…B) I DOVERI CONNESSI CON LA GIUSTIZIA E LE ALTRE VIRTÙ CARDINALI. I. LA PIETÀ. Nozione. Oggetto materiale, formale e termine della pietà. Doveri di pietà dei genitori verso i figli. Doveri particolari della madre. Doveri di pietà tra fratelli. Doveri di pietà tra i coniugi. Obblighi di pietà dei figli. Doveri di pietà verso le persone che prestano servizio domestico. Doveri di pietà verso la patria. Pietà verso i defunti….
Trattato di Teologia morale
PARTE III
I DOVERI DELL’UOMO NEI SUOI RAPPORTI CON IL PROSSIMO
4. DIRITTI E DOVERI SOCIALI
B) I DOVERI CONNESSI CON LA GIUSTIZIA E LE ALTRE VIRTÙ CARDINALI
1. DOVERI CONNESSI CON LA GIUSTIZIA
Se la giustizia si prende nel senso più ampio, come la virtù che inclina l’animo a rendere a ciascuno il suo, rendere a Dio quello che è di Dio ed all’uomo quello che è dell’uomo, tutte le virtù sono connesse con la giustizia; la verità è che tutte le virtù cristiane sono connesse tra loro. Connesse con la giustizia come ” parti potenziali ” di essa sono: la religione, la pietà, {‘osservanza, nelle quali non si può raggiungere la perfetta uguaglianza cui tende la giustizia; poi ancora la veracità, la gratitudine, la vendetta, la liberalità, l’affabilità, l’equità.
La religione rende a Dio il culto dovuto. Di essa abbiamo detto prima. La pietà inclina a rendere il dovuto amore ed onore non solo a Dio, ma anche ai genitori, alla Chiesa e alla Patria. L’osservanza rende il dovuto omaggio ed onore alle persone prestanti per grande virtù e dignità. La veracità inclina a dir sempre il vero e non il falso che inganna il prossimo; ad essa si riduce la fedeltà nelle promesse e la semplicità di parola, di tratto, di vita. La gratitudine inclina l’animo a ricambiare ed a ricompensare in qualche modo la benevolenza dimostrataci da altri. La vendetta qui è la disposizione di animo a veder restaurato l’ordine della giustizia, turbata dall’Ingiustizia; ad essa è assai vicina la penitenza con la quale ci doliamo delle offese recate a Dio e cerchiamo di espiarle per noi e per i nostri fratelli. La vendetta privata è una barbarie; per il privato la miglior vendetta è il perdono. La liberalità modera il nostro attaccamento alle ricchezze e ci inclina a spenderle per il bene. L’affabilità rende decoroso e grato il nostro conversare col prossimo con vantaggio del bene individuale e sociale ed a gloria di Dio, padre di tutti. “L’equità inclina, per giuste cause, a mitigare il rigore della legge, perché meglio si realizzi l’ideale della giustizia. Ne abbiamo parlato, trattando della giustizia.
Ecco un quadro, un abbozzo, molto, forse troppo sommario delle virtù connesse alla giustizia. Di alcune occorre però parlare un po’ dettagliatamente per i grandi problemi che sollevano. Così della pietà (343) e della veracità.
I. LA PIETÀ.
1. Nozione.
Come virtù morale, speciale (344), di cui qui si parla, è la virtù con la quale veneriamo i nostri genitori e la nostra patria, come principio della nostra esistenza. In questo senso la pietà fa parte essenziale della giustizia.
2. Oggetto materiale, formale e termine della pietà.
Oggetto materiale della virtù della pietà sono i due atti: debito ossequio e debita riverenza (obsequium et cultus). Con il termine ossequio si vogliono intendere i doveri da prestarsi nelle varie necessità ai genitori, ai consanguinei, alla patria, con l’altro riverenza si vogliono significare le attestazioni di stima, riconoscenza, venerazione, ecc. Oggetto formale o motivo della virtù della pietà è la dipendenza che ci lega ai genitori ed alla patria come ai princìpi della nostra esistenza. Dio infatti, principio supremo della vita e della conservazione, si serve di sue creature, come princìpi secondari, per comunicare ad altri la vita e dirigerli al proprio fine.
Ora, come a Dio, quale principio supremo della vita, rendiamo il debito culto, mediante la virtù della religione, così ai genitori ed alla patria rendiamo il debito culto con la virtù della pietà.
Il fondamento della virtù della pietà è quindi la stretta unione che esiste tra coloro che sono uniti dallo stesso sangue e nella stessa patria.
Oggetto a cui si dirige o termine della virtù della pietà sono i parenti, la patria e tutti coloro a cui siamo legati con vincoli di sangue. L’atto della pietà (obsequium et reverentia), in quanto si dirige ai parenti, è principalmente diretto ai genitori come al principio prossimo della nostra esistenza e di riflesso anche agli altri.
La virtù non lega soltanto i discendenti agli ascendenti ma anche questi ultimi ai primi così i genitori ai figli.
Anche i genitori che esercitano la virtù della pietà verso i loro figli sono tenuti a compiere gli stessi atti della virtù (obsequium et reverentia), in quanto debbono loro prestare una buona educazione, procurare un sostentamento sufficiente, una posizione sociale adatta a trattarli come figli, non come servi. Quando si esce dall’ambito dei rapporti tra genitori e figli e si esaminano altri oggetti terminali della virtù della pietà (coniugi, consanguinei, affini) il vincolo della virtù è più o meno stretto nella misura delle relazioni di dipendenza. Fondamento della pietà è invero il fatto della derivazione della vita da determinate persone, cioè l’intima unione tra il soggetto ed il termine, unione che non si verifica nei riguardi degli altri uomini e che può essere più o meno ampia.
La pietà verso i consanguinei si distingue dalla carità verso il prossimo, perché la pietà onora i genitori, in quanto sono principio della vita e dell’educazione e gli altri, in quanto hanno lo stesso vincolo di sangue prossimo; la carità invece attende ad un vincolo comune anche di sangue, ma assai più remoto.
La pietà verso la patria si distingue dalla giustizia legale, perché il motivo principale della giustizia è procurare il bene della comunità con l’osservanza della legge; ma il motivo principale della pietà è il bene, che noi riceviamo dalla patria in ordine al nostro sviluppo fisico e alla nostra educazione.
La virtù della pietà ci è imposta nel quarto precetto del Decalogo: Onora tuo padre e tua madre, affinché tu sia longevo sulla terra che il Signore Dio tuo ti darà (345). Questo comandamento pone le basi della vita della famiglia e della società.
La vita di famiglia è tutta uno scambio o circolazione di doveri e di diritti. Né il padre ha soli diritti, né i figli hanno soli doveri, Gli uni e gli altri sono tutti sottoposti a leggi santissime che a Dio fanno capo, diverse secondo i diversi termini, ma correlative.
3. Doveri di pietà dei genitori verso i figli.
Sono vari ed in parte hanno come molla l’istinto.
a) Il primo dovere dei genitori è d’amare i figli. Da quello derivano gli altri, del sostentamento, della protezione, dell’educazione.
Quell’amore sia savio ed oculato, non cieco: deve infatti cercare il vero e stabile bene dei figli, non la loro immediata soddisfazione; deve quindi porre in primo luogo il bene dell’anima, tutto subordinando e, se occorre, tutto sacrificando a questo.
Perciò peccano gravemente quei genitori che odiano i loro figli, imprecando di cuore un male grave; li cacciano da casa senza ragione; che amano i figliuoli con affetto disordinato, concedendo loro tutto; che fanno ai figli preferenze ingiustificate.
b) Secondo dovere dei genitori è l’educazione corporale, che importa vigilanza sulla vita dei figli, provvedere al vitto, consigliare ed indirizzare nella scelta dello stato.
La vigilanza sulla vita dei figli implica non far nulla che possa nuocere alla loro sanità.
Il provvedere al vitto, oltre l’obbligo dei genitori, è qui preso in senso ampio, tanto da comprendere anche il vestito e l’abitazione. Peccano mortalmente quei genitori: 1) che negano ai figli il necessario alla vita, finché non possono bastare a sé, 2) che dilapidano il patrimonio nel gioco, nel bere, ecc., costringendo i figli a mendicare; 3) che espongono i loro figlioli o li collocano, senza ragione, nei brefotrofi.
Indirizzare e consigliare i figlioli nella scelta dello stato conveniente alla propria condizione importa creare loro le condizioni favorevoli a ciò ed assisterli. Peccano perciò gravemente; i genitori che non pongono neppure una diligenza comune nel tesaurizzare per i figli; che non si curano di dare ai figli un’arte od una occupazione, che dilapidano i loro beni; che ricusano ingiustamente di costituire un conveniente patrimonio ai figli che sposano, che abbracciano la vita religiosa, ecc.; che intendessero imporre la loro volontà nella scelta dello stato.
c) Terzo dovere dei genitori verso i figli è dar loro l’educazione spirituale.
Si tratta di dovere grave ed importa: 1) l’istruzione dei figlioli, soprattutto religiosa, da impartirsi da se stessi o per mezzo di maestri. A questo proposito va richiamato l’obbligo grave di far battezzare i figli, di farli ammettere per tempo alla prima Comunione; di inviarli alla scuola della dottrina cristiana ed istruirli per proprio conto rettamente; 2) l’esempio. È grave perciò doppiamente bestemmiare davanti ai figlioli, fare cose turpi, non osservare i precetti della Chiesa; 3) la correzione, non escluso il castigo, quando occorre.
Con le debite proporzioni le stesse obbligazioni legano i tutori verso i loro pupilli o chiunque altro esercente o partecipante la patria potestà verso coloro che sono in luogo di figli; gli ascendenti verso i discendenti.
4. Doveri particolari della madre (346).
Per la donna la maternità è la funzione primaria in ordine alla quale sono predisposte le sue peculiari attitudini. Qui hanno anche radice le sue speciali inclinazioni. La madre, come genitrice, ha un particolare amore per coloro che genera, amore che è istinto nella vita animale, mentre, pur rimanendo istintivo, può divenire virtù (e lo deve per non rimanere amore cieco e viziato) nella donna-madre per effetto della sua vita razionale (347).
La concezione cristiana riveste la madre di una dignità e di un rispetto che nessun’altra religione conosce. L’amore materno, come quello paterno e filiale, altro non è per il cristiano che la trasmissione o partecipazione all’amore di Dio, che nell’umanità ne ha infuso il geme (348).
Uguale al padre in autorità (pur se sottoposta in certo senso per l’unità della casa) gli è pari in dignità ed ha gli stessi diritti alla riverenza ed all’affetto nei confronti della figliolanza.
Assieme ai titoli di venerazione e rispetto la madre ha comune col padre tanti altri doveri verso gli stessi figli che vanno dall’amore al sostentamento, all’educazione. Ma ne ha altri specifici che la legano, anche fisicamente, al figliolo dal momento della concezione fino al momento almeno in cui il bimbo non è capace di vivere una vita nutritiva indipendente.
Che la natura imponga questi obblighi alla madre è provato dai mutamenti e dalle nuove funzioni fisiologiche che sorgono nella madre con la maternità.
Questi doveri vanno legati a tre momenti salienti della vita del bambino: vita uterina, nascita, allattamento.
Per quanto riguarda la vita uterina si è già parlato, sottolineando i gravi delitti (aborto, embriotomia), di cui si può macchiare una madre, chiamata dalla sua stessa vocazione alla maternità ad affrontare a volte situazioni eroiche che la possono e devono condurre al sacrificio della sua stessa vita, per conservare una nuova vita che fiorisce.
Nuovi doveri incombono appena il bambino è nato. La sua vita è resa autonoma, ma ancora alla mercé dei genitori, della madre soprattutto.
Egli dovrà avere un nome e sarà facile questa soluzione, quando nasce in una società familiare già costituita. Ma quando questa non c’è e non ci può essere per superiori ragioni di indole sociale (figli adulterini, ecc.) o non la si è voluta e non la si vuole creare, ed il bambino resta solo di fronte alla madre nubile, si crea per costei, per la società un grave problema.
Prescindendo dal problema sociale in sé (dei brefotrofi, e dell’infanzia abbandonata), guardiamo alla madre.
Biologicamente la madre si trova nella stessa situazione di fronte al figlio sia legittimo che illegittimo. Psicologicamente non è così: uno nato nell’ordine, l’altro nel disordine.
È logico che la psicologia della maternità illegittima sia differente da quella della maternità legittima: la madre illegittima è portata facilmente a vedere nella creaturina che ha m seno un intruso, se non un nemico; e questa psicologia accompagna la madre almeno fino alla nascita, Questa psicologia, per quanto spiegabile non è giusta, neppure quando la madre si trova tale contro sua voglia, per effetto di violenza: anzi è contraria al primo dovere verso la prole, quello dell’amore. E perciò va combattuta.
Inoltre per sé, seguendo la linea segnata dalla natura, anche la madre illegittima, dovrebbe tenersi la propria creatura e darle il proprio nome, sia perché giova di più alla prole, sia perché è ancora in molti casi ed in un certo senso una riabilitazione della madre stessa.
Nel campo morale infatti il primo principio da tenersi presente è che, una volta avvenuto il male, si deve cercare di rimediare nel miglior modo possibile, evitando di far pesare fuori dello stretto necessario sull’innocente creaturina il suo stato di fatto, che lo colloca fuori dell’ordine e della legge.
Del resto, pur essendo pari la responsabilità nella procreazione per l’uomo e la donna, anzi alle volte unica la responsabilità dell’uomo, la madre tuttavia resta fisicamente legata non solo per un istante al frutto del suo concepimento, ma sempre, almeno fino alla nascita; e per un fenomeno controllabile (349).
Per motivi però di ordine superiore la legge può mettere dei limiti all’adempimento di questo dovere, valevoli anche in coscienza: o perché c’è l’integrità di un nucleo familiare da salvare o per altri motivi di ordine morale o sociale.
Bisogna perciò incoraggiare la madre illegittima a non sottrarsi alle sue responsabilità assunte forse con leggerezza. Questo criterio va portato anche nel campo assistenziale, dove è da favorire un aiuto dato o promesso alle madri illegittime come il mezzo, finora il più adatto a favorire il riconoscimento, a trattenere le madri nubili da atti inconsulti dannosi a sé ed al figlio, e a preservarle da ulteriori cadute o da uno stato di vizio permanente, per quanto, come si è già detto, l’aiuto non deve significare approvazione del passato e non deve restringersi al campo materiale.
Anche l’obbligo dell’alimentazione, per quanto comune ad ambedue i genitori, pesa inizialmente più sulla madre che sul padre, perché la natura stessa ha destinato la madre ad essere colei che è direttamente chiamata all’allattamento, unico mezzo di sostentazione nei primi mesi di vita (350).
Il dovere materno dell’allattamento fu giudicato nella storia della teologia morale con maggiore o minore severità secondo i tempi.
C’è stato chi ha giudicato severamente di questo dovere (351), ritenendo che solo la necessità (malattia, lavoro intenso, ecc.) esima legittimamente la madre, condannando quindi l’abitudine invalsa in certe classi sociali di non allattare la prole per motivi massimamente, se non esclusivamente, di ordine estetico. C’è invece chi ha giudicato con maggiore indulgenza, ritenendo l’usanza del luogo o della classe sociale motivo sufficiente per esimersi da tale onere, purché l’allevamento fosse ben curato in una maniera o nell’altra. Ciò è dovuto ad una diversa valutazione delle circostanze ambientali ed alla diversa mentalità dei tempi.
Per quanto si possa discutere sulla gravita di questo obbligo dell’allattamento, certo esso ha per base il fatto fisiologico della maternità, quindi rispecchia un dovere, sia pur secondario della legge naturale, come un complemento della maternità stessa. Si risolve poi in un massimo bene del bambino, perché egli vi trova la più sicura protezione per il sano sviluppo della sua vita fisica e morale, e si risolve ancora, a giudizio dei medici, in un vantaggio della madre non solo dal lato fisico, ma soprattutto da quello morale e spirituale, come il mezzo più indicato per creare tra madre e figlio la corrente naturale dell’affetto. D’altra parte le cause che si adducono per esonerarsi da questo compito sono spesso tutt’altro che lodevoli, ispirate, come sono, all’egoismo ed alla vanità.
Per questo solo nei casi di necessità (malattia, insufficienza lattea, ecc. ed altre cause di ordine sociale) la madre può ritenersene dispensata.
5. Doveri di pietà tra fratelli.
Doveri di amore fraterno hanno fratelli e sorelle tra loro, e si devono concretare nel soccorso mutuo, almeno di fronte ad una grave necessità dell’uno o dell’altro.
6. Doveri di pietà tra i coniugi.
Termine della virtù della pietà sono anche i coniugi tra loro. Certi doveri che scaturiscono dalla pietà sono comuni ad ambedue, altri propri dell’uno o dell’altro.
A) Sono comuni ad ambedue:
a) l’amore, che in questo caso può e deve ” venir comandato e chiamarsi santo ” (Manzoni), inteso come unione vera, soprattutto di anime. L’amore include il mutuo rispetto tra i coniugi;
b) la coabitazione, che importa la stessa casa, la stessa mensa ed il riposo in comune nelle ordinarie circostanze;
c) la fedeltà coniugale, per cui ogni diritto sulla moglie spetta al marito e viceversa. Qualsiasi intrusione di terzi è violazione di questi obblighi;
d) l’onesta sostentazione, secondo il proprio stato. Questo dovere spetta prima di tutto al marito e subordinatamente alla moglie.
B) Sono obblighi più propri dell’uomo:
a) una buona amministrazione familiare.
Si parla di amministrazione e non di dominio, che può essere regolato anche diversamente. Qui interferiscono doveri non solo di pietà, ma anche di giustizia. Ambedue i coniugi ritengono separati, nello stato matrimoniale, i diritti naturali che possiedono e fra questi la capacità di dominio: rientra però nell’aiuto scambievole da prestarsi tra i coniugi, quello che l’un coniuge aiuti l’altro che ha bisogno, sebbene in linea ordinaria sia l’uomo che deve mantenere la donna. Per quei beni che eccedono questo fine immediato e quello che si può aggiungere del mantenimento dei figli, per diritto di natura, ciascun coniugo può disporre come crede. In genere è il diritto civile a determinarlo più in concreto (353); ma a volte il diritto stesso si rimette alle convenzioni contrattuali tra coniugi (354).
Secondo il diritto di natura, la moglie conserva il pieno dominio dei beni che acquista personalmente con la propria industria o le vengono sia per titolo ereditario che di donazione; ambedue i coniugi hanno aequo iure il dominio dei beni comuni; la moglie è tenuta a mantenere la famiglia coi propri beni, se quelli del marito o quelli comuni non siano sufficienti;
b) un retto governo della casa.
C) Sono obblighi propri della donna: a) il debito rispetto verso il marito; b) l’obbedienza, entro limiti ragionevoli, in ciò che riguarda il governo della casa; e) una diligente cura della casa.
7. Obblighi di pietà dei figli.
I figli difficilmente possono ricambiare quanto hanno ricevuto dai genitori, perché per quanto facciano, tuttavia resta sempre la dipendenza ontologica dai genitori. Appunto perché non si può parlare di perfetta uguaglianza e resta la dipendenza ontologica, la virtù della pietà si distingue dalla virtù della giustizia.
A) I figli sono dunque tenuti a manifestare verso i genitori:
a) l’amore sia interno che esterno. Peccano perciò gravemente, se odiano i genitori, se dimostrano di odiare i genitori sia in privato e più in pubblico, se non li assistono nelle loro necessità spirituali e materiali;
b) il santo rispetto che si deve dimostrare con le parole, con i segni e con i fatti. La valutazione della gravità della colpa va fatta, tenendo presente non solo la cosa in sé, ma anche le circostanze;
c) l’obbedienza in tutte le cose lecite e finché sottostanno alla patria potestà (355), in pratica finché stanno nella casa paterna e ricevono il vitto dai genitori. Circa l’elezione dello stato: 1) i figli per sé non sono tenuti ad obbedire, se non in casi straordinari per pietà verso i genitori; 2) debbono chiedere consiglio ai genitori, se si tratta di contrarre con questa o con quella persona, ma non sono tenuti ad obbedire; 3) non è neppure obbligatorio chiedere consiglio e spesse volte non conviene, se si tratti dell’elezione dello stato religioso e sacerdotale (356). L’estensione dell’obbedienza è limitata dall’ambito dell’autorità esercitata; illimitata rispetto a Dio, padrone assoluto, rispetto agli uomini è limitata dal diritto divino naturale e positivo, da ogni autorità umana superiore, dalla materia sottratta al potere di chi comanda. In caso di dubbio la presunzione sta per il superiore.
Si pecca contro l’obbedienza per eccesso con la servilità, obbedendo anche nelle cose illecite; per difetto con la disobbedienza. La disobbedienza formale è peccato specifico, che ha come costitutivo il disprezzo della cosa comandata (imperfetto) o del superiore (perfetto). Se il disprezzo o ribellione tocca una cosa particolare ammette parvità di materia; se tocca il superiore in quanto soggetto dell’autorità finalmente diviene grave (cfr. Rom. 13, 2). Cfr. CATTAUI DE MENASCE, Discorso sull’autorità, Roma 1970 (specie quando è detto su autorità educativa, p. III ss.).
Circa l’elezione della professione: i parenti non possono imporsi ai figlioli, per quanto sia utile seguire i loro consigli. Per le relazioni patrimoniali tra figli e genitori, occorrerà soffermarci più in dettaglio, involvendovisi problemi non solo di pietà, ma anche di giustizia (357).
Secondo il diritto di natura i figli, anche se minori, in quanto sono persona, sono capaci di possedere e di acquistare beni, che il padre avrà il diritto e dovere ex pietate di amministrare nell’interesse dei figli, se questi, perché minori o altrimenti incapaci di agire giuridicamente, gli sono sottoposti.
B) I beni appartenenti ai figli di famiglia possono distinguersi in due categorie;
a) beni provenienti ad essi per trasmissione di proprietà da parte di precedenti titolari, mediante donazione, eredità o legato;
b) beni derivanti dal personale esercizio di un’arte, industria ed in genere di un lavoro remunerativo. Sui beni di ambedue le categorie compete ai figli il dominio, ed i genitori non possono appropriarsene, senza ledere la giustizia. Ma i figli a loro volta, in ordine a tali beni, possono avere obblighi verso i genitori, che il diritto particolare e la consuetudine determinano più dettagliatamente.
Prima di tutto vi è obbligo, per giustizia, di rifondere al padre eccetto il caso di condono, le spese che egli incontra per l’alimentazione, istruzione, ecc. del figlio, il quale non ha un diritto strettamente detto, ex iustitia, a tali prestazioni da parte del padre, non potendo vantare in proposito altro titolo che quello della propria indigenza ed incapacità, fino a che sia in età minore. Perciò il padre che amministri i beni del figlio, può in coscienza percepire dei frutti dei medesimi quanto equivale alle spese che incontra per il sostentamento e l’istruzione del figlio e per l’amministrazione dei beni stessi. Quindi incombe l’obbligo, pure esso di giustizia, di restituire ciò che i figli abbiano ingiustamente sottratto ai genitori, e di rifondere loro i danni arrecati ingiustamente. Si osserva a proposito che il figlio che deruba il padre o che gli arreca un danno ingiusto, pecca contro la giustizia, e questo peccato è reso più grave dalla connessa violazione contro la pietà.
Però il predetto stretto vincolo esistente tra i figli ed i genitori è causa del fatto che, entro certi limiti, il padre non possa essere ragionevolmente contrario a che il figlio si appropri di taluni beni, come p. es. modeste somme di denaro per leciti divertimenti, cibi oltre quelli che il padre stesso fornisce. Di qui si arguisce die siffatte sottrazioni e simili, compiute dal figlio, non rivestono tutti gli estremi del furto; attenuano l’obbligo della restituzione ed esigono maggiore quantità per costituire la materia grave (358).
In terzo luogo incombe ai figli per pietà l’obbligo di sovvenire all’eventuale indigenza dei genitori, quando possono farlo senza proprio notevole detrimento. Quest’obbligo è grave, a tal segno che molti ed autorevoli moralisti sono dell’avviso che un figlio che abbia a carico la sua propria famiglia, debba, nel caso di necessità dei genitori, anteporli ai figli propri, perché verso i primi ha un obbligo di gratitudine, che non ha verso i secondi.
C) Nel campo specifico del lavoro e del lucro conseguito dal figlio, mentre rimane ancora nell’ambito della famiglia, SÌ possono considerare varie ipotesi:
a) se il figlio esercita il suo lavoro separatamente dal padre i proventi di un tale esercizio gli spettano, oltre al dominio, spettando al padre solo l’amministrazione per il figlio minorenne e fermo l’obbligo di giustizia (359) per il figlio di rifondere al padre le spese del suo mantenimento.
Ne consegue che i figli minori, i quali ritengono il proprio salario, purché restituiscano quanto consumano in famiglia, se possono essere tacciati di disobbedienza, qualora contravvengano ad un ordine esplicito di consegnarlo, e di mancanza contro la pietà, non possono essere però tacciati d’ingiustizia;
b) se il figlio esercita l’arte, industria, ecc., in nome e per conto proprio, utilizzando però i mezzi a ciò concessi dal padre od anche di proprietà paterna, clandestinamente adoperati, i lucri derivanti da un tal genere di lavoro, secondo alcuni moralisti (ad es. Schilling) sono attribuiti totalmente al padre, secondo altri (ad es. Piscetta-Gennaro) vengono attribuiti al figlio. E questa seconda sentenza, temperata nel senso che il figlio deve risarcire i beni fungibili consumati al padre e ricompensarlo per l’uso di quelli non fungibili, e ciò specialmente se manca il consenso espresso del padre, sembra più probabile. Sui proventi in oggetto, oltre gli obblighi di rifusione ed indennità predetti, gravano tutti quelli che gravano su di un lavoro del tutto separato;
c) se il figlio presta la sua opera nell’arte od industria paterna, come dipendente o collaboratore, nessuna mercede gli compete, se gli utili da esso realizzati non superano le spese che per lui incontra la famiglia. Ugualmente non ha diritto a ricompensa l’opera prestata dal figlio, quantunque produttiva di un lucro superiore alle spese sostenute per lui dalla famiglia, ed accettata come gratuita dal padre, quando la richiesta della gratuità da parte del padre è ragionevole, perché un’opera equivalente presterebbero, se richiesti, gli altri fratelli e gratuitamente o ad un prezzo basso gli estranei. Nell’ipotesi invece che i profitti derivanti dal lavoro del figlio eccedano le spese che incontra la famiglia per lui, e che non vi sia il concorso di fratelli operanti in eguai misura e gratuitamente o che, pur dandosi tale concorso, vi siano espresse pattuizioni col padre in proposito, il margine utile che resta di quei profitti, dopo che se ne siano cioè detratte le spese supposte, compete in pieno dominio al figlio. In concreto però a determinare l’esistenza più o meno del diritto del figlio agli utili e la misura in cui gli competono, influiscono vari fattori, come la rinunzia del figlio, presumibile giustamente se il lavoro prestato dal figlio nell’esercizio paterno, torna a vantaggio del figlio, in quanto lo prepara ad una posizione indipendente. Non può però il padre invocare questa rinunzia di fronte ad una richiesta di ricompensa avanzata dal figlio, desumendola semplicemente dal precedente silenzio del figlio stesso.
Occorre inoltre considerare la legge civile (360), che può in materia determinare e specificare il diritto naturale, e le consuetudini dei vari luoghi, le quali in questo campo hanno un peso non indifferente. Queste circostanze sminuiscono ed in taluni casi possono eliminare del tutto il diritto del figlio alla mercede.
8. Doveri di pietà verso le persone che prestano servizio domestico.
In molte famiglie erano un tempo un elemento integrante. Come membri, sia pure inferiori, della famiglia in cui vivono hanno anch’esse, solevano dire i vecchi moralisti, dei diritti e dei doveri e vi sono anche verso di esse diritti e doveri. I loro doveri si concentrano nell’esecuzione fedele del loro contratto di lavoro, nel rispetto e nell’obbedienza verso i loro padroni. Questo linguaggio ha oggi sapore di arcaico. Ma è bene ricordare che il nome familia deriva proprio dall’insieme dei servi, dei famuli, e solo più tardi significò tutti i conviventi nella medesima casa. Appartenendo alla famiglia, che essi aiutavano con l’opera e della quale solevano avere le cure più faticose, con pencolo di sfruttamento, era giusto che i moralisti insistessero perché come persone di casa e di famiglia fossero considerati e trattati. Oggi più che altro sono una categoria di lavoratori e lavoratrici a servizio domestico, salvo eccezioni.
a) A loro spetta un equo salario, secondo il contratto collettivo di lavoro.
b) Data la maggiore intimità del lavoro domestico, maggiore è la responsabilità morale di chi li tiene a proprio servizio in casa ed anche maggiore è la responsabilità di chi lavora in casa altrui di non approfittare della fiducia, quando c’è, e della confidenza, quando viene accordata. Peccano quindi contro uno speciale dovere di pietà (sia pure in senso lato) quei padroni, i quali, paghi di essere ben serviti, non si curano poi della moralità propria e altrui. Peggio ancora quando con la loro condotta e le loro insidie costituiscono per le persone che prestano servizio a domicilio la prima e più fatale occasione di pervertimento.
9. Doveri di pietà verso la patria (361).
Patria è la comunità territoriale, in cui siamo nati e dalla quale riceviamo le possibilità di vita ed il governo. Non è da confondersi l’idea di patria con quella di nazione e di stato, giacché nazione indica più propriamente l’insieme degli uomini che la natura riunisce come discendenti dagli stessi antenati (non di per sé la terra, dove si è nati e si vive) e stato indica un popolo politicamente organizzato.
L’idea di patria è un’istituzione legittima e quindi accolta dal Cristianesimo (362) e l’amore ben inteso verso la patria (patriottismo) è un dovere di pietà. Esso non è un obbligo esclusivo, ma dev’essere coordinato e subordinato al rispetto per le altre patrie, al dovere generale di amore verso tutta la grande fraternità umana ed agli obblighi verso la società, destinata a raccogliere tutti gli uomini per un fine superiore, la Chiesa (363).
Il fondamento dell’amor di patria è dato dall’amore verso noi stessi, che ci viene comandato e che è insieme amore di noi stessi e dell’umanità, ma in quanto questa si riflette nel mondo e negli uomini che ci vivono intorno.
Importa rispetto verso la competente autorità e verso la memoria degli uomini che si sono resi benemeriti della patria; amore di predilezione verso la propria terra; obbedienza agli ordini legittimi delle patrie autorità.
Come ogni altra virtù, anche la pietà verso la patria cessa di essere virtù, se si esercita in modo non conforme alla pietà ed alla carità.
Può essere lesa la pietà verso la patria per eccesso con il nazionalismo esagerato (esclusione di parità giuridica delle altre nazioni, egoismo economico con scapito della collettività, deificazione della patria), che può a volte fondersi e si è storicamente a volte fuso con la deificazione della razza (razzismo). La pietà può essere lesa per difetto con tradimenti, diffamazioni e forme di cosmopolitismo che escluda il riconoscimento dei beni delle varie entità nazionali, risultanti attraverso un processo di lavoro culturale di secoli. A tali forme di cosmopolitismo possono ridursi 1′ umanitarismo anarchico, che riconosce solo l’uomo singolo; l’internazionalismo economico (ubi bene, ibi patria) e l’internazionalismo comunista (almeno nell’accezione di Marx e Lenin).
10. Pietà verso i defunti.
La credenza nella vita futura ci muove a non interrompere i vincoli di pietà con le persone care, al sopravvenire della morte; ma a continuare a voler bene in quelle forme che ci restano possibili e che si concretano nella preghiera per le loro anime, nel ricordo e nella cura delle loro spoglie mortali. Un cenno per quanto riguarda la cura del corpo del defunto si è fatto, parlando dei doveri verso se stessi; delle preghiere per i defunti si parlerà a proposito dell’applicazione della Messa.
11. Inosservanza, per cui si rende il dovuto onore alle persone, prestanti per grande virtù o dignità, è un complemento della virtù della pietà, per cui valgono, con le dovute proporzioni, le regole finora tracciate in quest’ultima virtù.
12. Violazione della virtù della pietà. Essendo la pietà virtù speciale, la sua violazione costituisce peccato speciale; la malizia speciale però probabilmente si contrae soltanto tra le persone più strette per vincoli di sangue (consanguineità in linea retta o in primo grado in linea collaterale) e solo per le violazioni riguardanti le persone ed i beni personali, ma non i beni reali (furto). Rispetto agli altri consanguinei od affini, costituisce probabilmente soltanto circostanza aggravante del peccato specifico.
NOTE
343 Cfr. La famiglia cristiana (Sett, soc. d’Italia XIII sess. 1926. Genova), Milano 1951; P. F. CHARMOT, Esquisse d’une pedagogie familiale, Paris s.a.; J, LECLERCQ, La famille, Namur 1933, passim; J, J, WEIGHT; National patriotism in papal teaching Boston 1942; SISINIO DA ROMALLO, Pietà, in EC, IX, 1388-1389; G. DOSSETTI, La famiglia, in L’ordine interno degli Stati, Milano 1945, 105; A. MARONGIU, La famiglia nell’Italia meridionale, Milano 1944; G. PISCICELLI (P. Altavilla). La famiglia, Roma 1948; V. DEL MAZZA, La famiglia nel pensiero di Pio XII, Alba 1952; E. COLAGIOVANNI, Servizio sociale familiare, Bologna 1961, H. SCHLIER, Lettera agli Efesini, Brescia 1965, 204 ss.; E. ROSSI, Etica famigliare nell’enciclica, in Populorum progressio, testo e commento dell’enciclica (Quaderni Ekklesia) Roma 1967, 74-94.
344 Può essere presa in altri significati: nel significato volgare di commiserazione e nel significato di culto divino.
345 Es 20, 12. Cfr. anche: Dt 5, 16; Ef. 6, 2-3.
346 Cfr. V. BERINCER, Das unehaliche Kind u. Seine Mutter, Metz 1903; D. BASSI, In famiglia, Firenze 1907; G. DANESINO, L’Obbligo del riconoscimento materno, Torino 1918; A. Lo MONICO APRILE, La protezione sociale della madre e del fanciullo in Italia ed all’estero. Bologna 1924; O. |MODIGLIANI, L’assistenza alla maternità illegittima, Tivoli 1934; P. PICCA, Maternità ed infamia, Roma 1941; G. CATTAUI DE MENASCE, L’assistenza ieri e oggi, Roma 1963.
347 L’amore materno è preso nella letteratura, nell’arte ecc. come il tipo più eccelso di amore del prossimo, votato ad ogni eroismo (cfr. Iliade 28, 4; PLAUTO, ]er Haut, 991; CICERONE, Epist. 9, 20, 5; De Orat. 2, 227; ORAZIO, Carmina 4, 5, 10; Ep. 1, 18, 20 ecc.). Anche nella S. Scrittura l’amore materno viene preso come amore tipo (2 Sam 1, 26; Sir 15, 2); e la gioia della maternità come la gioia più pura che coroni un insieme di sacrifici (Sal 112, 9; Gv 16, 21); l’ingiuria contro la propria madre è mostrata come veicolo delle divine maledizioni (Sir 3, 18; Mt 15, 4). Lo stesso Dio prende a tipo del suo amore per l’umanità l’amore della madre per i figli (Sir 15, 2; Is 49, 15; 66, 13).
348 Ef, 3, 14-15.
349 È quindi divenuto un principio comunemente ammesso nelle legislazioni, la ricerca della maternità, in quanto la maternità è sempre certa per il fatto che il parto la denuncia (cfr. A, CICOTERO, Gli illegittimi, Torino 1951).
350 Cfr. S. ANTONINO, Summa Theologica, II, Veronae 1740, 56 ss.
351 Cfr. PILLICIUS, Quaestiones morales, Lugduni 1634, 269.
352 Cfr. S. ALFONSO, Tbeol. mor. III, 356, ed. L. Gaudé, I, Romae 1905, 604.
353 I sistemi principali che sono soliti adottare i coniugi nell’atto del matrimonio riguardo al dominio dei beni temporali sono tre; 1) sistema di comunione dei beni, il quale ammette diversi gradi, come comunione universale, parziale o semplice amministrazione comune; 2) sistema della separazione dei beni; 3) sistema dotale. Se i coniugi contrassero matrimonio senza speciale convenzione, si ritiene che essi abbiano abbracciato in pieno il sistema che vige comunemente nella regione.
I beni dei coniugi si distinguono (con qualche modifica secondo i vari codici civili) in: beni dotali, parafernali (extra-dotali, a sé riservati dalla moglie), comuni e famigliari (presso alcune nazioni non si fa distinzione tra i beni comuni, cioè messi in comune fin dall’inizio e quelli familiari, cioè quelli che i coniugi acquistano insieme, esercitando lo stesso lavoro). Molte nazioni poi hanno come fondamento della loro legislazione in materia il diritto romano ed attribuiscono al marito l’amministrazione e l’uso di tutti i beni, eccetto quelli parafernali, sebbene qualche volta ne limitino alquanto i poteri. Circa tutta questa materia, cfr. A, P., De dominio uxorum, in Monitore ecclesiastico, 67 (1942) 45-58; 107-109; V. VANGHELUWE, De legali commutatione bonorum inter coniuges, in Collationes brugenses, 43 (1947) 338-346; 420-424.
354 Così secondo il diritto italiano, il matrimonio per se stesso non produce altro vincolo patrimoniale che quello dell’obbligo di entrambi i coniugi di sostenersi a vicenda e di contribuire in proporzione delle sostanze di ciascuno alle spese della famiglia.
In mancanza di convenzioni matrimoniali, la legge tutela il sistema dell’assoluta separazione dei beni; perciò ciascun coniuge conserva il dominio, l’amministrazione ed il godimento dei suoi beni. Tuttavia è frequente il caso, che il marito amministri i beni della moglie, sia che ne abbia espresso mandato come non l’abbia, avvertendo però che nel primo caso non è tenuto, allo scioglimento del matrimonio, a consegnare altro che i frutti esistenti, mentre nel secondo caso deve render conto anche dei frutti consumati. Anche con il P. U. che prepara il nuovo diritto di famiglia in Italia, la comunione dei beni diviene, in mancanza di diversa convenzione, il regime patrimoniale legale, Su questo P. U. cfr. V. FRANCESCHELLI, II nuovo diritto di famiglia, in Studi cattolici, a. 172 (giugno 1975) 323-329.
Un istituto nuovo è stato creato dal Codice 1942 ” il patrimonio familiare “, quel complesso cioè di beni immobili o titoli di credito, che vengono da uno dei coniugi o da entrambi o da un terzo destinati ai bisogni del matrimonio o dei figli minori (art. 167-168).
Si hanno infatti due specie di dote: quella di quantità, consistente in cose fungibili o consumabili, o rappresentata da altre cose mobili, che siano state stimate nel contratto di matrimonio o da immobili pure stimati, ma con espressa dichiarazione di trasferimento in proprietà al marito, e quella di specie comprendente tutte le altre cose. La prima passa al marito in proprietà (ed è da restituire alla moglie solo lo equivalente); la seconda viene data al marito solo in amministrazione.
355 La patria potestà si esercita sui figli minorenni.
L’obbedienza è la virtù che rende riverenza dovuta al superiore, e quindi è contenuta sotto la virtù della religione se riguarda Dio; della pietà se i genitori; dell’osservanza se i superiori in genere. Ma in quanto ha un oggetto specifico: il precetto da eseguire si distingue dalle predette virtù. Occupa un posto eminente, tra le virtù morali, inferiore solo alla religione, per l’oggetto che disprezza per unirsi a Dio, la volontà, il massimo dei beni spirituali dell’uomo.
356 Cfr. S. Theol. 2-2, q, 101, a, 4.
357 Cfr. A. VANGHELWE, De dominio fìliorum familias, in Collationes brugenses,
43 (1947) 258-264; A. CICU, La filiazione, Torino 1951.
358 Cfr. quanto si è detto a proposito del furto.
359 Gli autori lo dicono obbligo di giustizia (dissente il Vangheluwe) fermo l’obbligo grave di pietà, di sovvenire alle necessità eventuali di genitori, conforme a quanto sopra esposto. S’intende che la predetta obbligazione di giustizia non sussiste, quando il padre ne da il condono: tale condono lo possono presumere facilmente i figli di famiglie che dispongono di mezzi sufficienti di fortuna; non lo possono presumere i figli di famiglie appartenenti al ceto operaio, che vivono sul lavoro quotidiano del padre di famiglia.
360 Per il diritto italiano, cfr. le linee programmatiche sancite nella Costituzione sui rapporti familiari (art. 29-51). Il Concilio ecumenico Vaticano II insiste che chi ha influsso sulla società deve collaborare al bene della famiglia (cost. past. Gaudium et spes, n, 52), che i diritti della famiglia devono essere riconosciuti, rispettati e promossi (ibid., n. 75); che la famiglia ha il diritto di ordinare liberamente la propria vita (Dichiar. Dignitatis humanae, n. 5).
361 Cfr. S. Theol., 2.2, q. 101; q. 25 a. 5; q. 25, a, 6-12, q, 64, a, 2,5, 7; D, RUCH, Patrie, in DAFC, III, 1588-1621; C. GIBIER, Patrie, I vol., Paris 1920; P. NOTGES, Nationalismus und Katholizismus, Colonia 1931; R. PLUS, Le putriotisme chrétien, in Rev. Apol., 54 (1932) 284-2S9; I, GÈ LA BRIÈRE, Patriotisme, nationalisme, in Etudes (1933) 345 ss.; 1. V. DUCCATILLON, Le vrai et le faux patriotisme, Paris 1933; D. RUCH, La pieté envers la Patrie, Paris 193), F, STROWSKI, nationalisme ou patriotisme, Paris 1933; Du PLESSIS – DE GRENEDAN, Patrie, in DTC, XI, 2301-2326; P.W. SCHMIDT, Razza c Nazione, Brescia 1958; L. LACHANCE, Nationalisme et Religion, Ottawa 1936; M, CORDOVANI, Diritti e doveri sociali secondo S. Tommaso, in Acta Pont. Ac. Rom. S. Thomae Aq., 1938, Roma 1939, 50-77; E. PETERSON, La question du nationalisme dans le christianisme des premiers siècles, in Dieu vivant, 22 (1952) 89-106; M. GIORDANO, Razze-Razzismo, in Dizionario del conc. ecum. Vaticano II di S. Garofalo, 1684-1686.
362 Anche la S. Scrittura ci fornisce degli esempi di amor di patria (cfr. Lc. 19, 42; Mt, 23, 4; 17, 23; Rom. 9, 1-5, ecc.). Costante e poi l’Insegnamento della chiesa di un sano amor di patria, lontano da ogni estremismo.
363 Anche il Concilio Vaticano riprende il tema dell’amor di patria, pur spingendo ad una maggiore solidarietà tra i popoli in tempo di migrazioni e facili movimenti turistici, di affari ecc. Cfr. Apostolicam actuositatem, n. 14; Ad gentes, 15; cost. past. Gaudium et spes, n. 32, 75, 79.