…ATTUAZIONE DELLA VIRTÙ DI RELIGIONE NEL CULTO (Seconda parte). LA LITURGIA EUCARISTICA O SACRIFICIO DELLA MESSA E LA SANTIFICAZIONE DEI GIORNI FESTIVI. Il sacrificio della Messa. La domenica e i giorni festivi. Santificazione delle feste. Riposo festivo. L’OFFERTA. VOTO – GIURAMENTO – SCONGIURO. LA LODE DI DIO – LA LITURGIA DELLE ORE….
Trattato di Teologia morale
PARTE I.
L’UOMO DI FRONTE A DIO
LA RELIGIONE
2. ATTUAZIONE DELLA VIRTÙ DI RELIGIONE NEL CULTO
(Seconda parte)
VIII. LA LITURGIA EUCARISTICA O SACRIFICIO DELLA MESSA E LA SANTIFICAZIONE DEI GIORNI FESTIVI (238).
1. Il sacrificio della Messa.
Tra i vari atti di culto interno-esterno con i quali l’uomo si sforza di esprimere tutta la sua religione, tutta la sua devozione, quello che tutti in certo modo li sintetizza è l’offerta completa di sé. E poiché non gli è lecito spingere questa offerta fino all’uccisione di sé in omaggio a Dio, l’uomo civile sostituisce le cose poste da Dio in suo dominio a se stesso in questa offerta, animale, frutti, oggetti preziosi, per simbolizzare l’offerta di sé, fino alla distruzione completa. Tale atto di religione chiamasi sacrificio; esso è il più alto, il più comprensivo, il più tipico atto di religione.
Nel sacrificio della Messa rappresentazione e rinnovazione mistica del sacrificio della Croce, il culto cristiano trova la sua più alta espressione.
Niente, infatti, più efficacemente della rinnovata oblazione del sacrificio, che Cristo fece di sé sulla croce come rappresentante dell’umanità, vale a glorificare Iddio e ad esprimere la nostra sottomissione a Lui. Aboliti, come imperfetti, tutti gli altri sacrifici, la Messa costituisce l’unico mezzo con cui la società può soddisfare al suo naturale dovere di rendere a Dio la più alta attestazione della sua sottomissione. Il sacrificio, infatti, fu sempre considerato come il principale atto del culto esterno, riservato e dovuto a Dio per legge naturale.
Per questo la parola di Cristo ” fate questo in memoria di me ” (Lc 22, 19) suona comando per la Chiesa. Per questo tutti i fedeli che hanno l’uso di ragione sono tenuti ad unirsi alla Chiesa in questa suprema espressione del culto liturgico.
Dovere, questo, che la Chiesa stessa ha determinato sia quanto al tempo sia quanto alle altre circostanze.
2. La domenica e i giorni festivi.
Due allusioni nel Nuovo Testamento al ” primo giorno della settimana ” (Atti 20, 79; 1 Cor 16, 1-2) cioè alla nostra domenica, e una ” al giorno del Signore ” (Atti 1, 10), permettono di concludere con seria probabilità che i cristiani avevano già l’abitudine di santificare questo giorno (239). Non sappiamo, invece, se per loro questo giorno era un ” giorno di riposo “, cioè se la domenica avesse preso il posto del sabato giudaico, come spesso si ripete (240), La riunione o l’assemblea dei cristiani in quel giorno è strettamente connessa con la celebrazione eucaristica (Atti 20, 7; 1 Cor 16, 1-2). Il Nuovo Testamento menziona riunioni eucaristiche, che hanno luogo la domenica; più esattamente il sabato sera, inizio della domenica.
S. Paolo profittava delle riunioni dei Giudei alla sinagoga i giorni di sabato per annunziare il Cristo [Atti 13, 14; 16, 13; 17, 2; 18, 4). Di più per il Nuovo Testamento la domenica era un giorno commemorativo della risurrezione del Signore e i cristiani lo “santificavano” per mezzo della riunione eucaristica, che aveva luogo in questo giorno.
Per i cristiani in realtà non vi è che una festa annuale, la Pasqua: essa ha per oggetto il mistero di Cristo morto e risuscitato. La domenica è la celebrazione settimanale di questo mistero, di cui l’Eucaristia non è altro che la celebrazione sacramentale: perciò, il legame, intimo e profondo, tra Eucaristia e domenica. È necessario richiamarsi a questa origine storica ed illustrare bene questo tema centrale, enucleato anche nei documenti conciliari del Vaticano II (Sacros. conc., n. 102), per mettere in evidenza – e senza sforzo – il legame oggettivo che lega l’Eucaristia alla celebrazione della domenica. Senza Eucaristia, che è il memoriale sacramentale, la domenica resterebbe priva del contenuto che dovrebbe santificare, cioè il mistero pasquale. Tale dovrà essere il punto di partenza di ogni catechesi per la santificazione della domenica. Converrà inoltre approfondire bene nella sua pienezza, il significato della domenica. È innanzitutto il ” giorno del Signore ” cioè, in primo luogo, l’anniversario settimanale della Risurrezione. In un secondo tempo divenne giorno anniversario anche della creazione (è il settimo giorno di riposo) ed, infine, prefigurazione del giorno escatologico.
Ma, essendo anche il giorno anniversario della Pentecoste, la domenica è ugualmente il “giorno della Chiesa”, del popolo di Dio, adunato, santificato da Dio, inviato in missione nel mondo fino alla fine dei tempi.
Dalla domenica alle feste il legame procedette da sé. Da principio la domenica era come si è dimostrato la celebrazione settimanale della festa per eccellenza, la Risurrezione del Signore. A questo titolo la domenica era, a modo suo, una festa. Ma era chiaro che questa ricorrenza settimanale non bastava ad esprimere tutto il valore festivo della Risurrezione. Perché questa fosse accessibile all’uomo concreto, occorreva che esistesse una festa nel senso forte della parola, cioè una celebrazione annuale, contrassegnata da tutto ciò che l’evento pasquale apre di prospettive escatologiche; contrassegnata pure dalle manifestazioni sociali e culturali che l’uomo unisce e coordina in generale alla festa. Occorreva annualmente una festa di Pasqua per eccellenza. Di più la Chiesa non tardò a comprendere che una festa annuale unica non era sufficiente. Ridurre tutto a Pasqua e alle domeniche della settimana sarebbe stato un errore che avrebbe condotto progressivamente a impoverire ” il senso della festa ” e svalutarlo nella coscienza dei cristiani. Una sommità viene apprezzata in mezzo ad altre altezze. Pasqua è il centro, la sommità dell’anno liturgico. Ma questa festa deve essere preparata e prolungata. Le preparazioni e i prolungamenti annuali sono necessari per mantenere, sfumare ed arricchire il senso della festa (241).
Quanto all’obbligo, in inizio, era superfluo: i cristiani vivevano la loro messa, quando potevano e quanto meglio potevano. L’atteggiamento negligente di alcuni venne assai dopo. Primi i Concili di Elvira (300-303) e di Sardi (343) parlano dell’obbligazione di ascoltare la Messa in giorni di festa.
In seguito il numero delle feste di precetto crebbe tanto, che sorsero anche delle lamentele per i danni veri o presunti che ne venivano all’economia. E si ebbero delle restrizioni parziali, ma il problema fu affrontato in pieno da S. Pio X, che con il motu proprio del 2 luglio 1911, ridusse il numero delle feste di precetto, di modo che, per diritto comune generale, oltre alle domeniche, soltanto otto giorni fossero osservati come feste di precetto. Con lo stesso motu proprio S. Pio X stabiliva che circa le feste di precetto, legittimamente abrogate, non si mutasse nulla, senza sentire il parere della S. Sede. Queste prescrizioni furono accolte nel Codex Juris Canonici del 1917 (cann. 1247-1249).
Il precetto di santificate le feste è dunque di diritto naturale, in quanto esige che vi sia uno spazio di tempo, in cui si dia a Dio il culto pubblico.
È di diritto divino positivo, in quanto comanda una qualche partecipazione al sacrificio della nuova Legge. È di diritto ecclesiastico, in quanto indica il tempo (dal pomeriggio del sabato a tutta la domenica o la festa) e il modo con cui si deve compiere tale assistenza al sacrificio.
3. Santificazione delle feste.
Parte positiva: partecipazione alla S. Messa.
Riguardo al tempo sono oggi feste di precetto (in cui quindi è obbligatoria l’assistenza alla S. Messa) (242), oltre le domeniche, la Natività del Signore, l’Epifania, l’Ascensione, la festa del Corpo e del Sangue di Cristo; l’Immacolata Concezione e l’Assunzione della B. M. Vergine; la festa di San Giuseppe, dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi. Così per tutta la Chiesa, salvo privilegi e deroghe speciali.
In quanto al modo di ascoltare la S. Messa si richiede:
a) Che la Messa sia ascoltata intera, dall’inizio alla benedizione del Sacerdote. Si ammette parvità di materia nell’omissione di alcune parti della Messa.
La gravità dell’omissione si deve giudicare, tenendo presente la dignità della parte della Messa omessa, cioè quanto è più o meno vicina all’essenza del S. Sacrificio, e tenendo pure presente la quantità dell’omissione, se raggiunge o no la terza parte della Messa.
È permesso, se non si può fare altrimenti, ascoltare due mezze Messe successive (non simultaneamente), purché la consacrazione e la comunione siano della stessa Messa.
b) La Messa si deve ascoltare nel rito cattolico, sia latino sia orientale. Solo in mancanza di sacerdoti cattolici, si può accedere al rito dei fratelli separati ortodossi.
c) II luogo fissato per ascoltare la Messa è qualsiasi chiesa od oratorio o luogo degno ed atto per la celebrazione. Si soddisfa perciò al precetto anche con la Messa celebrata all’aperto,
d) Da parte di chi assiste si richiede; una presenza corporale (congiunzione morale col celebrante); una presenza umana, che implica l’intenzione di prestare un atto di culto; una presenza devota e religiosa che implica che vi sia almeno l’attenzione esterna. Tuttavia la partecipazione al sacrificio della Messa solo allora conseguirà il suo pieno significato, quando sarà espressione dell’intima volontà sacrificale, con cui l’anima intende unire il suo sacrificio interiore al sacrificio di Cristo.
Dall’obbligo positivo di ascoltare la Messa nei giorni festivi si può essere talvolta scusati, o perché l’assistenza è fisicamente impossibile, o perché esistono ragionevoli e proporzionati motivi (impossibilità fisica o morale) per rimanere assenti. Ma codesti motivi devono essere tanto più gravi quanto più frequente è l’omissione; e qualora questa fosse continua, è per lo meno da consigliarsi l’assistenza alla Messa in alcuni giorni feriali; tanto più che è quanto mai probabile l’opinione di alcuni autori i quali ritengono che sia precetto divino il partecipare alla Messa alcune volte durante l’anno.
L’obbligo lega tutti i fedeli che abbiano oltrepassato i sette anni di età ed abbiano l’uso di ragione.
A facilitare la soddisfazione del precetto festivo la Chiesa, con la Messa vespertina del sabato (243), che si celebra in molte diocesi, è andata incontro a nuove impostazioni di vita nel contesto sociale odierno. L’anticipazione, poi, trova la sua giustificazione in un allungamento (in ante) della domenica nella scia della tradizione giudaica del sabato, applicata dai primi cristiani al primo giorno dopo il sabato.
Il precetto festivo si rende evidente da sé quando si motiva bene l’obbligo della Messa: e ciò è importantissimo.
L’argomento primo è tratto dalla necessità di rendere a Dio un culto pubblico: l’Eucaristia è, infatti, il centro e la sommità del culto cristiano (244).
Ma questo argomento non è da solo sufficiente. Occorrerà attenersi ad altri argomenti più universalmente riconosciuti e più validi. È da ricordare, innanzitutto, che la Domenica è il memoriale settimanale della Risurrezione del Signore e che le feste hanno ugualmente una significazione escatologica a titolo di figura e di prelibazione della stessa resurrezione. Ora questa significazione comune alle domeniche ed alle feste – così importante dacché tale caratteristica si riscontra già nel Nuovo Testamento – si ridurrà ad un simbolismo vuoto senza la celebrazione dell’Eucaristia: solo l’Eucaristia infatti è il sacramento che attualizza, nel corso dei tempi, la Passione e la Resurrezione del Signore Gesù. È per la celebrazione della Messa che la domenica e le feste assicurano l’obiettivo loro riferimento alla Resurrezione.
Altro argomento è da trarsi dal sacerdozio battesimale dei fedeli, su cui tanto ha insistito il Vaticano II (245). Poiché il sacerdozio, una volta preso sul serio, esige dai fedeli che essi non siano solamente i beneficiari passivi dei beni di salvezza, che il Cristo ci ha meritato; ma che, uniti a lui nella celebrazione del Sacrificio eucaristico, partecipino attivamente alla loro valorizzazione e alla loro applicazione nella Chiesa di oggi.
Quanto al luogo dove poter soddisfare al precetto della Messa nella domenica e nelle feste, oggi va data una interpretazione più elastica che non per il passato. Pur dando la preferenza alla Messa parrocchiale, si può tuttavia partecipare alla Messa dovunque l’Eucaristia è legittimamente celebrata. Parlare oggi di proibizione negli oratori, almeno privati, quando questi vanno restringendosi e il sacrificio della Messa è consentito in ogni luogo degno, non ha più senso e la legge è caduta perché è venuto meno il fine della legge (che i ricchi dessero esempio ai poveri sull’adempimento del loro obblighi religiosi). L’uomo d’oggi è cittadino del mondo e figlio della Chiesa universale, anche se meglio si ritrovi nella sua chiesa locale, che però, non è la parrocchia, ma la diocesi.
Ciò che è necessario invece, dire, sotto questo aspetto, per evitate equivoci che con il pretesto dell’ecumenismo, cercano di introdursi, è che un cattolico non soddisfa affatto alle esigenze di un’autentica celebrazione eucaristica, partecipando e comunicandosi ad una Cena protestante, e che, per poterlo fare presso i nostri Fratelli separati orientali, occorre un motivo di necessità, che può sorgere ordinariamente solo nei cattolici della diaspora.
Stante le ragioni teologiche esposte, che dovrebbero ben suscitare nel fedele il desiderio, se non il bisogno di esercitare il proprio sacerdozio comune, partecipando alla celebrazione eucaristica, è chiaro che bisognerà suscitare in lui una coscienza necessitante di soddisfare il precetto meglio che può, quando può o, almeno come può, senza minimismi morali o casistiche estroverse. Dirgli, ad es. che, se non può la domenica, ma in loco si può soddisfare anche il sabato, egli non è tenuto, è un po’ togliergli l’incentivo alla santificazione della festa. Anche se questo ragionamento potrebbe essere valido da un punto di vista meramente giuridico, non è valido sotto l’aspetto teologico.
Infine l’obbligo di ascoltare la Messa si estende oggi e alla liturgia della Parola e alla celebrazione propriamente eucaristica. Tale è la volontà della Chiesa dopo il Vaticano II. Perciò un fedele non può, senza colpa, tralasciare volontariamente la prima parte, accontentandosi di arrivare all’offertorio. Altro ragionamento sarà da fare se, arrivando involontariamente in ritardo e non potendo senza grave incomodo partecipare ad una nuova celebrazione eucaristica, ci si ponga il problema dell’obbligo di coscienza di rinnovare detta partecipazione.
Ma nella impostazione odierna data dalla volontà della Chiesa, la stessa abituale assenza dalla liturgia verbi è indizio di grave negligenza. I fedeli dovranno essere illuminati su questo punto e la stessa catechesi dovrà così regolarsi.
4. Riposo festivo.
Da questo esposto si vede che l’essenziale per il Nuovo Testamento è la partecipazione al culto eucaristico, cioè alla riunione della comunità che celebra il sacrificio eucaristico, con tutto ciò che ne segue, o dovrebbe seguire, secondo il decreto ” Presbyterorum ordinis” (nn. 5, 2 e 6, 5).
Invece il riposo settimanale (che si tende a non identificare più con l’astinenza dalle opere “servili”) riveste oggi un carattere secondario, perché l’astinenza dal lavoro è già promossa da altre forze sociali (sindacati, ecc.) per cui da parte dei moralisti più che sul riposo festivo, si dovrà insistere che il riposo non è tutto per il divertimento, ma che nella parentesi distensiva ed astensiva dal lavoro Dio ha la prima parte; poi vengono le esigenze
familiari e ricreative.
Infatti, anche quest’obbligo trova nel diritto divino la sua origine, sebbene la determinazione dei giorni sia di diritto ecclesiastico (246). Ma mentre il sabato giudaico era contrassegnato principalmente dal riposo, il giorno del Signore ebbe fin dall’inizio un contenuto più spirituale, di culto; mentre il dovere del riposo ebbe un’interpretazione meno farisaica e più umana (Mc 2, 27).
Il riposo, oltre allo scopo naturale benefico di ritemprare le energie dell’uomo, ha una chiara e ben definita finalità religiosa, volendo distaccare dalla terra, cui è abitualmente piegata, l’attenzione e l’attività dell’uomo, per rivolgerla a Dio.
Per questo la legge della Chiesa proibisce le opere nelle quali prevale il lavoro del corpo, mentre non sono vietate né le attività intellettuali, né quelle che hanno come fine il culto del proprio corpo e l’onesto svago (247).
Quanto ad altre attività un tempo ritenute vietate (fiere, pronunciamento di atti giudiziari) bisognerà attenersi alle usanze del paese in una società così secolarizzata come la nostra.
Atteso, poi, lo spirito che anima la legislazione cristiana al riguardo, anche le opere proibite possono essere permesse, qualora ciò sia richiesto dalla propria o altrui necessità oppure dalle legittime consuetudini dei luoghi. Del resto, è necessario evitare che la lettera uccida lo spirito e che, in tal modo, l’interpretazione degeneri in pedanteria farisaica. Bisogna, per altro, ricordare che la legge del riposo festivo ha un suo fondamento nel diritto divino e nella necessità di creare il clima sociale di riposo.
La distinzione classica tra opere servili ed opere liberali e miste (248) risente di un diverso assetto economico, su cui era basata la società, divisa in un mondo di schiavi e di liberi, con diverse concezioni generali del lavoro, per cui le occupazioni materiali erano oggettivamente qualche cosa di spregevole e di infamante e soggettivamente in chi le esercitava segno di inferiorità, comprensibile solo in chi in tale stato sia nato o caduto (schiavo) (249). Oggi, il concetto di lavoro, in tutti i suoi gradi, è nobilitato [II Concilio di Laodicea nel 381 interpreta molto più largamente la legge, nel senso che l’obbligo del riposo c’è solo se si può osservare, II Concilio di Arles (a. 53(5)] e tra i primi ad enumerare le opere servili vietate. e per merito del cristianesimo stesso, che ha rivoluzionato i concetti. D’altra parte la odierna economia nell’industria soprattutto e l’irrompere di necessità nuove in certi settori della vita ospedaliera, turistica, dei servizi di ordine pubblico ad es., ha creato un ingranaggio tale che l’uomo non è più capace di imprimere un arresto al ritmo di certe attività, in modo da attuare un riposo sabbatico (o domenicale) alla maniera giudaica.
È inutile innanzi tutto ricordare che nella legge della santificazione della festa è preponderante soprattutto l’aspetto positivo, cioè l’obbligo di attendere con cura particolare alle cose, che riguardano gli interessi della propria anima, concretata dalla legge, come un minimo indispensabile, nell’audizione della S. Messa. L’astensione dal lavoro non è che un mezzo per meglio raggiungere il fine, che è la santificazione del giorno del Signore.
Avendo l’occhio al fine del precetto è evidente che qualsiasi lavoro, di qualunque specie che ne renda impossibile la realizzazione, è di per sé proibito, almeno in quella misura ed estensione, che renda impossibile l’osservanza dell’aspetto positivo del precetto. Se questo lavoro è necessario ed indispensabile, al più potrà costituire una causa scusante dalla soddisfazione del precetto: la legge è allora soltanto sospesa, ma non annullata. E se le sospensioni siano cosi frequenti da mettere in pericolo nell’uomo la possibilità stessa di un ricordo più approfondito di Dio e dell’anima, è il caso di mettere da parte tutto il resto, a meno che non si possa altrimenti provvedere.
Da ciò è evidente che non è con spirito farisaico che bisogna guardare al precetto, ma con interpretazione discreta e spirituale (250).
IX. L’OFFERTA (251).
Oltre gli atti comandati, la religione abbraccia ancora un numero indefinito di atti liberi in cui l’uomo può esprimere senza limiti il suo amore e la sua devozione verso Dio, L’elargizione di cosa non chiesta si chiama offerta. In quanto è atto della virtù di religione l’offerta è una donazione spontanea per il culto divino. Intesa così comprende anche il sacrificio, ma nel suo senso specifico essa lo esclude, limitando la sua comprensione, se è immediata, all’offerta a Dio di qualche cosa per onorarlo (si tratti del culto divino o di necessità dei ministri del culto in quanto tali o dei bisogni dei poveri); se è mediata, restringendo la sua comprensione a quanto viene offerto ai sacerdoti perché possano disimpegnare liberamente il loro ministero, senza doversi preoccupare di provvedere al proprio sostentamento. Sotto un certo senso anche gli atti di offerta hanno una certa obbligatorietà. L’obbligatorietà di questi atti di religione sorge almeno in parte dal diritto naturale poiché non si può avere un culto conveniente senza chiese, suppellettili sacre e ministri; i fedeli sono quindi tenuti a provvedere le cose necessarie; trattandosi poi del sostentamento di ministri l’obbligo è di diritto divino-positivo (252). Le offerte od oblazioni come atto di culto verso la divinità, sono un istituto antichissimo che s’incontra presso tutte le religioni (253). Molti sono e sono stati, nella storia della Chiesa, i modi per soddisfare questo obbligo (254).
In alcuni luoghi, mantenendosi usanze anticamente molto più diffuse vi si provvede con l’offerta delle decime (256) e delle primizie secondo proporzioni fissate da consuetudini e leggi locali. Ove ve ne fosse l’uso, i fedeli in determinate circostanze (amministrazione dei sacramenti, proclamazione, dispense, esequie, rescritti) sono tenuti a dare quanto per consuetudine o per una determinazione di legge sinodale fu stabilito (tasse ecclesiastiche) (254). Nel caso che i fedeli non adempissero a questo loro grave dovere la Chiesa avrebbe diritto di intervenire anche con la comminazione di pene ecclesiastiche.
X. VOTO – GIURAMENTO – SCONGIURO.
1. Voto (257).
Tra gli atti di religione si annoverano anche diversi atti, il cui uso incontrollato, può portare facilmente agli abusi e perfino a violazioni della virtù della religione. Tale è il voto, il giuramento, e lo scongiuro.
Il voto è una promessa fatta a Dio di una cosa o di un’azione futura migliore. È come un’anticipata donazione della medesima, che non è più lecito rifiutare, senza venire meno al rispetto dovuto al Signore (258).
In questa rinunzia alla libera disponibilità del futuro, in questa generosa offerta non solo dell’atto, ma della stessa libertà, di agire, sta il valore essenziale del voto, che conferisce all’opera un significato quasi sacrificale. In quanto la promessa deve essere rivolta a Dio, in quanto riveste questo carattere quasi sacrificale, ne consegue che il voto sia essenzialmente atto di culto di latria. Un voto fatto a Maria SS .ma o ai Santi mantiene questo carattere, se almeno implicitamente nella Vergine e nei Santi s’intende onorare Dio, come uniti con Lui o dipendenti da Lui. Una promessa fatta esclusivamente ai Santi non sarebbe un voto, ma una promessa santa di altro genere.
Quanto all’oggetto, il voto richiede una cosa od un’azione buona, migliore della cosa opposta che viene esclusa; altrimenti il voto non sarebbe gradito a Dio. Materia di voto può essere il fare un pellegrinaggio, un’elemosina, conservare la castità, la povertà ecc. Nel caso concreto le circostanze possono influire a rendere un atto più o meno idoneo per il voto.
Il valore del voto consiste nell’onorare Dio, rendendo le azioni, con cui lo si adempie buone e meritevoli sotto un doppio aspetto: in quanto hanno una bontà originale e in quanto sono un atto di religione (259).
Anche sul semplice piano naturale il voto, purché emesso con discrezione ed avvedutezza, costituisce un ottimo espediente di auto-educazione contro l’instabilità del nostro volere.
Naturalmente perché esso abbia un tale significato ed una siffatta efficacia deve essere non il prodotto di un impulso irriflesso, peggio ancor di un’esterna ed ingiusta coazione, ma il frutto di una spontanea deliberazione, che non ostacoli lo spirito nella ricerca del più perfetto, ma vincoli piuttosto la volontà ad un’opera o ad uno stato di vita migliori del loro opposto. Ove manchino cedeste condizioni, Dio non può accettare l’offerta, ed il voto, perciò, non ha nessun valore.
Per giudicare del suo valore obbligatorio, trattandosi di un obbligo assunto volontariamente, la sua misura va ricercata anzitutto nella volontà di chi ha emesso il voto; non già che questi possa assumere un obbligo che oltrepassi i limiti segnati dalla natura stessa della cosa promessa, ma piuttosto nel senso che il voto non può mai obbligare oltre i limiti segnati dalla volontà (260). A questa bisogna altresì richiamarsi ogni qualvolta si tratta di interpretare il significato e l’astensione di una determinata promessa.
In ragione del suo oggetto il voto può essere reale (se materia promessa è una cosa), personale (se materia è un’azione) o misto (se materia del voto è una cosa ed un’azione insieme). In quanto misurato dal tempo il voto può essere temporale o perpetuo: in quest’ultimo caso dura per tutta la vita.
La promessa votiva poi può essere emessa senza restrizione (voto assoluto) oppure la si può far dipendere dal verificarsi di una condizione (voto condizionato). Se si guarda infine alla forma e agli effetti in foro esterno il voto è pubblico, quando è accettato, nel nome di Dio, dai superiori ecclesiastici e produce, oltre agli obblighi morali, effetti giuridici per la vita pubblica e sociale della Chiesa; è privato, quando manchi quest’accettazione formale e manchino i correlativi effetti giuridici. Voti pubblici sono quelli dei religiosi (261). I voti religiosi poi sono suddivisi in voti solenni o voti semplici: i primi sono sempre perpetui (fino alla morte) e rendono gli atti contrari anche invalidi; i secondi sono o perpetui o temporali e gli atti contrari sono illeciti, ma non invalidi.
Gli obblighi di un voto perpetuo cessano soltanto per l’intervento dell’autorità ossia per la dispensa, la quale può essere riservata alla S. Sede. Si parla quindi di voti riservati, contrapposti agli altri che non sono riservati, in quanto possono dispensare anche autorità inferiori (262).
Per il cambiamento della cosa promessa in un’altra (commutazione, che può essere in qualche cosa di meglio, di uguale o di minore impegno) sono competenti le stesse autorità, che possono concedere la dispensa, o se si tratta del cambiamento di una cosa promessa in una migliore, anche lo stesso movente.
D’altra parte non possono avere assoluta efficacia né il voto di chi, essendo sottoposto all’autorità dominativa di un terzo, non può disporre liberamente delle sue cose, ne il voto che cada su di una materia sottoposta al potere altrui. Colui il quale esercita la sua autorità sulla persona vovente può irritare ossia annullare l’obbligo contratto, mentre chi ha potere solo sulle cose può solo impedire che si soddisfi al voto, finché dura il suo potere. Cosi il padre può irritare i voti dei figli minorenni; mentre il marito può solo sospendere l’adempimento dei voti emessi dall’altra parte, qualora siano in contrasto con i suoi diritti maritali. Tuttavia per il legittimo esercizio dell’uno e dell’altro potere si richiede che esista una giusta causa.
Può anche cessare l’obbligo di un voto per cause intrinseche, quando abbia avuto luogo un cambiamento di elementi essenziali che rendano l’adempimento del voto moralmente impossibile o nocivo o impediscano un bene di maggior importanza; in altre parole, quando sopraggiungano nuove ed impreviste circostanze, le quali mutino talmente l’indole della promessa da far legittimamente presumere che questa non avrebbe avuto luogo, se le stesse circostanze fossero esistite al momento del voto.
Se però le difficoltà sono soltanto temporanee, l’obbligo non è tolto ma soltanto sospeso.
2. Giuramento (263).
Il giuramento è l’invocazione di Dio a testimone della veridicità di una asserzione od a garanzia dell’adempimento di una promessa. Esso è, quindi, duplice; assertorio e promissorio. Nell’uno e nell’altro caso l’autorità di Dio è interposta a sostegno della parola umana. Per questo il giuramento è un atto essenzialmente religioso; ma è insieme un indice dello scarso valore che la parola umana comunemente riceve.
Quest’ultima considerazione fa sì che il giuramento non possa essere posto alla pari degli altri atti di culto; nella linea dei mezzi comandati o consigliati per il perfezionamento dello spirito. Per questo la parola di Cristo suona piuttosto aspra nei riguardi del medesimo, mentre tende a risollevare tra i suoi discepoli la semplicità del linguaggio ispirata alla mutua fiducia: ” Voi avete anche udito che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma mantieni al Signore i tuoi giuramenti. Io invece vi dico di non far giuramenti… il vostro linguaggio sia sì sì, no no; ciò che si dice in più viene dal Maligno ” (Mt 5, 37). Errerebbe, però, colui che volesse scorgere in queste parole una assoluta condanna del giuramento.
Il giuramento è lecito e lodevole, come appare chiaro anche dall’avere la Chiesa riprovato qualsiasi atteggiamento di condanna del medesimo (264).
Ma, come ben dice S. Tommaso (265) è da classificarsi fra quelle cose che sono necessarie alla vita, come una medicina, che si deve usare non abitualmente, ma cautamente e raramente.
Perché il giuramento sia valido, si richiedono due cose, cioè l’intenzione di giurare e la forma sacramentale.
È richiesta almeno una intenzione virtuale, perché senza tale intenzione il giuramento come invocazione di Dio, non è un atto umano. Per ottenere questo, è sufficiente che si usino segni o parole, che indichino il giuramento.
Si richiede anche la forma sacramentale, con la quale o espressamente o tacitamente si manifesti l’invocazione di Dio, come teste (266). Ciò non deve interpretarsi come se qualche parola solamente abbia valore sacramentale o quasi magico, ma nel senso che il giuramento si deve esprimere esternamente con segni o parole invocanti la testimonianza di Dio. Quali siano questi segni e queste parole si deve dedurre dalle leggi, dai costumi e dalla forma usuale di giurare, accettata nel luogo, dove si fa il giuramento.
Il valore poi del giuramento per regola generale, nel foro interno, deve dedursi dall’intenzione. Nel foro esterno, si deve stare alla formula adoperata nel giurare. Infatti, sebbene il giuramento sia nullo davanti a Dio per il difetto dell’intenzione, tuttavia in foro esterno si giudica che ha giurato colui, il quale ha usurpato quelle parole o quel segno, che o per se stesso o per le circostanze significa un vero giuramento (267).
Per la liceità del giuramento sono pure necessarie alcune condizioni: il giuramento sia fatto secondo verità, giustizia e giudizio.
Riguardo alla cosa, per la quale si giura, si richiede, specialmente nel giuramento assertorio, la verità, e nel giuramento promissorio l’osservanza della giustizia; ma riguardo a colui che giura, in ambedue i casi, si richiede prudenza e retto discernimento.
Nel giuramento la verità è la conformità delle parole con la cognizione e l’intenzione di chi giura. La verità dunque esclude la bugia, tanto nel giuramento assertorio, quanto in quello promissorio, ed esclude la finzione nel giurare. Il giuramento falso o lo spergiuro è un peccato di per se stesso mortale (ex toto genere suo), perché arreca a Dio una grave irriverenza, portandolo come testimone della falsità (268).
Il giuramento finto non è privo di colpa (269), ma la colpa sarà grave o leggera secondo la diversità dei casi.
Il giudizio esige che il giuramento non venga emesso senza giusta causa o senza la debita riverenza, altrimenti la colpa è per sé leggera, se non si aggiunge il pericolo dello spergiuro. E questo pericolo molto spesso si verifica in coloro, che sono abituati a giurare.
Nel giuramento assertorio si richiede la osservanza della giustizia, perché la cosa non sia affermata illecitamente, contraddicendo, ad es., all’obbligo di mantenere un segreto: nel giuramento promissorio, affinché non venga promessa una cosa illecita. Altrimenti si fa una irriverenza a Dio, che è leggera per sé nel giuramento assertorio (a meno che il giuramento non sia a garanzia di una azione gravemente cattiva, come la calunnia); è grave nel giuramento promissorio, se la cosa garantita con giuramento è gravemente cattiva; se tuttavia è leggermente cattiva la cosa confermata, si può dubitare della gravità della irriverenza, e quindi della colpa, essendo contrastanti le opinioni in proposito (270).
L’obbligo del giuramento cessa per cause intrinseche ed estrinseche. Intrinsecamente cessa, se la cosa giurata viene sostanzialmente modificata o diventa cattiva o indifferente oppure impedisce un bene maggiore; parimenti se sarà cessata la causa finale o la condizione apposta non si sia verificata.
Estrinsecamente invece il giuramento cessa per condono fatto da colui, in cui vantaggio era stato emesso; per irritazione (o annullamento), diretta o indiretta, fatta da colui, il quale ha la potestà dominativa nella volontà del giurante o nell’oggetto del giuramento, per dispensa o commutazione della legittima autorità.
Coloro che possono irritare (o annullare), commutare, dispensare il voto, possono usare la loro potestà, per la stessa ragione, sul giuramento promissorio, ma se la dispensa del giuramento si risolva in pregiudizio di altri, i quali rifiutino di condonare l’obbligo, solo la Sede Apostolica può dispensare dal giuramento per necessità od utilità della Chiesa (271).
3. Scongiuro.
Lo scongiuro (272) consiste nel tentativo di indurre una persona a fare od omettere qualche cosa, interponendo il nome di Dio. Anche lo scongiuro è atto della virtù di religione, perché esprime la sommissione a Dio di chi scongiura e la riconosciuta eccellenza della divinità, nel senso che il nome di Dio è tanto degno di venerazione che, uditelo, altri sia mosso, a fare od omettere qualche cosa. Per la liceità si richiede che si prenda la cosa seriamente; che vi sia un motivo proporzionato, infine che si voglia ottenere qualche cosa di lecito.
Lo scongiuro è un atto di latria quando è fatto, interponendo direttamente il nome di Dio o di cose, in cui riluce in modo particolare la maestà di Dio (ad es. la passione e morte di N. S. Gesù Cristo). È un atto di iperdulia o di dulia quando si fa nel nome della SS.ma Vergine e dei Santi.
Lo scongiuro può essere fatto in forma semplice (privatamente) o in forma solenne (quando è fatto a nome della Chiesa, dai suoi ministri, nella maniera prescritta). Può essere pure fatto o in forma deprecativa, cioè in forma di preghiera, come nelle litanie dei Santi o in forma imperativa, come un comando. In questa seconda forma lo scongiuro può solo essere rivolto ad esseri inferiori, o al demonio, interponendo il nome di Dio.
Gli scongiuri che il ministro a ciò deputato dalla Chiesa, fa in nome di Dio ed autoritativamente contro il demonio o per indurlo ad abbandonare le persone da lui possedute o per indurlo a cessare dall’infestare persone o cose, anche inanimate (273), prendono nome di esorcismi. Gli esorcismi consistono nell’imposizione delle mani e in preghiera a Dio o ingiunzioni al demonio per scacciarlo (esorcismo solenne) o per reprimerne il potere (esorcismo semplice); costituiscono un Sacramentale vero e proprio, cioè dei riti sensibili di istituzione ecclesiastica.
XI. LA LODE DI DIO – LA LITURGIA DELLE ORE.
1. La lode di Dio.
La lode (274) è il culto che mette in rilievo ed esalta la grandezza benefica di Dio, così come si rivela attraverso alle sue opere. La grandezza di Dio, come dice la Scrittura (275), è cantata da tutta l’opera della creazione, ma le note di questo muto concerto non possono essere raccolte ed articolate nel nostro mondo visibile se non dall’uomo, che è l’opera più perfetta della creazione, cui servono le creature inferiori. La lode chiama lode ed ogni creatura umana, sentendo risuonare le lodi di Dio, riceve come un invito ad unirsi al coro.
La lode di Dio può esprimersi in tante maniere; può inserirsi in ogni atto di culto. La Chiesa ha trovato conveniente che si esprimesse anche attraverso il canto e attraverso la musica, che diversamente modulati sono espressioni artistiche dei più profondi sentimenti umani e quindi anche di quelli religiosi.
2. La liturgia delle ore (276).
Ma c’è soprattutto un sacrificio di lode (sacrificium laudis) o serto di lodi, che la Chiesa ha istituito per rispondere all’invito di continua preghiera (oportet semper orare et numquam deficere) di Gesù, come una lode perenne (laus perennis); è la liturgia delle ore (liturgia horarum) (277).
Il complesso delle lodi che la Chiesa offre quotidianamente al Signore comprende diverse ore canoniche rispondenti alle diverse ore della notte e del giorno: Lodi mattutine e Vespri, l’Ufficio della lettura, che offre la meditazione della S. Scrittura e degli autori spirituali, Terza, Sesta, Nona, od Ora media, Compieta. Ciascun’ora canonica è costituita principalmente da un inno, da salmi con antifona o antifone, da un breve capitolo, che è un brano della S. Scrittura con o senza preci e da una orazione. Le Lodi come preci mattutine e i Vespri, come preci vespertine costituiscono il cardine dell’Ufficio quotidiano (278) e su esse, soprattutto, grava l’obbligo per chi ne è tenuto alla recita (279).
NOTE
238 Cfr. S. Theol. 2-2, q. 122, a. 4; J. GILFILLAN, The Sabbath viewed in the light of reason, revelation and history, Edimburg 1.867; A. VILLIEN, Hist. des commandements de l’Eglise, in Rev. du clergé francais, 41 (1905) 563-584; 42 (1906) 309-336; F. SCHMID, Worin grùndet die Pflichf der Sonntagruhe, Linz 1900; In., Die Gewalt der Kirche uber die Sonntagruhe, in Zeitschrift f. kath. Theol., 25 (1901) 436 ss.; A. PRESEREN, Die Beziehungen der Sonntagsfeier zum 3. Gebot des Dekalogos, ib., 37 (1913) 563-709; A. DUMAINE, Le dimanche chrétien, ses origines, ses principaux caractères, Bruxelles 1922; E. DUBLANCHY, Dimanche, in DTC, IV, 1308-1348; A. VILLIEN, Fétes, ib., V, 2183-2191; J. S. GUINIVEN, The precept of hearing on Sundays and Holy Days of obligation, Washington 1942; G. JACQUEMENT, Dimanche, in Catholicisme, III, 811-826; F. SPADAFORA, II riposo festivo nel Vecchio Testamento, in L’Assistente ecclesiastico, 21 (1951) 6-10; P. PALAZZINI, II riposo festivo, ib., 69-72; A. CRISCITO, Precetto festivo, in EC, IX, 1902-1906; F. GASTALDI, II riposo festivo ha valore di culto, in Palestra del clero, 31 (1952) 612-615; G. CARLI, II riposo domenicale, ib., 869-874. Il giorno del Signore – Atti del Congresso di Lione, del 1947 (Paris, Laffont, 1948); Dom B. Botte, etc… Le Dimanche (9. e Semaine de Saint-Serge), Lex Grandi n. 39, Paris – Cerf 1965; Willy Rordorf (prot. riformato svizzero), Der Sonntag. Geschichte des Ruhe und Gottesdiensttages in altesten Fruchristentum, Zurich 1962 (trad. inglese, New York 1968); P. MASSI, La Domenica, Napoli 1967; P. CABIÉ, La Pentecòte, Descleé 1968; C. S. MONSNA, s. e. j., Storia della Domenica dalle origini agli inizi del sec. V, Roma 1969; II settimo giorno bisogno dell’uomo. Atti del III convegno di studi sulla pastorale del turismo. Sulmona – Roccaraso 22-23 aprile 1974.
A queste opere consacrate alla Domenica, occorre aggiungere gli articoli importanti che le riviste liturgiche presentano sul senso religioso e sociologico della festa.
239 Così oggi concludono la quasi totalità degli esegeti. Cfr. S. GAROFALO, La festa nell’Antico e nel Nuovo Testamento, in Studi cattolici (1973) 739-746. Nella 1 Lettera ai Corinti (16, 1-2) Paolo scrive in vista della ” colletta in soccorso dei santi “, di non aspettare il suo arrivo per raccogliere il denaro, ma di ” mettere da parte e tenere in serbo presso di loro quel tanto che gli viene bene ” (v. 2). Ora questo deve essere fatto “ogni primo giorno della settimana” (v. 2).
L’allusione di Paolo mostra che i cristiani celebravano in qualche modo ” il primo giorno della settimana “.
La medesima menzione in Atti 20, 7 ci insegna molto di più. A Troade Paolo partecipa ” il primo giorno della settimana ” a una riunione della comunità e, avendo presente la menzione della 1 Lettera ai Corinti (16, 1-2), possiamo concludere che tale riunione aveva luogo ogni settimana.
La riunione è per il culto eucaristico: ” ad frangendum panem ” (v. 7).
240 Sul sabato ebraico, cfr. A. J. HESCHEL, il sabato, Milano 1972; U. BORGHELLO, Il messaggio del sabato ebraico, in Studi cattolici (1973) 377-380; P. DE VANT, Institutions de l’A.T. II – Paris 1960 p. 382. Certo se si intende semplicemente ribadire l’obbligo del culto e del riposo domenicale, la via più comoda è la legge antica. Ma così non si chiarirà il senso nuovo della domenica cristiana, differente dal sabato ebraico.
Nell’A.T. il sabato di cui l’origine è oscura, è sempre stato anzitutto un giorno di riposo (più o meno rigoroso): esso è stato introdotto nella primitiva legislazione per permettere all’uomo, e in particolare ai servitori (incluse le bestie), di riposare una volta la settimana.
241 L’uomo sociale ha dunque bisogno di un certo numero di feste annuali per discernere il valore eminente della Pasqua e per impedire che il senso festivo della domenica non dispaia a solo vantaggio del ” week-end “.
Non si può pertanto ridurre indefinitivamente il numero delle feste senza far sparire dalla coscienza dell’uomo il significato della “festa”,
Certe feste, sono, grazie a Dio, così radicate nell’uso sociale che nessuno, credo, possa pensare di spostarle. Parlo del Natale, Divina Maternità di Maria (primo dell’Anno), dell’Assunzione e di Tutti i Santi, anche per l’annessa commemorazione dei Defunti.
242 Si potrebbe essere d’accordo, in linea teorica, con il voto di alcuni che penserebbero per sé essere, forse, molto meglio se l’obbligo (sotto pena di peccato mortale) potesse essere soppresso o inteso come per l’astinenza e il digiuno nella Costituzione ” Poenitemini ” (obbligo generico, non specifico per ogni festa). S. Giovanni Crisostomo alla domanda “chi usa come conviene della legge? ” (1 Tm 1,8) risponde: “Colui che sa di non averne bisogno” (PG 62, 511).
Ma noi uomini, essendo abituati, per la nostra debolezza, ad agire quasi soltanto in virtù dell’obbligo, se questo cessasse, è da temere che cessi ipso facto anche la pratica.
E allora che cosa resterebbe dal punto di vista ecclesiale dell’assemblea dei fedeli? In che cosa si riscontrerebbero più i cristiani? In che cosa più la Chiesa si renderebbe visibile, presente in mezzo al mondo?
La prospettiva, in cui si è svolta molte volte la catechesi sul giorno del Signore, è stata forse finora troppo esclusivamente morale e giuridica, cioè sotto l’angolo ristretto del comandamento e del dovere, e non abbastanza sotto l’aspetto essenziale della santità del giorno del Signore.
Si è formata così una coscienza domenicale non illuminata da una fede nutrita alle fonti della Rivelazione, anche se poggiata sul sentimento del dovere e sul timore di un comando.
Ritrovare il valore e la ricchezza dottrinale della domenica significa scoprire il segreto per il ritorno della vita cristiana alle sue sorgenti di santità.
243 Cfr. Istr. Eucharisticum mysterium, n. 28, del 25 maggio 1967. Anche con ciò la Chiesa ha voluto dire che l’assistenza alla Messa è e dovrà rimanere obbligatoria.
Sono da scartare soluzioni poco pratiche (e non giuste anche da un punto di vista teorico) come il porre su di un piano di equivalenza la partecipazione alla Messa e l’amministrazione solenne del Battesimo, della Confermazione, dell’Unzione degli infermi, del canto dei Vespri e delle opere di carità.
A parte che non c’è vera equivalenza per le ragioni che siamo andati esponendo, tra liturgia sacramentaria e Messa, se liturgicamente si inculca che il Battesimo degli adulti e la Confermazione venga conferita durante la Messa, occorre non distruggere con la sinistra ciò che si costruisce con la destra.
Molto meno può parlarsi di equivalenza tra liturgia verbi (della parola) e liturgia eucaristica. Ambedue sono necessarie; su ambedue occorre insistere e sono da rivedersi, i concetti delle parti minime per rientrare nello stretto necessario per l’adempimento dell’obbligazione. Senza un minimo di istruzione religiosa non si comprenderà più neppure l’essenza del mistero eucaristico. Ma ciò non autorizza a sbiadire, a confondere le idee in modo da non fare più comprendere ai fedeli che l’Eucaristia è la sommità del culto cristiano. Perciò quando non sarà possibile avere il Sacerdote si potrà e si dovrà celebrare solo la liturgia verbi da parte del diacono o di un laico autorizzato ma non si potrà mai dire ai fedeli che con il semplice ascolto della Parola si soddisfa il precetto.
244 Cfr. Paolo VI, Enc. Mysterium fidei, 3 settembre 1965; AAS 57 (1965) 753-774; Istr. Eucharisticum mysterium, 25 maggio 1967, della S. Congr. dei Riti: AAS 59 (1967) 539-573.
245 Cfr, Cost. dogm. Lumen gentium, n, 10-11, 31-34, 62, decr. Apostolicam actuositatem, 2-3; decr. Ad gentes, 15; decr, Presbyterorum ordinis, 2.
246 Si disputa in verità se la cessazione del lavoro nella domenica sia di diritto divino positivo o di diritto ecclesiastico, Per il diritto divino stanno Noldin, Schmidt, Tanquerey, Pruromer. Il Vermeersch crede che si tratti di solo diritto ecclesiastico – e non a torto – perché la vecchia legge del sabato è stata abrogata. Presso i cristiani già Tertulliano [De Oratione, c. 23) ricorda l’obbligo del riposo nei giorni di domenica. Però una legge scritta, prima di Costantino, non c’è (1. 3, Cod. II, 12 de feriis). In questa legge si eccettua, dalla legge del riposo festivo, il lavoro per la cultura dei campi.
247 Un tempo alla domenica era legata anche la catechesi per gli adulti, La Liturgia della Parola, se ben fatta, può in parte sopperire a questa catechesi che, purtroppo, va scomparendo ovunque; ma non certo totalmente, Occorre trovare altre formule per non far mancare ai nostri fedeli la necessaria istruzione, senza cui non comprenderanno più neppure il perché della santificazione della festa.
248 Cfr. H. MICHAUD, La oeuvres serviles interdites la dimanche, in Revue Apologétique, 62 (1936) I, 290-303, 462-473; P. BERTE, A propos des oeuvres serviles, in NOUV. Rev. Théol., 63 (1936) 32-56; E. BETTENCOURT, As obras servis no dia do Senhor, in Ordem (1952) 6-22.
249 La distinzione, volgare e non scientifica, che da qualcuno si vorrebbe proporre tra lavoro manuale ed intellettuale è semplicistica ed ingannevole. Tale qualifica conviene soltanto alle punte estreme di una serie continua di forme complesse, che già sono e sempre più diventeranno combinazioni ingegnose di lavoro fisico e lavoro intellettuale nelle dosi più varie.
250 L’importanza della festa nella vita dell’uomo l’ha ben compresa anche un sociologo come Harvey Cox che dopo aver scritto la ” Città secolare “, in cui dichiarava la morte della metafisica e di ogni conoscenza che non sia scientifica, è passato ora a sostenere a spada tratta l’importanza della festa nella società. Solo che, rimane vittima di una cultura, dove il mondo del lavoro e quello della festa non solo non riescono ad incontrarsi, ma si oppongono l’un l’altro, dimostrando così di aver intuito la grandezza del problema, ma di rimanere prigioniero proprio di quelle correnti culturali, le quali sono in parte responsabili dell’attuale crisi della festa, che è uno degli aspetti della crisi più generale dell’uomo. Cfr. HARVEY Cox, La festa dei folli, Milano 1971.
251 L. THOMASSIN, Vetus et nova Ecclesiae disciplina, III, Lucae 1728, passim.; E. MARTENE, De antiquis Ecclesiae ritibus, Bassani 1788, 139 ss.; S. MANY, Praelectiones de Missa, Parisiis 1903, 77 SS,; F. BRANDILEONE, I lasciti per l’anima e la loro trasformazione, in Memorie del R. Ist. Veneto di Scienze Lett. ed Arti, 28, n. 7, Venezia 1911.
252 Particolare sviluppo ebbero presso il popolo d’Israele (cfr. il completo ordinamento legislativo nel Levitico: 12, 2-8). La Chiesa ha ereditato e interpretato il concetto fondamentale delle oblazioni specialmente in ordine al sacrificio eucaristico (v. P. PALAZZINI, Vita sacramentale, vol. I, pp. 149-157, n, 64.
253 Mt 10, 16; 1 Cor. 9, 13.
254 In antico troviamo due tipi di offerte: le oblationes communes, durante l’offerta del Sacrificio eucaristico, limitate, almeno per un certo tempo, al pane e al vino; e le oblationes peculiares, fuori della Messa (offerte di qualsiasi genere). Cfr. Canones apostolorum, can. 3-4; Costituzioni Apostoliche, 1, 8, c. 31; PL 1, 1128; c. 3, X, 5, 40; c. 42, X, 5, 3. In origine, le offerte particolari, come le comuni, erano destinate al Vescovo e al clero. Si riscontra però ben presto la loro divisione in quattro porzioni: una, a beneficio del Vescovo, un’altra per il clero, la terza per i poveri, la quarta accreditata alla chiesa (c. 23, XII, 9, 2). Vescovi e Concili disciplinarono poi diversamente la distribuzione. In origine, le oblazioni erano offerte spontanee e volontarie. Ma già a partire dal sec. V si nota la tendenza a ritenerle come obbligatorie, ma mano che, col decrescere della pietà e del fervore dei fedeli, veniva accentuandosi una graduale diminuzione nelle oblazioni. Il Concilio di Magonza del 585 stabilì per primo l’obbligatorietà delle offerte.
253 Per una breve informazione sulle decime, cfr. E, ZOLLI, P. PALAZZINI, P. FEDELE, Decima, in EC, IV, 1269-1274, con la bibliografia ivi citata. Inoltre: M. FERRABOSCHI, II diritto di decima, Padova 1949.
256 Cfr. sull’argomento, di indole piuttosto canonistica: S. D’ANGELO, Tasse e pensioni nel Codice di diritto canonico2, Torino 1927; M. PISTOCCHI, De bonis Ecclesiae temporalibus, Taurini 1932; G. VROMANT, De bonis Ecclesiae temporalibus, Louvain 1934.
257 S. Theol. 2-2, q. 88; A. VERMEERSCH, Quaestiones de virtute religioni: et pietatis, Brugis 1912; S. I. TURNER, The vow of poverty, Washington 1929; E. RANVEZ, De dispensatione super votis, in Collationes namurcenses, 24 (1930) 292-94; E. JOMBART, Le voeu, in Revue des communautés religieuses, 8 (1932) 185-89; ST. WILLEMS, Tractatus de virtute religionis 4, Brugis 1940, 98-105; E. JOMBART, Annullation de voeu, in Revue des communautés rel., 16 (1945) 18 ss.; A. VANGHELUWE, De voti excellentia, obligatione interpretatione, in Collationes brugenses, 41 (1945) 429-435; 42 (1946) 53-60, 141-149; ID., De irritatione et suspensione votorum, ib., 230-40; ID., De dubia potestate irritandi vota, ib., 327-36; ID., De potestate confessarii quoad vota, ib., 336-40; P. SEJOURNÉ, Voeu, in DTC, XV, 3182-3234; A. DELCHARD, État de perfection, voeux et consécration dans les Instituts séculiers, in Revue de droit canon., 1 (1951) 281-299; A. BOSCHI, Irritazione e dispensa di voti, in Palestra del clero, 30 (1951) 665-677; P. PHILIPPE, La porte du voeu d’obéissance, in Vie spirituelle, 86 (1952) 509-524; N. JUBANY ARNAU, El voto de castidad en la ordinacion sagrada. Estudio historico-canonico, Barcellona 1952; F. TIMMERMANS, The matter of the vow of chastity, in Clergy Monthly, 48 (1952) 69-72; G. ESCUDERO, De instauratione votorurn solemnium et de clausura pontificia, in Const. “Sponsa Christi”, in Comm. pro Rel., 31 (1952) 27 ss.; C. CAPELLE, La voeu d’obeissance, des origines jusq’au XII’ siede, Paris 1959; H, PEETERS, Les voeux, in La vie religieuse dans l’Eglise du Christ, in DDB Bruges (1964) 193-207; G. LIGABUE, La testimonianza escatologica della vita religiosa, Roma-Paris 1968.
258 Dicendo che il voto è una promessa, se ne indica implicitamente la natura obbligatoria, per cui si avvicina alla legge e si differenzia dal semplice proposito.
Storicamente è necessario notare che la definizione data di voto-promessa non corrisponde sempre alla natura del voto come venne praticato nelle antiche religioni (voto-offerta, voto-fatto, ecc.) e nella stessa evoluzione della pratica cristiana.
Nei Padri greci prevale l’idea di voto-offerta; nei Padri latini quella di voto-promessa (cfr. P. SEJOURNET, Voeu, in DTC, XV, 3183 ss,), che poi prevale con la scolastica.
259 La tradizione cristiana ha sempre stimato l’efficacia del voto e l’autorità ecclesiastica, sulla scorta della S, Scrittura (Sal 75, 12; Is 19, 21; Al 18, 18; 21, 23; 1 Tm 5, 12) ne ha difeso il valore morale contro i suoi negatori. Il Concilio di Trento (1545-1563) contro il protestantesimo lo dichiaro atto lodevole e meritorio (Sess. VII, de bapt., can. 9; Denz. S. 1622 [già 865]), L’obiezione che il voto tolga la libertà non prova niente contro il valore e l’utilità del voto. Il voto non toglie la libertà fisica, che è la fonte del merito, e l’adempimento di un voto è un atto della volontà libera. Toglie la libertà morale come fa ogni atto che causa un’obbligazione, ma la forza morale stringente viene dalla volontà.
260 L’obbligo di adempiere un voto è di per sé grave; è lieve quando si tratta di una cosa di poca importanza oppure se il movente ha avuto la precisa intenzione di imporsi soltanto un obbligo lieve (il che è possibile solo quando si tratti di un voto privato). Per determinare ciò che costituisce un peccato grave nella trasgressione di un voto, si applicano comunemente le norme che valgono per la trasgressione di una legge morale.
261 Nei voti dei religiosi e delle persone ordinate in sacris è anche resa sacra la persona e l’oggetto delle promesse votive a motivo di una speciale consacrazione connessa con il voto.
262 L’istituto della riserva è oggi molto attenuato. V. presso i canonisti.
263 C. BERTOLINI, II giuramento nel diritto privato romano, Roma 1886; E, BEAUDOUIN, Remarques sur la preuve par le serment du défendeur dans le droit franc., in Annales de l’Université de Grenoble, 8 (1896) 407-513; K. HILDEBRAND, Die purgatio canonica und vulgaris, Munchen 1841; R. HERZEL, Der Eid. Ein. Beitrag zug seiner Geschichte, Leipzig 1902; H, LESÈTRE, Jurement, in Dict. de la Bible, III, 1868-1872; N. IUNG, Serment, in DTC, XIV, 1940-1950; M. CALAMARI, Ricerche sul giuramento nel diritto canonico, in Riv. di storia del diritto ital., 11 (1938) 127-183; 420-430; J, RYSKA, De probatione per iusiurandum in processu criminali canonico, Olomouc 1948; R. METZ, Une etude historique sur la forme du serment en droit canonique, in Rev. droit can., 2 (1952) 358-363.
264 Cfr. Denz. S., voc. Juramentum.
265 S. Theol. 2-2, q, 89, a, 5.
266 L’invocazione del nome di Dio può essere fatta in due modi; esplicita, ad es. ” Dio è testimonio, chiamo Dio per testimonio ” ; oppure implicita, quando esplicitamente sono nominate delle creature, nelle quali in modo speciale rifulgono gli attributi di Dio, o delle sue opere di gloria o di grazia. Le opere della gloria sono i Beati; le opere della grazia tutte quelle che procurano la nostra santificazione, come i Sacramenti, la croce ed il vangelo.
267 II diritto Canonico da come regola che il giuramento va interpretato strettamente e secondo l’intenzione di chi giura; se costui agisce dolosamen