Vittoria Rasoamanarivo, nacque nel 1848 a Tananarive in Madagascar, in una delle più potenti famiglie dell'isola. Giunti alcuni missionari gesuiti francesi, si iscrisse nella scuola della missione e si fece battezzare con il nome di Vittoria. Sposa di un alto ufficiale dell'esercito schiavo dell'alcol e delle passioni, rifiutò il divorzio, conscia dell'indissolubilità e santità del matrimonio. Quando nel 1883 i fedeli cattolici vennero accusati come traditori e perseguitati, Vittoria continuò a professare la sua fede apertamente incoraggiando le comunità alla perseveranza. Si dedicò ad innumerevoli opere di carità in favore di poveri, prigionieri, abbandonati, lebbrosi. Morì il 21 agosto 1894 a 46 anni.
E' la prima donna dell'isola africana del Madagascar che sia stata elevata all'onore degli altari. Ella nacque nel 1848 a Tananarive, oggi Antananarivo, da una delle più potenti e illustri famiglie degli Hovas, penultima di sei figli. Sua madre, Rambohinoro (+1868), era difatti figlia di Rainiharo, il quale espletò per oltre un ventennio (1832-1852) le mansioni di primo ministro della regina Ranavalona I (+1861), ed era sorella di Rainilaiarivony. Costui fu ministro di Rasoanalina, regina del Madagascar, dopo la cacciata dal trono (1863) del re Radama II perché troppo debole e amico dei francesi, e primo ministro delle regine Ranavalona II (1868-1883) e Ranavalona III (1883-1896). Poco sappiamo del padre della beata, Rainiandriantsilavo, cugino germano della madre di lei.
La beata crebbe, come tutti i membri del suo casato, nella religione idolatrica nella quale la regina veniva considerata come una divinità. Dalla madre, però, ricevette una buona educazione morale. Appena le Suore di S. Giuseppe di Cluny (Francia), con l'aiuto di alcuni missionari gesuiti, loro compatrioti, aprirono nel 1862 a Tananarive una scuola, vi fu mandata con la sorella Angelina e altre fanciulle appartenenti alle famiglie principesche del Madagascar.
L'insegnamento della religione cattolica e l'esempio di vita sacrificata e santa delle suore e dei religiosi fecero presto una così profonda impressione sulla tredicenne fanciulla, che chiese insistentemente di essere ammessa nella Chiesa Cattolica. Ricevette il battesimo il 1-11-1863 nella residenza di Maria Immacolata e le fu imposto il nome di Vittoria, presagio delle lotte che nella vita avrebbe affrontato con successo a sostegno della fede. Pochi mesi dopo fece la prima comunione e si iscrisse all'Apostolato della Preghiera. Avrebbe voluto donarsi completamente a Dio nello stato religioso, ma ne fu impedita dalla madre e dissuasa dal P. Lorenzo Ailloud SJ., suo direttore spirituale.
Anche i tempi che correvano non erano propizi per tali disegni. Difatti, dopo l'allontanamento dal trono di Radama II, con il favore degli inglesi si scatenò una persecuzione più o meno aperta contro i missionari, sospettati dai malgasci di curare di più gli interessi coloniali della Francia che quelli del loro paese. Alla morte del padre, Vittoria fu data in adozione allo zio paterno, Rainimaharavo, segretario di stato, il quale, tra gli altri compiti, aveva anche quello di far rispettare le clausole di un trattato concluso con l'Inghilterra, che prescrivevano a tutti i notabili malgasci di seguire le scuole protestanti. Gli alunni nobili, ritirati dalla scuola cattolica, passarono quasi tutti all'eresia. Vittoria, però, nonostante pressioni e minacce, perseverò nella fede cattolica con sovrumana fortezza, sorretta moralmente dalla fedelissima schiava Rosalia Ranahy.
Per costringerla ad apostatare i parenti minacciarono la beata di diseredarla e di non riconoscerla come membro della famiglia, ma ella rispose: "Sacrifico l'affetto dei parenti. Per amor di Dio voglio restare cattolica". Il primo ministro le chiese: "Allora ti rassegni a separarti da noi per sempre?". Gli rispose: "Io vi amo. Ma occorre che segua la religione cattolica fino alla mia morte anche a costo di essere fucilata". Il ministro insistette: "Perderai il diritto di essere seppellita nella tomba di famiglia". La beata gli disse: "Poco me ne importa. Se i missionari mi amano mi seppelliranno nella loro".
Il 13-5-1864, per concertazione dei parenti e combinazione della corte secondo le usanze allora vigenti nel Madagascar, Vittoria fu data in sposa a Radriaka, suo cugino, perché figlio maggiore, ancora pagano, del primo ministro Rainilaiarivony e di Rasoanalina, dopo le dispense di disparità di culto e di consanguineità di secondo grado. La cerimonia nuziale si svolse, in seguito alle insistenze della sposa, secondo il rito cattolico nella residenza di Maria Immacolata. La beata per un po' di tempo continuò gli studi, e quattro mesi dopo il matrimonio ricevette la cresima per le mani di Mons. Ludovico Jouen, Prefetto Apostolico.
Per ventitré anni il matrimonio della Rasoamanarivo fu un continuo atroce martirio perché lo sposo non smise di darsi al giuoco, di ubriacarsi con il rum e di correre dietro alle donne. Non diede figli alla moglie forse per la vita debosciata che condusse fino al morte. La condotta di lui era talmente scandalosa che i suoi stessi genitori ripetutamente consigliarono Vittoria, che stimavano e amavano, a chiedere il divorzio. La beata, però, intimamente consapevole dell'indissolubilità e santità del matrimonio, come pure delle gravi conseguenze che il divorzio di una principessa cattolica avrebbe inevitabilmente causato alla religione nei confronti dell'opinione pubblica, non diede ascolto a tali suggerimenti e, per tutta la vita, rimase eroicamente fedele a colui che Dio le aveva dato come compagno. Non le mancarono proposte di illeciti amori da parte di qualche ufficiale o cortigiano, ma invece di accettarle si limitava a dire ai tentatori: "Andate prima a chiederne il permesso a Radriaka".
Vittoria non parlava con nessuno delle sue pene di moglie continuamente tradita perché amava e rispettava il marito così come era, senza dare segni di impazienza e senza fare recriminazioni. Radriaka viveva abitualmente fuori casa. Quando vi faceva ritorno talora conduceva con sé le amanti. Anche allora Vittoria, senza dare il minimo segno di gelosia e di sdegno, preparava o faceva preparare per loro il pranzo o la cena. Talvolta rincasava ubriaco, e allora era pericoloso perché mordeva persino le persone e rivolgeva parole cattive e violente alla moglie. La santa consorte se ne vendicava preparandogli da mangiare, lavandogli i piedi, aiutandolo a spogliarsi e a mettersi a letto. Di quando in quando Radriaka aveva momenti di lucidità per cui si vergognava delle proprie sregolatezze. Allora la moglie, con molta dolcezza, gli diceva: "Perché, dunque, ti comporti in questo modo, tu che sei un ufficiale di Palazzo?". Molto preoccupata della salvezza dell'anima di lui, talvolta riuscì pure a fargli dire qualche orazione e a fargli soccorrere i missionari con elemosine.
Un giorno del 1887 Vittoria, con la morte nell'anima, vide portarsi a casa il marito gravemente ferito. Era stato in casa di una delle sue tante amanti, si era ubriacato come al solito ed era caduto dalla veranda. La beata ne curò personalmente le ferite anche a costo di diradare la frequenza alla chiesa. Lo esortò a pentirsi dei suoi disordini, gli parlò della felicità della vita eterna e quando peggiorò, vedendo che non giungeva il missionario che aveva fatto chiamare, gli amministrò personalmente il battesimo in articulo mortis, imponendogli il nome di Giuseppe. In seguito lo suffragò facendo celebrare per lui molte Messe, diradando le permanenze alla corte e portando il lutto finché visse. Rimasta vedova si dedicò più intensamente alla preghiera, si interessò particolarmente dell'Associazione delle Figlie di Maria e si adoperò a diffondere l'Opera della S. Infanzia.
A causa del suo rango, Vittoria era obbligata a recarsi quotidianamente a Palazzo in qualità di dama di corte. Coloro che la conobbero furono concordi nel lodare il suo comportamento esemplare, la sua modestia nell'abbigliamento, la sua riservatezza nel parlare, la sua mortificazione nel cibarsi. Difatti si asteneva dalla carne il venerdì e il sabato, e nei pasti non faceva uso di vino e di caffè. In quaresima si nutriva soltanto con acqua e legumi. I lauti banchetti non le andarono mai a genio. Dopo gli iniziali cenni di dileggio da parte dei cortigiani, in maggioranza protestanti, la beata riuscì ad attirarsi l'ammirazione e la stima di tutti soprattutto perché "parlava poco e pregava assai".
Gli obblighi derivanti dalla sua posizione sociale non distoglievano Vittoria dal dedicare molte ore del giorno e della notte all'orazione mentale e vocale. Alle quattro del mattino, con la corona del rosario in una mano e la lanterna nell'altra, raggiungeva a piedi la cattedrale, si collocava accanto all'altare della Madonna e prendeva parte a tutte le messe che venivano celebrate dai missionari. Quasi tutti i giorni faceva la comunione. Rimaneva in chiesa, assorta in preghiera, fino verso le ore otto. Quando la malattia la costringeva a restare a letto, un padre gesuita le portava la comunione in casa. In segno di rispetto per l'ospite divino l'inferma faceva stendere e cospargere di fiori preziose stoffe dall'ingresso del palazzo fino alla sua camera. Invitava, quindi, gli schiavi presenti a cantare inni appropriati alla circostanza.
Nel pomeriggio Vittoria ritornava in chiesa alle ore quindici, e vi rimaneva fin verso le diciotto. Approfittava di quel tempo per raccomandare a Dio i bisogni della sua famiglia, della Chiesa, del mondo, dei peccatori, delle anime purganti recitando il rosario, facendo sovente la Via Crucis, l'ora santa al primo venerdì del mese, e gli esercizi spirituali ogni anno. A questo orario ella rimase fedele fino alla morte, d'inverno e d'estate, sia che piovesse e sia che si soffocasse dal caldo. Diceva il rosario per strada, in mezzo alla folla, o in casa quando era libera dalle occupazioni tanto che alle sue dita si formarono dei calli. Portava abitualmente la corona del rosario in mano, anche alla presenza dei notabili della corte, con la più grande naturalezza e senza rispetto umano. Quando il suono della campana annunciava l'Angelus, se si trovava a corte si ritirava in disparte per recitarlo; se si trovava per strada si inginocchiava per terra e lo recitava con i presenti.
Verso le diciotto Vittoria faceva radunare gli schiavi, una ventina, e con loro recitava il rosario intero e le preghiere della sera. Dopo una leggera refezione ricominciava a meditare e a pregare per proprio conto fin verse le ventitré della notte. Nella camera nuziale aveva fatto sistemare molte immagini sacre, erigere un altarino e porre dinanzi ad esso un inginocchiatoio. Avevano ragione, quindi, coloro che la conobbero di chiamarla "donna di preghiera", "modello di preghiera".
La beata, tuttavia, non si limitò a onorare Dio con i propri esercizi di pietà, ma partecipò attivamente allo sviluppo della nascente chiesa malgascia. Nel 1876 fu eletta presidente della "Associazione della Vergine SS. per le donne sposate", fondata dal P. Ailloud, e poco dopo fece la sua solenne consacrazione a Maria Immacolata. Difese strenuamente la religione e le scuole cattoliche presso la corte e ottenne dalla regina, passata al protestantesimo, i relativi provvedimenti di libertà. Con l'efficace influsso che esercitò sul primo ministro, e con la somministrazione di generosi aiuti materiali contribuì molto alla costruzione di edifici sacri nei vari centri dell'isola, o alla conservazione di quelli già esistenti. Poiché disponeva di molti beni, imprestava denari ai ricchi e ai nobili non per cupidigia, ma per soccorrere oltre le chiese e i missionari, gli schiavi. i prigionieri, i poveri, i malati, i concubini e gli sposi separati. Tuttavia non si lasciò corrompere dal denaro o dai regali perché diceva che "il diritto non si può comperare".
Durante la guerra franco-hova (1883), i missionari francesi furono espulsi dal Madagascar, motivo per cui i cattolici si trovarono esposti a molte vessazioni. In quel tempo Vittoria si rivelò come la "vera colonna della Chiesa" per lo straordinario vigore con cui la protesse contro le mene dei protestanti e della regina Ranavalova III. Il P. Causseque SJ., con l'aiuto di giovani volonterosi, aveva fondato la "Unione Cattolica". La beata prese parte alle loro riunioni, li confortò, li consigliò e li mandò a visitare le comunità cattoliche sparse per le campagne perché le esortassero a rimanere salde nella fede. Sovente si faceva portare tra loro dagli schiavi in palanchino per distribuire aiuti ai bisognosi, fare il catechismo e assicurare tutti che i missionari un giorno sarebbero tornati. Ne sentiva la mancanza soprattutto per l'impossibilità di confessarsi e fare la comunione. Quando, a guerra finita, essi fecero effettivamente ritorno a Tananarive (1886), Vittoria ne pianse di gioia e continuò a mettersi al servizio del prossimo con molta umiltà, semplicità e generosità.
La beata non avrebbe voluto possedere degli schiavi, ma li accettò perché li aveva ereditati e perché la schiavitù in Africa non era ancora stata abolita. Ne teneva in casa e nelle sue terre, ma li chiamava "amici miei" e li trattava come figli. Con loro non disdegnava lavorare, conversare, camminare per le vie della città, prendere parte in chiesa alle funzioni religiose. Nessuno di loro fuggì dai suoi possedimenti anche se, qualche volta, fu costretta a riprenderne severamente alcuni perché incorreggibili o malvagi. Accarezzò l'idea di lasciarli alla Chiesa alla sua morte per impedire che cadessero in mano a padroni spietati.
Le condizioni fisiche di Vittoria, frattanto, da alcuni anni andavano deteriorandosi a causa di una emorragia vaginale trascurata forse per eccessivo pudore. Il 18-8-1894 al ritorno dalla cattedrale di Ambohipo, dove aveva fatto la comunione e seguito a piedi la processione del SS. Sacramento, la beata si mise a letto. Il male si aggravò subito tanto che, quattro giorni dopo, morì improvvisamente mentre sollevava la corona del rosario che teneva in mano ed esclamava: "Madre, madre, madre!".
Una folla enorme accorse dalle campagne e dalle città a rendere omaggio a colei che tutti consideravano "santa" e chiamavano "l'orante". I funerali si svolsero in forma solennissima come se si trattasse del seppellimento di una regina. Le spoglie mortali della defunta, per volere del governo, furono trasportate a Isotry e deposte nello splendido mausoleo che suo nonno, Rainiharo, aveva fatto costruire. Il 23-9-1961 le sue reliquie furono traslate nel cimitero di Ambohipo, e poste nel sepolcro dei missionari, come aveva desiderato in vita. Giovanni Paolo II ne riconobbe l'eroicità delle virtù il 14-5-1983 e la beatificò il 30-4-1989 ad Antananarivo (Madagascar) durante il suo 5° viaggio pastorale in Africa.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 228-234.
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