un ulteriore giudizio esplicitamente riflessivo (una specie di riflessione rappresentativa) sulla prima riflessione. Ad esempio, quando affermo che “questo foglio è bianco”, so di dire la verità, ed è superfluo costruire una specie di metaproposizione del tipo “è vero che il foglio è bianco” oppure “So che il foglio è bianco”. Se la verità di un giudizio si cogliesse soltanto in un altro giudizio riflessivo, si avrebbe un processo all’infinito, nel quale si perderebbe la verità e naturalmente la realtà delle cose. In molte versioni della filosofia trascendentale o critica avviene qualcosa di simile: si svolge un procedimento riflessivo reiterato che alla fine non porta a nulla. Gli antidoti positivisti di tale “girare a vuoto” della riflessione partono anch’essi dall’ignoranza di tale riflessività originaria.
Queste due dimensioni essenziali della verità formale (o logica), cioè adeguazione e riflessione, vengono perfettamente coniugate in uno splendido passaggio del De Veritate, la cui attenta lettura mostra la superficialità delle accuse di “realismo ingenuo”, che molti lanciano su una teoria della quale ignorano la ricchezza. Il testo è il seguente: “La verità segue all’operazione dell’intelletto, in quanto il giudizio di questo si riferisce alla cosa così come essa è: ma la verità è conosciuta dall’intelletto soltanto quando quest’ultimo riflette sul proprio atto; e non unicamente in quanto l’intelletto conosce il proprio atto, ma in quanto conosce l’adeguazione fra sé e la cosa; l’adeguazione a sua volta non può essere conosciuta se non si conosce la natura del proprio atto. D’altra parte, quest’ultima non può essere conosciuta se non si conosce la natura del principio attivo, cioè il proprio intelletto, cui spetta per essenza di conformarsi alle cose. Quindi, l’intelletto conosce la verità in quanto riflette su se stesso”.
Di conseguenza, la conoscenza vera, che si consegue compiutamente nel giudizio, comporta che l’intelletto ritorni su se stesso: implica cioè una reditio. Il fondamento metafisico di questa dottrina è addotto sempre da Tommaso d’Aquino: “La ragione di ciò sta nel fatto che le sostanze più perfette, come le intellettuali, ritornano sulla loro essenza con un ritorno completo (reditione completa); infatti, per il fatto che conoscono qualcosa a loro esterno, escono in un certo modo da se stesse; ma, in quanto sono consapevoli di conoscere, iniziano a ritornare su se stesse, poiché l’atto di conoscenza è intermedio fra il conoscente e il conosciuto; e tale ritorno viene realizzato in quanto conoscono la loro propria essenza”. La verità si conosce attraverso questa riflessione presente in ogni giudizio. L’intelligenza ritorna su se stessa e, in tale reditio, riflette sul suo atto, non soltanto nel senso che ha coscienza di esso, ma anche nel senso che conosce la relazione fra l’atto conoscitivo e la cosa: il che implica la conoscenza della natura dell’intelletto e dello stesso conoscere, la quale consiste nel conformarsi alle cose.
Questa teoria della verità è perfettamente in armonia con una concezione antropologica nella quale si sostiene che, parlando con proprietà, non sono l’intelletto e il senso a conoscere, ma l’uomo attraverso di essi. In effetti, la conoscenza della corrispondenza delle nostre idee alla cosa, rinvenibile nel giudizio, è possibile soltanto se si ha una certa conoscenza intellettuale delle cose singolari e, quindi, se vi è continuità (continuatio) fra conoscenza intellettuale e conoscenza sensibile.
Ciò non vuol dire che il giudizio debba necessariamente venire verificato (o “falsificato”) sensibilmente, nel senso moderno di verifica sperimentale. (Come si vedrà più avanti, il modello verificazionista esclude l’ammissione della verità come valore gnoseologico primario). L’esperienza sensibile, nel senso delle moderne scienze “positive”, non è la percezione completa (sensibile‑intellettuale) della cosa singolare, ma l’accumulazione di dati che corrispondono a sensazioni isolate, in un certo modo astratte. Tramite il ragionamento si ottengono molti giudizi singolari non sperimentabili. In tali casi non possiamo avere una sensazione della realtà cui si arriva, a motivo sia della poca potenza dei sensi umani, sia perché si può avere a che fare con realtà spirituali, come avviene nella dimostrazione dell’esistenza di Dio. È possibile, in ogni caso, giungere alla conoscenza di realtà incorporee, anche se non se ne ha esperienza; infatti, possiamo ricorrere all’esperienza delle realtà corporee, dalle quali abbiamo preso le mosse per conoscerle.
3.6. Adeguazione e riflessione nelle teorie contemporanee sulla verità
Facciamo notare, infine, che la filosofia contemporanea ‑ nella quale si assiste a un rinnovato interesse per il tema della verità ‑ non sempre è riuscita ad armonizzare la dimensione dell’adeguazione con quella di riflessione. Anzi, spesso uno dei due aspetti essenziali della verità è stato dimenticato, con la conseguente assolutizzazione dell’altro. Ma, una singola dimensione non può sussistere separata dall’altra, in quanto è dalla loro sintesi che sorge la nozione di verità.
Come abbiamo appena visto, nella gnoseologia classica il modello di riflessione si fonda sul modello di adeguazione: l’adeguazione, infatti, avviene formalmente in quell’atto di conoscenza ‑ il giudizio ‑ in cui l’intelletto si confronta riflessivamente con la realtà conosciuta.
La filosofia logico‑linguistica e l’ermeneutica esistenziale o dialettica, invece, non sono quasi mai riuscite a coniugare il modello di riflessione con quello di adeguazionel. Ad esempio, il positivismo logico ha estrapolato il modello di corrispondenza escludendo gli aspetti riflessivi. Per reazione, l’analisi del linguaggio ordinario e l’ermeneutica hanno sottolineato la dimensione riflessiva e pragmatica, con il rischio di dissolvere la verità come adeguazione. (La petizione di principio che ne risulta appare anche nelle proposte di concepire la verità come coerenza).
Questa oscillazione tra il positivismo scientista e il soggettivismo antropocentrico è una delle più evidenti caratteristiche dell’attuale momento culturale. Ciò che viene pergo di vista da entrambe le prospettive è la capacità che ha l’uomo di conoscere la verità oggettiva in tutta la sua ampiezza ‘. Con una metafisica inesistente o insufficiente, è impossibile cogliere il rapporto armonico fra conoscenza ed essere. Spesso alla base di alcune concezioni gnoseologiche che dissolvono la stessa conoscenza, sta una visione riduttiva dell’essere. Il recupero del valore di certe nozioni ontologiche e gnoseologiche soprattutto da parte di alcuni settori della fenomenologia e dell’analisi del linguaggio, annuncia un nuovo e promettente approfondimento del vecchio problema della verità, nel quale vengano accolte tutte le sue dimensioni essenziali. Tratto da: http://home.datacomm.ch/giuseppe.rossi/llano/filosofia__della__conoscenza2.htm