L’espressione Chiese sorelle ricorre spesso nel dialogo ecumenico, soprattutto nel dialogo fra cattolici e ortodossi, ed è oggetto di un continuo studio da entrambe le parti. Mentre vi è certamente un uso legittimo di questa espressione, ve ne è altresì uno ambiguo che è divenuto predominante negli scritti contemporanei sull’ecumenismo. In conformità con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e con il Magistero papale postconciliare, è dunque opportuno ricordare l’uso corretto ed appropriato di que-st’espressione.
Cardinale Joseph Ratzinger
Nota sull’espressione “chiese sorelle”
preceduta dalla
lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali:
la Chiesa cattolica è “madre”, non “sorella”
(testo non ufficiale)
Eccellenza,
negli ultimi anni, l’attenzione di questa Congregazione è stata rivolta a problemi derivanti dall’uso dell’espressione “Chiese sorelle”, espressione che appare in documenti importanti del Magistero, ma che è stata anche impiegata in altri scritti e nelle discussioni connesse al dialogo tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse. È un’espressione che è divenuta parte del vocabolario comune per indicare il legame oggettivo esistente tra la Chiesa di Roma e le Chiese ortodosse.
Purtroppo, in alcune pubblicazioni e negli scritti di alcuni teologi coinvolti nel dialogo ecumenico è recentemente invalso l’uso di utilizzare quest’espressione per indicare la Chiesa cattolica da un lato e la Chiesa ortodossa dall’altro, portando le persone a pensare che in realtà l’unica Chiesa di Cristo non esiste, ma può essere ristabilita tramite la riconciliazione delle due Chiese sorelle. Inoltre, la stessa espressione è stata applicata impropriamente da alcuni alla relazione tra la Chiesa cattolica da un lato e la Comunione anglicana e le comunità ecclesiali non cattoliche dall’altra. In questo senso, si parla di una “teologia delle Chiese sorelle” o di un'”ecclesiologia delle Chiese sorelle”, caratterizzate da ambiguità e discontinuità rispetto al significato originario corretto dell’espressione che si rileva nei documenti del Magistero.
Allo scopo di superare questi equivoci ed ambiguità nell’uso e nell’applicazione dell’espressione “Chiese sorelle”, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha giudicato necessario preparare l’acclusa “Nota sull’espressione “Chiese sorelle”” approvata da papa Giovanni Paolo II nel-l’udienza del 9 giugno 2000. Le indicazioni contenute in questa nota devono, perciò, essere considerate autorevoli e vincolanti, anche se la “Nota” non sarà pubblicata in forma ufficiale negli Acta Apostolicae Sedis, dato il suo obiettivo circoscritto di specificare la corretta terminologia teologica su questo tema.
Nel fornirLe una copia di questo documento, la Congregazione Le chiede cortesemente di comunicare preoccupazioni ed indicazioni specifiche ivi espresse alla Sua Conferenza episcopale e in particolare alla Commissione o all’Ufficio incaricato del dialogo ecumenico, in modo che le pubblicazioni ed altri testi della Conferenza episcopale e dei suoi diversi uffici si attengano scrupolosamente a ciò che è stabilito nella Nota.
Con gratitudine per la sua assistenza e con i migliori voti, resto Suo in Cristo
card. Joseph Ratzinger
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NOTA SULL’ESPRESSIONE “CHIESE SORELLE”
1. L’espressione Chiese sorelle ricorre spesso nel dialogo ecumenico, soprattutto nel dialogo fra cattolici e ortodossi, ed è oggetto di un continuo studio da entrambe le parti. Mentre vi è certamente un uso legittimo di questa espressione, ve ne è altresì uno ambiguo che è divenuto predominante negli scritti contemporanei sull’ecumenismo. In conformità con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e con il Magistero papale postconciliare, è dunque opportuno ricordare l’uso corretto ed appropriato di que-st’espressione. Giova iniziare con un breve profilo storico.
I. Origine e sviluppo dell’espressione
2. L’espressione Chiese sorelle non appare come tale nel Nuovo Testamento, tuttavia vi sono numerose attestazioni delle relazioni sororali che esistevano tra le Chiese locali dell’antichità cristiana. Il passaggio del Nuovo Testamento che più esplicitamente riflette questa consapevolezza è la frase finale della seconda lettera di Giovanni: “Ti salutano i figli della eletta tua sorella” (2 Gv 13). Si tratta di saluti inviati da una comunità ecclesiale ad un’altra; la comunità che invia i saluti si definisce sorella dell’altra.
3. Nella letteratura cristiana, l’espressione comincia ad essere usata in Oriente quando, a partire dal quinto secolo, comincia a guadagnare terreno l’idea della Pentarchia, secondo la quale a capo della Chiesa vi sono cinque Patriarchi, e la Chiesa di Roma ha il primo posto tra queste Chiese sorelle patriarcali. A questo proposito, tuttavia, occorre notare che nessun romano pontefice ha mai riconosciuto questa equiparazione di sedi né ha accettato che solo un primato d’onore fosse accordato alla Chiesa di Roma. Bisogna sottolineare anche che questa struttura patriarcale tipica dell’Oriente non si è mai sviluppata in Occidente.
Come è ben noto, le divergenze tra Roma e Costantinopoli portarono, nei secoli successivi, alla scomunica reciproca con “conseguenze che, da quanto possiamo giudicare, andarono oltre ciò che avevano inteso e previsto i suoi realizzatori, le cui censure colpivano le persone menzionate e non le Chiese, e i quali non avevano intenzione di rompere la comunione ecclesiale tra le sedi di Roma e Costantinopoli”
4. L’espressione appare nuovamente in due lettere del metropolita Niceta di Nicodemia (nel 1136), e del patriarca Giovanni X Camaterus (in carica dal 1198 al 1206), nelle quali contestavano il fatto che Roma, presentandosi come madre e maestra, avrebbe annullato la loro autorità. A loro avviso, Roma era solo la prima tra sorelle di pari dignità.
5. In tempi recenti, il Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Atenagora I, è stato il primo ad usare nuovamente l’espressione Chiese sorelle. Nell’accogliere i gesti fraterni e l’appello all’unità rivoltogli da Giovanni XXIII, spesso ha espresso nelle sue lettere la speranza di vedere l’unità tra le Chiese sorelle ristabilita nel prossimo futuro.
6. Il Concilio Vaticano II ha adottato l’espressione Chiese sorelle per descrivere la relazione tra chiese particolari: “In Oriente prosperano molte Chiese particolari o locali, tra le quali tengono il primo posto le Chiese patriarcali, e non poche di queste si gloriano d’essere state fondate dagli stessi apostoli. Perciò, presso gli orientali grande fu ed è ancora la preoccupazione e la cura di conservare, in una comunione di fede e di carità, quelle fraterne relazioni che, come tra sorelle, devono esistere tra le Chiese locali”.
7. Il primo documento pontificio in cui il termine sorelle è applicato alle Chiese è il documento apostolico Anno ineunte di Paolo VI al patriarca Atenagora I. Dopo aver manifestato la propria volontà di fare tutto il possibile per “ristabilire la piena comunione tra la Chiesa dell’Occidente e quella d’Oriente”, il papa chiedeva: “Dal momento che questo mistero di amore divino è all’opera in ogni Chiesa locale, non è questo il motivo della tradizionale espressione “Chiese sorelle” che le Chiese di vari luoghi utilizzavano l’una rispetto all’altra? Per secoli le nostre Chiese hanno vissuto in questo modo come sorelle, celebrando insieme i concili ecumenici che difendevano il deposito della fede contro ogni corruzione. Ora, dopo un lungo periodo di divisione e di reciproca incomprensione, il Signore, nonostante gli ostacoli sorti tra noi nel passato, ci dà la possibilità di riscoprirci come Chiese sorelle”.
8. L’espressione è stata usata spesso da Giovanni Paolo II in numerosi discorsi e documenti; ecco i principali, in ordine cronologico.
Nell’enciclica Slavorum Apostoli: “Per noi essi (Cirillo e Metodio) sono i campioni ed anche i patroni dell’impegno ecumenico delle Chiese sorelle dell’Oriente e dell’Occidente per la riscoperta, attraverso la preghiera e il dialogo, dell’unità visibile in perfetta e totale comunione”.
In una lettera del 1991 ai vescovi d’Europa: “Quindi, con queste Chiese (le Chiese ortodosse) devono essere promosse relazioni come fra Chiese sorelle, per usare l’espressione di Paolo VI nel suo documento al Patriarca di Costantinopoli, Atenagora I”.
Nell’enciclica Ut unum sint, il tema è sviluppato soprattutto al numero 56 che inizia in questo modo: “Seguendo il Concilio Vaticano II e alla luce della precedente tradizione, è nuovamente tornato d’uso il riferimento alle Chiese particolari o locali riunite intorno al loro vescovo come “Chiese sorelle”. Inoltre, il ritiro della scomunica reciproca, eliminando un ostacolo canonico e psicologico doloroso, ha costituito un passo significativo sulla strada verso la comunione piena”. Questa sezione si conclude esprimendo l’augurio che “la tradizionale designazione di “Chiese sorelle” ci accompagni sempre in questo cammino”. Il tema è ripreso nuovamente al numero 60 dell’Enciclica: “Più recentemente, la commissione internazionale congiunta ha compiuto un passo significativo riguardo alla delicatissima questione del metodo da seguire nel ristabilimento della comunione piena tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, tema che ha spesso inasprito le relazioni tra cattolici e ortodossi. La Commissione ha posto le basi dottrinali per una soluzione positiva a questo problema sul fondamento della dottrina delle Chiese sorelle”.
II. Direttive sull’uso dell’espressione
9. I riferimenti storici presentati nei paragrafi precedenti illustrano la rilevanza che l’espressione Chiese sorelle ha assunto nel dialogo ecumenico. Ciò rende ancora più importante il corretto uso teologico del termine.
10. In effetti, in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o raggruppamenti di Chiese particolari; per esempio i patriarcati o province metropolitane) tra di loro. Deve essere sempre chiaro, quando l’espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che l’una, santa, cattolica e apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari.
11. Si può anche parlare in senso proprio di Chiese sorelle in riferimento a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; così la Chiesa particolare di Roma può anche essere chiamata sorella di tutte le altre Chiese particolari. Tuttavia, come ricordato più sopra, non si può affermare correttamente che la Chiesa cattolica è sorella di una Chiesa particolare o di un gruppo di Chiese. Non è semplicemente una questione terminologica, ma soprattutto una questione di rispetto di una verità fondamentale della fede cattolica: quella dell’unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, c’è un’unica Chiesa, e perciò il termine plurale Chiese può solo riferirsi alle Chiese particolari.
Di conseguenza, si deve evitare, in quanto fonte di fraintendimento e di confusione teologica, l’uso di formulazioni quali “le nostre due Chiese” che, se applicate alla Chiesa cattolica e alla totalità delle Chiese ortodosse (o ad una singola Chiesa ortodossa), implicano una pluralità non semplicemente a livello di Chiese particolari, ma anche a livello dell’una, santa, cattolica e apostolica Chiesa confessata nel Credo, la cui esistenza reale viene in questo modo oscurata.
Infine, si deve anche tenere in mente che l’espressione Chiese sorelle in senso proprio, come attestato dalla tradizione comune di Oriente e Occidente, può essere usata solo per quelle comunità ecclesiali che hanno conservato un episcopato ed un’eucaristia validi.
Roma, dagli Uffici della Congregazione per la Dottrina della Fede, 30 giugno 2000, Solennità del Sacro Cuore di Gesù.
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Note
1) Paolo VI e Atenagora I, Dichiarazione congiunta Penetrés de reconnaissance, (7-12-65), 3; AAS 58 (1966), 20. Le scomuniche sono state ritirate reciprocamente nel 1965; “Papa Paolo VI e il patriarca Atenagora I in questo Sinodo… dichiarano con reciproco consenso… di rammaricarsi e di eliminare dalla memoria e dalla Chiesa le espressioni di scomunica” (ibid., 4); cfr. anche Paolo VI, Lettera apostolica Ambulate in dilectione (7/12/65); AAS 58 (1966), 40-41; Atenagora I, T_µo_ patriarcale (7/12/65): _____ ______ Vaticano – Phonar (1958-1970), 129 (Tipografia Poliglotta Vaticana; Roma – Istanbul, 1971), 290-294.
2) Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Unitatis Redintegratio, 14.
3) Paolo VI, documento apostolico Anno ineunte (25/7/67); AAS 59 (1967), 852, 853.
4) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Slavorum Apostoli, (2/6/85), 27; AAS 77 (1985), 807.
5) Giovanni Paolo II, Lettera ai vescovi d’Europa su Relazioni tra cattolici e ortodossi nella nuova situazione nell’Europa Centrale e orientale (31/5/91), 4; AAS 84 (1992), 167.
6) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ut unum sint (25/5/95), 56 e 60; AAS 87 (1995), 954, 955, 957.
7) Cfr. i testi del decreto Unitatis Redintegratio, 14 e il documento apostolico di Paolo VI ad Atenagora I Anno Ineunte, citati sopra nelle note 2 e 3.
8) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, lettera Communionis notio (28/5/92), 9; AAS 85 (1993), 843-844.
9) Cfr. Concilio ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 8; Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarazione Mysterium Ecclesiae (24/6/73), 1; AAS 65 (1973), 396-398