Padre Tito Sante CENTI O.P., grande teologo e divulgatore di San Tommaso, di fronte alla montante contestazione infraecclesiale circa il soggetto del ministero sacro, confuta il preteso antifemminismo di San Paolo ed espone sinteticamente i punti fermi della teologia positiva ed i motivi di convenienza della prassi plurisecolare della Chiesa di Gesù Cristo.
L’invalidità dell’Ordine sacro conferito alla donna
Padre Tito Sante dott. CENTI, O.P.
(già professore negli « Studi Domenicani » in Fiesole e Pistoia)
Introduzione
Nel mese di settembre dello scorso anno mi trovavo in Sardegna per impegni di ministero. Fui allora ospite dei PP. Benedettini che nel comune di Borutta, hanno fatto rifiorire un notevole parco di verde intorno alla loro chiesa, che in antico era la cattedrale di S. Pietro in Sorres. Mio compito era di predicare il ritiro annuale al clero.
Una settimana. Un corso nel quale il sottoscritto esigeva rigoroso silenzio, imponeva anche al predicatore lunghe pause meditative.
Lassù c’era poco da distrarsi: per la meditazione il richiamo costante era la chiesa. Non solo per la presenza eucaristica e per le sacre immagini, ma per la struttura stessa dell’edificio. La chiesa di S. Pietro in Sorres è un imponente monumento nazionale: un edificio di stile pisano, documento insigne della pietà e della dottrina cristiana del secolo di S. Tommaso e di S. Bonaventura. Nelle sue pietre è possibile leggere ancora una specie di Somma teologica, ma soprattutto un tratto quasi completo di ecclesiologia.
Infatti la chiesa edificio è stata concepita come richiamo costante alla Chiesa istituzione, mediante il giuoco dei numeri e nelle strutture e nelle sue austere decorazioni, ottenute per lo più dal giuoco dei due colori della pietra: bianco e nero.
Osservando l’edificio con una certa attenzione ci accorgiamo che, nel corpo inferiore e laterale del fabbricato, che l’artista ha voluto ben distinguere dal corpo centrale e dal suo fastigio che è la navata di mezzo, la quale s’innalza fino al culmine, si riscontrano dei numeri che indicano imperfezione. Gli archetti, per esempio, sotto le gronde, sono trentotto e non quaranta, come ci si aspetterebbe, dato il simbolismo biblico di codesto numero. Gli archi bassi della facciata ci offrono col cinque il numero simbolico dell’uomo, e col sette il numero perfetto della creazione e dell’Antico Testamento.
Nel fastigio invece e nella navata centrale predominano il numero nove, che è il simbolo dei cori angelici, e il numero otto che è il numero di perfezione consumata: la perfezione del Nuovo Testamento.
In tal modo viene espressa una verità che noi moderni siamo tentati di dimenticare: la diversa strutturazione della Chiesa nei due tempi così diversi della sua esistenza. Da un lato abbiamo la struttura della Chiesa militante con i suoi limiti temporali e terrestri; dall’altro la struttura della Chiesa trionfante quale è stata progettata per l’eternità.
La celeste Gerusalemme riverbera i suoi riflessi anche su quella terrestre; ma non è davvero opportuno dimenticare le loro differenze.
La stessa struttura gerarchica della Chiesa va concepita in due maniere ben diverse nelle due fasi suddette; poiché nella Città di Dio, trionfante per l’eternità, non esiste una gerarchia ecclesiastica distinta da quella angelica. I teologi medioevali prendevano sul serio le parole di Cristo:
«Alla resurrezione né si ammoglieranno né si mariteranno, ma saranno come gli angeli di Dio in cielo» (Matt. 22, 30).
In tale prospettiva non avrà nessun rilievo particolare la differenza dei sessi: maschi e femmine saranno inseriti nelle gerarchie angeliche, non in base ai compiti esercitati sulla terra, ma solo in base al grado di carità soprannaturale che ciascun individuo avrà raggiunto al momento della sua morte (1). Allora l’opera della Redenzione avrà il suo compimento, e saranno pienamente avverate le parole di S. Paolo: «Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più maschio né femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3, 28).
Fin dalla vita presente, in cui il germe dell’essere soprannaturale ed eterno viene coltivato, la donna non trova nessun limite in codesta sostanziale sublimazione della persona umana. Tempio dello Spirito Santo, figlia adottiva di Dio, sorella di Cristo, vede aperte dinanzi a sé tutti i tesori della grazia, compresi i doni dello Spirito Santo e i carismi della scienza e della sapienza di Dio.
Tale premessa io la considero indispensabile nell’affrontare il problema che direttamente ci interessa: la validità o meno dell’Ordine Sacro conferito alla donna. Poiché l’Ordine Sacro, il quale imprime un carattere indelebile con particolari poteri di ministero, non rientra nella sfera dell’essenziale e dell’eterno; bensì nella sfera del transitorio e del funzionale, come del resto ogni altro Sacramento.
La contestazione e il problema del ministero sacro
Il richiamo è quanto mai opportuno ai nostri giorni, in cui l’imperversare di una teologia nebulosa e confusionaria costituisce la piattaforma ideale per una dissennata opera di demolizione ai danni della Chiesa. Nel loro raduno fiorentino di quest’anno, i preti della contestazione hanno preso di mira, come sapete, i santi Sacramenti, definendoli strumenti di potere nelle mani della Gerarchia, mezzi efficaci per opprimere il popolo cristiano.
Non si poteva svisare più radicalmente l’intrinseca natura del Sacramento, il quale nasce dall’indigenza dell’uomo e si concreta come offerta della misericordia di Dio. Giustamente S. Tommaso fa osservare che i Sacramenti non sarebbero concepibili nello stato d’innocenza primordiale, in cui erano stati creati i nostri progenitori nell’Eden; perché in quello stato l’uomo non avrebbe avuto nessun bisogno di ricorrere a cose sensibili per i suoi rapporti diretti con Dio (2). Ma dopo il peccato, noi siamo caduti in tale necessità. Perciò, sia nell’amministrare, sia nel ricevere i Sacramenti noi non facciamo altro che esercitare un atto profondo di umiltà: l’accettazione delle tristi condizioni prodotte dal peccato originale.
Il primo a percorrere codesta via è stato il Figlio di Dio fatto uomo, il quale ha voluto assumere tutti i limiti contratti dall’umanità con il peccato, fino al punto di prolungare l’Incarnazione stessa mediante segni sensibili che la sua divinità rende capaci di produrre la Grazia.
L’istituzione divina dei Sacramenti per noi cattolici è fuori discussione, come è fuori discussione la costituzione gerarchica della Chiesa. Ricordiamoci però che qui siamo sul terreno operativo della Chiesa militante, dove tutto si svolge su di un piano funzionale. Ebbene, in questa fase funzionale della sua esistenza terrena, la Chiesa convive con una società anch’essa provvisoria, la quale è imperniata sulla famiglia. Uomini e donne compongono codesta società, prestandosi aiuto vicendevole con una divisione di compiti, in gran parte dovuta alla struttura fisica e psicologica dei due sessi, e in parte dovuta a consuetudini e leggi più o meno legittime.
Non è a dire che Cristo nel fondare e promuovere la sua religione, ossia la vera religione, si sia disinteressato della donna. Egli infatti, nel definire le regole fondamentali della convivenza umana, non volle trascurare le norme che regolano i rapporti tra l’uomo e la donna, impegnati nella procreazione e nell’educazione della prole nel matrimonio. Si ribellò decisamente all’istituzione del divorzio, che la Legge mosaica aveva tollerato, condannandolo con durezza, pur sapendo di sfidare un’inveterata consuetudine. Anzi, col suo intervento Egli trasformò quell’unione naturale in Sacramento, e risollevò la donna alla sua dignità di sposa e di madre in una sostanziale parità di diritti con l’uomo. Gesù ammise nella cerchia dei suoi amici e familiari anche un certo numero di pie donne; e più volte difese la donna dalla sopraffazione dell’uomo, apparentemente motivata dallo zelo per la Legge.
Quando però si trattò di scegliere i ministri cui affidare i compiti sacri e gerarchici della sua Chiesa, limitò la sua scelta a determinati soggetti di sesso maschile. La massa degli esegeti e dei teologi, fino al secolo scorso, ha attribuito concordemente questa deliberazione del Signore a un criterio autonomo e irreformabile: l’esclusione del sesso femminile dall’Ordine Sacro viene da essi considerata una scelta divina, di cui possiamo indagare con umiltà le ragioni profonde, ma che non è lecito mettere in discussione.
A darci la certezza che si è trattato di una scelta deliberata, senza ombra di condizionamenti sociali, non c’è solo il fatto che, nel momento cruciale in cui il sacerdozio cristiano venne istituito e trasmesso, ossia nell’Ultima Cena, i soli presenti furono i Dodici, con esclusione persino della Vergine Santissima; ma c’è, la costante tradizione ecclesiastica, a cominciare da S. Paolo. Questa non ebbe in merito esitazioni di sorta, né a Oriente, né a Occidente. A sfidarla furono pochissime sette di fanatici, quali i Marcioniti e i Montanisti, che dal loro femminismo raccolsero soltanto irrisione e ludibrio.
Ma col Protestantesimo la contestazione ha investito, sia pure con un ritardo di secoli, anche l’esclusione della donna dal ministero sacro. Secondo l’esegesi di certi razionalisti del nostro secolo, Gesù benedetto si sarebbe uniformato in questo ai criteri discriminatori del suo tempo, senza rendersi conto dell’ingiusto trattamento inflitto alla donna.
Il preteso antifemminismo di S. Paolo
Un giudizio anche più duro viene pronunziato contro S. Paolo, il quale nelle sue lettere ha stabilito in maniera inequivocabile il criterio seguente, che per quasi venti secoli nessuna chiesa ha osato violare: «Come in tutte le comunità dei fedeli», scrive l’Apostolo alla chiesa di Corinto da lui fondata, «le donne nelle assemblee tacciano, perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (1 Cor. 14, 34 s.).
L’Apostolo prevede che possano esserci dei contestatori; perciò si affretta ad aggiungere: «Forse la parola di Dio è partita da voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce neppure lui è riconosciuto » (1 Cor. 14, 36‑38).
Parole consimili sono ripetute, come sapete, in 1 Tim. 2, 11‑12: «La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare leggi all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione».
Per certa esegesi, qui, l’Apostolo delle genti, ben lungi dal seguire l’impulso dello Spirito Santo, avrebbe invece seguito quello di un istintivo antifemminismo, comune ai rabbini del suo tempo. Il suo appellarsi a un preciso comando del Signore non impressiona il razionalista, il quale è dispostissimo a considerare il tutto come una pia menzogna.
Ma, come voi ben capite, accettare giudizi di questo genere equivale a rinnegare la fede cristiana, la quale fonda uno dei suoi piloni portanti sull’ispirazione soprannaturale di tutta la Bibbia. Perciò non è neppure il caso di discutere in questa sede le tesi di coloro che attribuiscono errori e ingiustizie sia agli agiografi, sia a Cristo medesimo.
Notiamo solo che i modernissimi critici, i quali attribuiscono a S. Paolo ispirazioni così poco cristiane, forse non si rendono conto della propria incoerenza nel desumere il loro programma egualitario proprio dalle sue parole: «Non c’è più né Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal. 3, 28).
Qualche testa piccina ha creduto di scorgere dell’incoerenza nel Dottore delle genti, senza sospettare la grandiosità del suo panorama teologico, e la diversità dei piani in cui egli si muove nelle varie pericopi e nei vari contesti.
Punti fermi della teologia positiva
Ma passiamo ormai a esaminare la posizione di quei teologi, anche cattolici, i quali si limitano a riconoscere nell’esclusione della donna dai ministeri sacri una condiscendenza di Cristo alle consuetudini del suo tempo, senza riconoscervi nessun disegno positivo. Nel poco raccomandabile Dizionario Enciclopedico di Teologia morale, stampato qualche anno fa dalle Edizioni Paoline, si legge: «Il problema nella sua impostazione è molto semplice: si tratta di sapere se l’esclusione delle donne (posto che sia appurabile) è un semplice fatto o è anche un principio. Ammesso che sia certo il fatto che Cristo abbia ordinato solo uomini è, esso pure, come taluni testi paolini, la risultanza di un certo contesto culturale, oppure è indizio di una norma assoluta valida in ogni tempo e in ogni latitudine? Può essere teologizzato, come è accaduto fino a oggi, o non sopporta cariche ideologiche e chiede d’essere restituito ad una semplice empiricità?» (3).
L’obiezione che stronca alla radice questa impostazione confusionaria del problema nasce dalla necessità di distinguere nel comportamento di Cristo due sfere d’azione ben diverse. Da un lato abbiamo il suo comportamento quasi passivo di semplice condiscendenza, o di adattamento verso le norme e le consuetudini di quella società in cui Egli si era degnato d’inserirsi e di vivere; dall’altro abbiamo i suoi interventi positivi per la costituzione e la vita specifica di quella società religiosa che Egli stesso ha fondato. Mi pare che non si abbia diritto di vedere un gesto di tolleranza in nessuna delle disposizioni che riguardano questa seconda serie d’interventi. Ebbene, la determinazione del soggetto per il ministero sacro rientra in quest’ultima categoria; rientra invece nella prima la tolleranza cristiana verso la schiavitù. Ecco perché la stragrande maggioranza, per non dire la totalità, dei teologi cattolici e delle chiese orientali dissidenti, respinge l’idea di un condizionamento sociale nella scelta fatta da Cristo.
E’ ridicola l’obiezione di chi in tale scelta vuol mettere alla pari il sesso con la nazionalità. Si dice: Se fosse vero che la scelta dei soli uomini fatta da Cristo è vincolante per la cristianità e per tutti i secoli, dovrebbe essere ugualmente vincolante anche la nazionalità ebraica. Solo gli ebrei dovrebbero essere ammessi agli ordini sacri; perché Gesù scelse per i ministeri sacri ebrei soltanto, escludendo i gentili (4). Voi capite subito che questa barzelletta non può reggere come argomento; poiché è ben nota l’intenzionale e provvisoria limitazione della predicazione evangelica primordiale «alle sole pecore sbandate del gregge d’Israele» (Mt. 10, 6). Durante la sua vita terrena, il Redentore Divino escluse i pagani non solo dai ministeri sacri, ma anche dall’evangelizzazione. Prima però di salire al cielo disse ai suoi discepoli: «Andate per tutto il mondo; predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc. 16, 15). Sfidiamo invece chiunque a documentare con i testi del Nuovo Testamento il più piccolo indizio che l’esclusione della donna dal ministero sacro dovrebbe considerarsi un fatto provvisorio.
Del resto la tanto conclamata pressione esterna che il mondo di allora avrebbe esercitato su Cristo e sugli Apostoli, nonché sulla cristianità nascente, per imporre l’esclusiva dei ministeri sacri al solo sesso maschile, non regge affatto a una critica spregiudicata. Se infatti consideriamo la vita religiosa del bacino mediterraneo nel primo secolo, vediamo che la donna‑sacerdote è tutt’altro che una stravaganza. Nei culti pagani, sia greci che orientali, le sacerdotesse erano allora assai numerose. Perciò se fosse vero quello che scrivono certi razionalisti circa l’osmosi che il cristianesimo avrebbe subito in codesto ambiente, il sacerdozio delle donne sarebbe stato più che normale anche nella nuova religione. Invece S. Paolo, che d’ordinario viene considerato il più sensibile a codesto influsso, ha respinto in tono intransigente qualsiasi cedimento nel senso indicato.
Abbiamo quindi il pieno diritto di considerare ben fondata sulle parole del Vecchio e del Nuovo Testamento, ossia sulla Rivelazione divina, la tesi comune dei manuali cattolici di teologia, che la donna è soggetto incapace di ricevere il sacramento dell’Ordine. «Il sesso femminile», scrive il Bartmann, «non è capace di ricevere nessun Ordine sacramentale». E aggiunge: «La ragione non si trova certamente nella natura della donna, ma in un ordine positivo» (5).
Con questo discorso si viene a riconoscere che di per sé l’ordinazione di una donna è invalida, come è invalido il Battesimo amministrato con l’acquavite, e come è invalida la Cresima impartita a un soggetto non battezzato. L’invalidità nasce dal fatto che il Sacramento viene amministrato senza rispettare il rito che l’istitutore dei Sacramenti ha determinato, o quanto alla forma, o quanto alla materia, o quanto al soggetto. A nessuno infatti è consentito contravvenire alla sua volontà.
Per tale motivo, fin dai primordi della Chiesa, la donna fu esclusa dai ministeri sacri. E i tentativi fatti per dimostrare il contrario si sono rivelati inconcludenti.
Prima del secolo XIX l’esclusione della donna dai ministeri è pacificamente ammessa da tutti; le poche dichiarazioni dei Padri circa il nostro problema sono decisamente a favore della prassi imposta autorevolmente da S. Paolo. Valgano per tutti le parole di S. Epifanio (315‑403): «Da che mondo è mondo mai una donna ha servito il Signore come sacerdote» (6). E ancora: «Quantunque ci sia stato nella Chiesa un ordine delle diaconesse, tuttavia esso non è affatto istituito per le funzioni sacerdotali, o per un servizio simile, ma per salvaguardare i buoni costumi del sesso femminile» (7).
Nel nostro Occidente nessuno ha osato discutere l’esclusione della donna dai suddetti ministeri. Si ricorda solo un energico richiamo di Papa Gelasio I (492‑96) per un abuso locale. Egli rimprovera alcuni Vescovi e sacerdoti dell’Italia meridionale, per aver tollerato che delle donne espletassero dei ministeri sacri, senza specificare quali fossero (8).
Se è vero, dunque, come ha ricordato il Concilio Vaticano II (LG, n. 12), che il popolo cristiano è infallibile nel credere cose relative alla fede e alla morale, non c’è dubbio che l’esclusione della donna dal ministero sacro è da ritenersi oggi ancora, come per tanti secoli, un dogma di fede.
Motivi di convenienza
Ma a questo punto è lecito e doveroso domandarsi: La dichiarata volontà dell’Autore dei Sacramenti, ossia del legislatore divino, convalidata da tutta la tradizione ecclesiastica, ha dei motivi di convenienza?
E’ questo un problema che ci riporta a considerare quella natura delle cose, di cui alcuni teologi tendono a disfarsi con eccessiva precipitazione. La teologia invece non può esimersi da una ricerca di questo genere, senza ridursi a un elenco di testi autorevoli. Non è così che hanno inteso l’ossequio ragionevole della mente alla rivelazione di Dio i nostri grandi maestri, i santi dottori della Chiesa, a cominciare dall’antichità più venerabile.
Troviamo così che l’acqua è stata scelta quale materia idonea del Battesimo, perché è lo strumento più universale per la purificazione del corpo, e perché già nell’opera di creazione le acque sono l’inesauribile matrice della vita. La riflessione teologica porta a intravedere la convenienza del pane e del vino quale materia dell’Eucarestia, per la diffusione del loro uso e più ancora per il simbolismo di tali sostanze alimentari.
Ebbene, noi pensiamo che la buona teologia debba ricercare anche quali siano i motivi di convenienza per la scelta divina dei sacri ministri nell’ambito del sesso maschile, con esclusione del sesso femminile. Questo tentativo deve essere intrapreso a costo di incespicare e di balbettare, intorno a realtà sublimi che quasi interamente sfuggono alla comprensione umana. E’ un lavoro che va intrapreso con umiltà, confidando però nella luce che emana da tutti i misteri cristiani.
Eccoci quindi all’opera, con la grazia di Dio:
1) Nella religione cristiana non esiste che un unico Sacerdote principale: gli altri sono soltanto suoi ministri. Perciò la chiamata al sacro ministero esige, nell’ordine sacramentale, una certa conformità visibile tra il ministro e il sacerdote che rappresenta. Il Sacramento infatti è nella categoria del signum. Ora, il sacerdote principale della religione cristiana non è altri che il Cristo, il quale nella sua umanità ha rivestito le spoglie dell’uomo e non quelle della donna. Dunque esiste una ragione di convenienza nella determinazione del soggetto degli ordini sacri, compiuta da Gesù con l’esclusione del sesso femminile.
Si deve qui notare che l’esclusione delle donne dal ministero sacro era già tradizionale presso gli ebrei e ribadita dalla legge mosaica. Sebbene infatti il sacerdozio cristiano non derivi da quello di Aronne, non va dimenticato che il sacerdozio levitico in tutte le sue funzioni prefigurava quello di Cristo. Le sacerdotesse invece erano in auge nei culti idolatrici, dai quali i cristiani si discostavano con orrore, non meno dei buoni Israeliti (9).
2) A rincalzo della ragione suddetta, che si desume dalla cristologia del nostro sacerdozio ministeriale, c’è da rilevare che nel Nuovo Testamento abbiamo la perfetta identità tra il sacerdote e la vittima. Ora, quello che è avvenuto una volta sola in maniera cruenta sul Calvario, si rinnova in maniera incruenta sui nostri altari. Ma per tale rinnovazione si vede la convenienza di un sacerdote ministro, il quale nella maniera più appropriata faccia rivivere dinanzi all’assemblea dei fedeli quel gesto sacrificale con segni visibili che ne rispettino al massimo i connotati. Era giusto quindi che dalla massa dei fedeli venissero prelevati per tale compito delle persone di sesso maschile, in grado di prestare la propria voce e la propria azione, senza alterare minimamente le parole di Cristo, e di sostituire visibilmente Colui, «il quale prima di soffrire la sua passione, prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: “Prendete e mangiate tutti; poiché questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi… “».
Voi siete persuasi come me e più di me che questo è l’aspetto essenziale del sacerdozio; ma per coloro che fossero tentati di dar credito a certa pseudo‑teologia post‑conciliare, riferiamo in proposito le parole di uno zelante sacerdote scomparso da pochi mesi, Mons. Escrivà De Balaguer: «E’ opportuno ricordare, con caparbia insistenza, che tutti i sacerdoti ‑ sia noi peccatori che quelli che sono santi ‑ quando celebrano la Messa non sono più se stessi. Sono Cristo che rinnova sull’altare il divino Sacrificio del Calvario. Nel mistero del sacrificio eucaristico in cui i sacerdoti svolgono la loro funzione principale, viene esercitata ininterrottamente l’opera della nostra redenzione e quindi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, la quale è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa, anche quando non è possibile che vi assistano i fedeli (Vaticano II, P.O., n. 13)…
«La presenza o l’assenza dei fedeli alla santa Messa non modifica in nulla questa verità di fede. Quando celebro circondato dal popolo ne provo piacere, ma non ho bisogno di considerarmi presidente di una assemblea. Da un lato, sono un fedele come gli altri; ma, dall’altro, sono anche e soprattutto Cristo sull’altare. Rinnovo incruentemente il divino Sacrificio del Calvario e consacro in persona Christi, perché rappresento realmente Gesù Cristo, gli dò in prestito il mio corpo, la mia voce, le mie mani, il povero mio cuore tanto spesso macchiato e bisognoso di essere da lui purificato» (10).
3) Una terza ragione di convenienza credo che si debba ricercare in una specie di compensazione. Non c’è dubbio infatti che a nessuna pura creatura Dio ha concesso una dignità paragonabile a quella di Maria Santissima. La maternità divina eleva la sua persona a una «dignità quasi infinita», come dice S. Tommaso. Con tale dignità, una donna è stata inserita in un ordine gerarchico superiore non solo a quello di tutti gli uomini, ma a quello di tutti gli Angeli. Era giusto quindi che, come alla donna per la sua maternità è stata riservata una dignità incomunicabile all’uomo, così all’uomo fosse riservata, nell’ordine ministeriale e sacramentale, una dignità incomunicabile alla donna.
Qualcuno potrà forse rilevare che queste tre prime ragioni di convenienza «sunt a longe quaesita», sono cioè piuttosto vaghe; ma penso che in questa materia non si possa pretendere una deduzione più rigorosa e appropriata. Ciò detto, passiamo all’esposizione di quella ragione di convenienza, che in passato era comunemente accolta nelle scuole di teologia sull’autorità del Dottore Angelico.
4) S. Tommaso si è impegnato anche lui, da par suo, in questa ricerca nel suo giovanile Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo. Sebbene egli non abbia avuto il tempo e il modo di rielaborare la materia nell’incompiuta Somma Teologica, le sue parole hanno richiamato per secoli l’attenzione di tutti i teologi cristiani. Ecco la parte essenziale della sua argomentazione:
«Per ricevere i Sacramenti, certe cose sono richieste quasi dalla natura stessa del Sacramento: e quindi in mancanza di esse uno non può ricevere il Sacramento, né la Grazia sacramentale. Altre invece sono richieste non dalla natura del Sacramento, ma dalla legge, per il rispetto dovuto al Sacramento. E senza di esse si riceve il Sacramento, ma non la Grazia sacramentale. Ebbene, il sesso virile è richiesto per ricevere l’Ordine, non solo in quest’ultima maniera, bensì anche nella prima. Perciò anche se su di una donna si facessero tutte le cerimonie dell’ordinazione, essa non riceverebbe l’Ordine. Il Sacramento infatti essendo un segno, richiede che gli atti i quali lo trasmettono non solo producano la Grazia sacramentale, ma che ne esprimano il segno. Così nell’Estrema Unzione, come abbiamo visto, si richiede che uno sia infermo, per poter esprimere l’esigenza della guarigione. Ora, poiché il sesso femminile non può esprimere nessuna eminenza di grado, essendo la donna in stato di sudditanza, è chiaro che non può ricevere il sacramento dell’Ordine» (11).
La forza dell’argomentazione tomistica risiede tutta in quella affermazione: «Il sesso femminile non può esprimere nessuna eminenza di grado, essendo la donna in stato di sudditanza». Assioma che un lettore superficiale è subito tentato di giudicare ridicolo, facendolo derivare dai soliti pregiudizi della filosofia classica. Ma per capire S. Tommaso bisogna possibilmente consultare S. Tommaso stesso. Ebbene, nella II‑II, q. 177, a. 2 egli dice espressamente che lo stato di sudditanza, di cui parla, deriva non dalla natura, ma dalla condizione storica che la donna ha dovuto subire in seguito alla sua responsabilità nel primo peccato (12). Qui, l’Aquinate non si rifà ad Aristotele, ma alla Genesi: «Sarai sotto il potere dell’uomo, ed egli ti dominerà» (Gen. 3, 16).
Il maestro che egli segue non è altri che S. Paolo, il quale interpreta nel senso indicato le stesse parole dell’Antico Testamento.
Ora, che la donna si trovi di fatto sotto il dominio dell’uomo, nessuno potrebbe negarlo. Le femministe poi sono così lontane dal contestarlo da fondare proprio su tale stato di fatto la ragion d’essere del loro movimento. Perciò la condizione minoritaria della donna in seno alla società civile non l’hanno inventata né la Genesi, né S. Paolo, né S. Tommaso. E’ una condizione di fatto fondata sul diritto del più forte. Il prevalere poi di codesto diritto è una delle tante sciagure provocate dal peccato originale. Nel quale peccato, la donna, per quanto possiamo saperne, ha recitato la parte di protagonista.
Ebbene, lo stato di sudditanza, che ormai è congenito alle figlie di Eva, argomenta il Dottore Angelico, non è a favore di una loro scelta per rivestire dignità e potere nell’ordine sacramentale, cioè in un ordine in cui il dato sensibile deve esprimere ciò che viene significato. Perciò S. Tommaso non esita a riconoscere che molte donne hanno nelle facoltà e nelle virtù dell’anima una vera superiorità su tanti uomini; ma il carattere sacerdotale, per la sua funzione sociale, ha bisogno di un soggetto che visibilmente lo esprima (13).
Che poi il Sacramento, oltre la materia e la forma idonea, richieda necessariamente anche il corrispettivo soggetto, viene dimostrato con l’esempio dell’Estrema Unzione. Come è nullo il sacramento dell’Olio degli Infermi amministrato a un soggetto sano, così è nullo il Sacramento dell’Ordine impartito a una donna, cui è stato interdetto e dall’autorità divina e da quella apostolica l’esercizio del dominio sull’uomo.
5) Alle ragioni suddette è doveroso aggiungere tutte le ragioni pratiche di convenienza, che fanno dell’esclusione della donna dall’Ordine sacro una disposizione quanto mai saggia e opportuna:
a) Penso che neppure il più fanatico femminista voglia sostenere l’opportunità di escludere il sesso virile dal ministero sacro; e che non si voglia condannare Cristo per avere estratto di là i suoi dodici Apostoli, nonché i 72 discepoli, affidando loro compiti ministeriali nella sua Chiesa. Ma tali compiti in una società gerarchica in espansione sono necessariamente molteplici, e frequente ne è l’esercizio comunitario, imponendo frequenza di contatti e perfetta familiarità. Ora, se vogliamo essere realisti e non dei poveri illusi, dobbiamo riconoscere che tale familiarità andrebbe incontro a gravi complicazioni, qualora codesti compiti fossero promiscuamente affidati a persone dei due sessi. Non parliamo poi dell’opportunità di escludere ogni promiscuità nell’esercizio esterno del culto, riservando ai ministri uno spazio ragionevole, che faciliti a tutti un tono di alta spiritualità, con l’esclusione di qualsiasi riferimento a rapporti umani di grado inferiore. Soltanto i liturgisti, pullulati come funghi dal Concilio Vaticano II, sembrano persuasi che la promiscuità dei sessi sia un elemento positivo nell’esercizio del culto, un incremento alla devozione. Ma fino al 1963, lo Spirito Santo ha soffiato nella direzione opposta, producendo fiori e frutti di vera santità.
b) Rientra nel piano divino di salvezza e di misericordia facilitare al massimo alle anime di buona volontà l’opera della santificazione. Ora, nessuno dubita che sia più facile accettare direttive e correzioni da parte di un uomo, piuttosto che da parte di una donna. Meno ancora sono quelli e quelle che sono disposti a confidare i loro segreti più gelosi a un soggetto femminile (fosse pure la propria mamma), piuttosto che a un soggetto maschile. Perché dunque non dovremmo ringraziare il Signore di averci risparmiato una prova superiore alle nostre forze, escludendo le donne dai suddetti ministeri sacri?
c) «La Grazia tende non a distruggere la natura, ma a perfezionarla». Ebbene, nell’ordine di natura, alla donna sono demandati i compiti più delicati della procreazione e dell’educazione, soprattutto negli anni della sua maturità più consapevole e perfetta. Compiti cui si affiancano quelli dell’assistenza sanitaria per il bene di tutti. Perciò distogliere la donna da codesti compiti, attribuendole quelli del ministero sacro, il quale tende ad assorbire tutte le aspirazioni umane, ha il carattere di una violenza alla natura. Dunque è perfettamente giustificata l’esclusione della donna da codesto ministero, disposta da Cristo e proclamata da S. Paolo. E’ vero, infatti, che la donna può essere chiamata da Dio a una vita di totale consacrazione che la strappa radicalmente dalla famiglia, per attendere al regno dei cieli; ma anche in questo caso è più naturale per essa consacrarsi, oltre che alla preghiera, a quei compiti assistenziali cui è predisposta da madre natura, e nei quali nessun uomo può normalmente competere con essa.
d) Finiamo con un’ultima ragione che ci sembra di cogliere tra le righe di tanti scritti di S. Caterina da Siena. Una ragione di convenienza, che la prassi attuale della Chiesa rende percettibile non per quello che viene fatto, ma per la grave carenza di quello che si dovrebbe fare. Ai suoi ministri il Signore ha affidato anche il potere di sciogliere e di legare, di correggere e di punire. E’ questo un compito irrinunciabile per qualsiasi società composta di uomini mortali e fallibili; compito che esige fermezza e perfetto dominio della propria sensibilità. Ora, il compito di correggere viene meglio esercitato da un padre, piuttosto che da una madre, specialmente fuori della famiglia. Cosicché la Santa Senese rivolgeva al Papa stesso questa pressante raccomandazione: «Siatemi un uomo virile!». Non è dunque arbitrario vedere anche in questo una ragione di convenienza, per la scelta esclusiva di uomini presumibilmente «virili» per l’esercizio dei sacri ministeri!
e) In appendice potremmo addurre tra i motivi di convenienza anche l’esaltazione e la promozione del compito educativo familiare, che ricade soprattutto sulle madri. L’impossibilità di accedervi di persona spinge le madri cristiane fervorose e devote a desiderare il sacerdozio per i loro figli, e a elevare il tono del loro ambiente domestico in tale prospettiva. Pensiamo alle madri dei nostri sacerdoti: esse formano un capitolo a parte della agiografia cristiana e non certo dei più scadenti. Nelle Memorie del Cardinale Giuseppe Mindszenty, le pagine più belle e sublimi sono forse quelle dedicate al suo «angelo consolatore»: alla mamma.
Nello spirito dell’umiltà cristiana
Concludendo torniamo a ripetere che l’esclusione di cui parliamo, la quale di fatto coinvolge la stragrande maggioranza dei fedeli, maschi compresi, non toglie a nessun cristiano la possibilità concreta di progredire nella grazia, nella fede, nella speranza, nella carità e nell’esercizio di ogni altra virtù. Tale progresso ci colloca ben al di sopra di ogni dignità ecclesiastica, come abbiamo detto fin da principio. Anzi, i compiti gerarchici sono a servizio di questi valori essenziali e comuni, e non viceversa. Dio solo conosce quante e quante donne precedono sacerdoti e Vescovi nel regno dei cieli.
Perciò, non sarà male ricordare, richiamandoci ai testi evangelici, quanto le discussioni appassionate su tale argomento siano aliene dalla pietà e dall’umiltà ispirate al Vangelo di Cristo, e poco edificanti per il regno dei cieli.
«In quel tempo i discepoli si avvicinarono a Gesù per domandargli: Chi è il più grande nel regno dei cieli? E Gesù chiamato a sé un bambino lo pose in mezzo a loro e disse: In verità vi dico: se voi non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Matt. 18, 14). «Se uno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc. 9, 34 [cfr. Lc. 9, 46‑48]). «Voi sapete che i prìncipi delle nazioni le signoreggiano e i grandi esercitano il potere sopra di esse. Ma non così tra voi; anzi chi tra voi vorrà essere il primo si faccia vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo il quale non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per la redenzione di molti» (Matt. 20, 25‑28).
Questo elenco di brani evangelici non vuole essere una predica già pronta per rintuzzare eventuali rivendicazioni dei semplici fedeli a tutto vantaggio del clero: è un richiamo accorato e paterno a tutti, ma specialmente a tanti sacerdoti del clero secolare e regolare, perché non si scoraggino nei giorni tristi in cui il loro compito è fonte di persecuzioni, di insulti, di volgarità d’ogni genere. Il nostro impegno con Cristo e per Cristo si paga con una costante partecipazione alla sua passione. Il nostro è un privilegio che ci distrugge dinanzi al mondo. Solo dei pazzi possono considerarlo usurpazione di un potere oppressivo, specialmente in questo nostro secolo così scristianizzato.
Del resto, anche per quest’ultimo insulto valgono a nostro conforto le parole del Maestro Divino: «Beati voi, quando gli uomini vi insulteranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Godete in quel giorno ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli!» (Matt. 5, 11‑12).
NOTE
1) Cfr. S. THOMAE, I, q. 108, a. 8.
2) Cfr. S. THOMAE, III, q. 61, a. 2.
3) L. Rossi ‑ A. VALSECCHI, «Dizionario enciclopedico di teologia morale», Ed. Paoline, Roma 1973, alla voce «Donna» a cura di A. Zarri, p. 253. Per una panoramica circa la concreta minaccia che affligge le varie chiese cristiane, per l’accesso delle donne ai sacri ministeri, vedi: A. M. SCHLUTER RODES, «Reconciliaciòn, ministerio de reconciliaciòn y la mujer en la Iglesia», in «Vida Religiosa», N. 284, Mayo 1975, pp. 209‑226.
4) Ibid.; Cfr. MARY DALY, «Le deuxième sexe conteste», Marne, Tours 1969, p. 183.
5) B. BARTMANN, «Manuale di Teologia Dogmatica», Alba 1952, vol. III, p. 341.
6) «Adversus haereses panarium», 70,2.
7) Ibid., 79, 3.
8) Cfr. PL, 59, 55.
9) Vedi A. ROMEO, «Il sacerdozio di Israele», in «Enciclopedia del sacerdozio», LEF, Firenze 1953, p. 394.
10) J. ESCRIVA DE BALAGUER, «Sacerdote per l’eternità», in «Studi Cattolici», 1975, pp. 190‑191.
11) Suppl., q. 39, a. l; Ediz. Ital. Salani, vol. 300, p. 298.
12) Vedi pure In 1 Tim., c. 2, lect. 3; In Ephes., c. 5, lect. 8.
13) Cfr. Suppl., q. 39, a. 1 ad 3.