Di p. L. Taparelli d'Azeglio S.J. A cotesto assolutismo economico, del quale il Dunoyer censura bensì le prove, ma accetta e quasi rincalza le tesi, sembraci fare bel contrasto l'assennata temperanza del Du Mesnil; il quale vede benissimo la poca ragionevolezza di aforismi universali, introdotti sistematicamente in una scienza applicata, senza verun riguardo alle tante varietà relative della materia in cui s'introducono.
LA PIENA LIBERTÁ DEL COMMERCIO
«La Civiltà Cattolica», 1861, a. 12, Serie IV, vol. XII, pp. 540-556
Il commercio pienamente libero è in questo momento, dopo la politica (seppure non può dirsi politica anch'esso), la grande preoccupazione della Francia e dell'Inghilterra e per conseguenza dell'Europa. Il trattato di commercio fra le dette due Potenze, i varii interessi che s'incrociano all'applicazione, gli sforzi delle due dottrine contrarie per usufruttuarne le conseguenze, ogni cosa fa sì che il libero commercio va per tutte le bocche, e la nuova sua conquista mette a rovello mille intelletti.
In tal condizione di tempo, opportunissimo può riuscirci l'introdurre, quasi episodio del trattatello sopra la libertà economica, l'onorevole menzione di una memoria, presentata all'Istituto di Francia da un membro della Società di Economia Politica, M. I. Du Mesnil-Marigny, che offre la soluzione dei problemi tanto agitati di protezione e di libero cambio. E ci crediamo debitori all'Autore di onorevole menzione, non solo perché possiamo recarlo quale applicazione di alcune delle nostre teorie sopra la libertà economica, ma principalmente perché, valente economista qual egli ci sembra, pure ha saputo guardarsi da quella epidemia di assolutismo libertino, dal quale tanti altri si lasciano strascinare senza intendere ragione in contrario. Il Du Mesnil all'opposto tentando una conciliazione delle due sentenze, e introducendo acute distinzioni e nel concetto di ricchezza e nello scopo di chi ne chiede la libertà, procura di evitare quegli assolutismi di dottrina, secondo i quali la libertà dovrebbe credersi: per tutti i mali sociali una infallibile panacea.
L'ingegnere di ponti e strade M. Dupuit avea pubblicato, non ha gran tempo, sopra la libertà di commercio un volume, del quale il ch. Dunoyer rendea conto nel Journal des Économistes (Maggio 1861). Pretendeva egli dimostrare a tutto rigore, sempre essere un bene la libertà di commercio, sempre vantaggiosa a qualsivoglia paese, qualunque sia la capacità degli abitanti, l'abbondanza dei capitali, la ricchezza del suolo: coll'inceppare cotesta libertà condannarsi il popolo a lavorar più per ottener meno, sostituirsi il lavoro di mano al lavoro di mente, ritardarsi la civiltà, menomarsi nel paese non solo la potenza dell'industria, ma eziandio la politica (1).
A cotesto assolutismo economico, del quale il Dunoyer censura bensì le prove, ma accetta e quasi rincalza le tesi, sembraci fare bel contrasto l'assennata temperanza del Du Mesnil; il quale vede benissimo la poca ragionevolezza di aforismi universali, introdotti sistematicamente in una scienza applicata, senza verun riguardo alle tante varietà relative della materia in cui s'introducono. «Se si trattasse di guardare tutta la terra come un solo mercato e tutti gli uomini come concittadini d'una sola città, potrebbe forse concedersi, dice, che la piena libertà, effetto d'una piena giustizia ed uguaglianza, porterebbe al massimo grado l'agiatezza diffusa nell'universale. Ma coteste idee di filantropia umanitaria possono elleno seriamente promuoversi in un mondo qual è il presente, e in un'epoca specialmente, in cui la divisione delle nazionalità ravviva gli odii che pareano estinti e tutte arma le genti ad una guerra oramai imminente? In tal condizione dei popoli, se noi potessimo dimostrare che il sistema protettivo giova ad assicurarne l'indipendenza crescendone le forze e la potenza; ognuno comprenderebbe quale stoltezza sia sacrificare questi vantaggi nazionali per pareggiare in una ideale agiatezza i viventi e i nascituri di tutto il genere umano». (2)
Ora egli è indubitato, dice il Du Mesnil, che alla potenza dei popoli molto può contribuire in certi casi una savia applicazione del sistema protettivo: e a dimostrare questa proposizione è diretta la Memoria, la quale dividesi dall'Autore in due parti: nella prima egli riduce a termini più esatti del consueto l'idea di ricchezza nazionale; nella seconda inferisce da tali definizioni la dimostrazione del suo assunto. Noi seguiteremo l'autore passo passo, compendiandolo quanto sarà possibile compendiare una memoria, scritta con laconismo ed esattezza scientifica, rara ad incontrarsi in simili dissertazioni. Prima peraltro ci si permetta di mettere in rilievo l'attinenza delle dottrine del Du Mesnil colle nostre, mostrando come l'introduzione delle teorie del diritto nell'economia sociale conduca a risultamenti analoghi, e venga per conseguenza riconfermata dalle cifre dell'economia utilitaria.
Se avessimo dovuto risolvere il problema propostosi dal Du Mesnil coi principii da noi proposti parlando della libertà economica, quale sarebbe stato il nostro raziocinio? Ci domandate, avremmo risposto, se debbano abolirsi tutti i vincoli del commercio, affinché riesca uguale fra tutti i popoli l'agiatezza. Se cotesta uguaglianza fosse un rialzamento di tutti a quel grado supremo, al quale noi speriamo che abbiano ad innalzarsi i nostri connazionali, saremmo lietissimi di concorrere senza nostro danno al miglioramento universale di tutti. Ma se, per innalzare gli altri, avessimo a perdere un qualche grado di quel bene principalmente morale che forma la solida felicità delle nazioni; oh allora crederemmo di commettere un'ingiustizia comprando il bene degli stranieri col danno dei nostri prossimi. Certamente anche gli. stranieri hanno in quanto uomini qualche titolo di prossimità, almeno potenziale, verso di noi. Ma l'obbligo di praticare la carità scambievole mira primariamente a coloro, che stretti con noi attualmente in società civile, contribuiscono in favor nostro colla loro opera, secondo il tacito patto che lega tutti i consociati. Verso di questi noi siamo legati da dovere attuale di giustizia; verso il genere umano da dovere potenziale di carità; che allora solo ridurrebbesi in atto, quando per combinazioni provvidenziali fossimo posti cogli altri in relazioni reali. In tal diversità di condizioni non sarebbe solo ridicolo, ma sarebbe ingiusto sacrificare per sentimentalismo filantropico quel bene di cui andiamo debitori ai nostri concittadini, per crescere agiatezza agli stranieri, di cui neppure conosciamo l'esistenza. Se dunque un sistema protettivo bene applicato può vantaggiare i nostri connazionali crescendo alla nazione sicurezza e potenza, lasceremo le aspirazioni di libertà ai sistematici e promoveremo dal canto nostro quei provvedimenti protettivi, che verranno dimostrati utili al bene sociale dei concittadini.
Vede quindi il lettore come in molti casi i motivi di giustizia conducano a promuovere l'interesse dei concittadini a preferenza degli interessi umanitarii, per la ragione, già altra volta spiegata, che i consociati sono legati fra di loro più specialmente, rispetto a quei beni che formano l'obbietto proprio della loro associazione. E quale scopo più proprio dell'associazione nazionale, che la mutua sicurezza e la potenza di difendere i proprii interessi?
Così avremmo noi risoluto coi principii morali del diritto un problema che, risoluto coi principii veramente economici, non trova differente soluzione. Vediamo ora dunque in qual modo si dimostri dal Du Mesnil che il sistema protettivo può essere utile alla grandezza e potenza di uno Stato. Egli incomincia nella prima parte a chiarire il concetto di ricchezza nazionale, poco esattamente definito dagli antichi economisti, col determinare in modo più positivo e sicuro qual sia la vera misura della ricchezza. Misurare collo Stuart Mill, la ricchezza di una nazione «dalla somma delle utilità che possiede di valore permutabile» è, dice, inesatto, potendo la cosa stessa avere valori diversi in due popoli o vantaggiarli diversamente secondo la loro diversa industria. Misurarla dal valore dei prodotti lordi darebbe per risultato che, quando per carestia crescono smisuratamente i valori, un popolo dovrebbe dirsi più ricco che negli anni di abbondanza. Volete misurarla dalla rendita netta? Ne seguirà che se diminuite i salarii, riducendo alla miseria gli operai, più ricca dovrà dirsi la nazione. La direte voi ricca in ragione delle gravezze che paga? Il Piemonte ridotto al sommo dell'imponibile sarà la più ricca fra le nazioni italiane pure sull'orlo del fallimento.
Ma dunque come si misurerà la ricchezza di una nazione? La dimanda include equivoco; né potrà rettamente soddisfarsi se questo non si chiarisce. L'equivoco sta nel potersi l'interrogazione applicare pei popoli come per gl'individui o alla ricchezza d'uso, e alla ricchezza di cambio: a quella ricchezza utile che procura l'agiatezza privata, o a quella ricchezza permutabile d'onde sgorga la potenza relativa fra le nazioni. Dare nei due sensi una medesima risposta al quesito sarebbe erroneo: e però l'Autore incomincia dal determinare qual popolo debba dirsi ricco rispetto al primo senso, vale a dire rispetto alla ricchezza di uso; poiché dal ben definire la ricchezza d'uso si capirà senz'altro qual sia la ricchezza di cambio. Ora come determinare le relazioni di questa specie di ricchezza tra i varii popoli? La prima difficoltà sta nel trovare una unità di misura che a tutti confacciasi: e questa unità l'Autore la trova nel fine stesso degli averi materiali e del diritto di proprietà. Qual è il fine per cui la Provvidenza volle che l'uomo s'impossessasse della natura? La conservazione e gl'incrementi di ciascun individuo e con lui del genere umano: «crescete, moltiplicatevi e a tal fine impossessatevi del terreno e appropriatevene i frutti: crescite et multiplicamini et replete terram et subiicite eam et dominamini (Gen. I, 28). Se tale è il fine degli averi materiali, la quantità di questi naturalmente richiesta per ottenere quel fine potrà prendersi come unità di misura che l'Autore appella unità d'esistenza, o come noi diremmo italianamente, unità di sussistenza. Questa unità, come ognuno vede, varia notabilmente in una vasta estensione di terre; e sono molto maggiori bisogni della persona umana nell'umido e freddo clima dell'Inghilterra o della Svezia, che nel temperato della Liguria o della Provenza, nel caldo dell'Andalusia o della Sicilia, nell'ardente dell'India e della Ghinea. Scarsissimo vitto e un velo di pura decenza bastano, sotto le frondi di un palmeto, alle selvagge abitudini di un Indiano: molti elementi di agiatezza maggiore sono richiesti e dalle abitudini incivilite e dal clima più severo nell'Europa boreale: più salite verso Borea e più crescono le necessità di abiti caldi, di vitto nutritivo, di abitazioni ben riparate aggiunte dal clima, oltre quelle che dalle istituzioni, dalla religione, dal lusso, dalle tradizioni ecc. vengono sopraggiunte. In ciascuno dunque di questi climi o paesi è relativamente agli altri grandissima differenza, quando trattasi di valutare in moneta l'unità di sussistenza. E se, per cagion d'esempio, voi assegnate all'Inglese 300 franchi annui a testa, 200 basteranno al Francese, 100 allo Spagnuolo o al Siciliano, 60 o 70 all'Indiano o al Guineo. L'unità dunque di sussistenza sarà rappresentata da coteste cifre secondo i varii paesi. Ma se per la estensione dei paesi esse variano nelle grandi distanze geografiche, nei limiti più ristretti di uno Stato, di una Provincia, quelle cifre possono considerarsi, in un'epoca determinata, come universalmente identiche: e ve lo dice il fatto, come ben nota il Du Mesnil, poiché in ogni paese si determina con una certa esattezza il valore di sussistenza di un soldato nell'esercito, di un convittore nei collegi, di un giornaliero in una colonia di campagna: e appunto a questi dati statistici ricorre l'Autore per determinare l'unità di sussistenza rispetto alla Francia.
Premesse queste osservazioni, il lettore già avrà presentito come possa determinarsi la ricchezza di un individuo o di un popolo, riguardata in quanto principio di agiatezza. Stabilito p. e. che 100 franchi dieno la convenevole sussistenza ad un Italiano, quante volte sarà contenuta quella cifra nella rendita annua della persona, tanto ella sarà più ricca di quell'operaio, che nell'infimo grado della scala sociale guadagna per l'appunto col lavoro diurno il necessario al sostentamento. Volete ora paragonare la ricchezza della nazione italiana con quella della francese? Prendete il valore di tutte le rendite d'amendue; dividete la cifra delle rendite francesi per 250, e quella degli italiani per 150; poscia la cifra di ciascuna nazione pel numero delle rispettive popolazioni, e paragonando i due quozienti, avrete la proporzione della ricchezza di uso fra i due popoli, vale a dire della maggiore o minore diffusione dell'agiatezza in ciascuno di essi.
Supponiamo adesso che da questo primo calcolo risultasse parità perfetta nella ricchezza naturale delle due nazioni, in quella cioè che corrisponde al fine principale, per cui dall'Autore di natura furono donati all'uomo gli averi; credete voi che nell'estimazione comune le due nazioni saranno giudicate ugualmente ricche, e, in quanto all'ottenere ogni loro intendimento politico, ugualmente potenti? Ognuno risponde che no: la stima di ricchezza non dipende nell'universale dalla proporzione dei desiderii o bisogni colla soddisfazione ottenuta; ma sì dal vedere presso del ricco tal somma di valori permutabili che, oltre il suo sostentamento, egli possa soddisfare più o meno largamente le altre sue voglie: e da questa potenza di soddisfarle dipende in gran parte quella terribile potenza delle armi a cui tutto cede; e che risulta, dicea Federico II di Prussia, prima dal danaro, poi dal danaro e per ultimo finalmente dal danaro. Il che, se da quel gran capitano si dicea in quei tempi di tattica moderna quasi esordiente, quanto più sarà vero oggigiorno, dopochè gli stromenti sterminatori di guerra tanto crebbero di complicazione, di moltitudine e di prezzo, e venali divennero non più solamente spie dispregevoli e militi gregarii , ma perfino, e a decine, Capitani e Colonnelli, Generali e Ministri! La stima dunque di ricchezza e l'effetto di potenza politica dee misurarsi a tutt'altra ragione che la precedente. E la ragione tutta stà nei valori realmente permutabili, dei quali ciascuna nazione è in possesso. La qual somma risulta, osserva il Du Mesnil, 1° dai valori di tutti i capitali territoriali, industriali, mobili ecc.: 2° dal valore della rendita annua: 3° dai valori dell'annuo consumo che si debbono dedurre dalla somma dei due precedenti. Il risultamento di questi tre termini, rappresentato in cifra, dovrà poi dividersi, come prima abbiamo fatto, per la cifra della popolazione rispettiva, se si vorranno mettere a confronto le ricchezze dei due paesi, rispetto a questo secondo intendimento.
Tali sono, dice l'Autore, gli elementi con cui può calcolarsi la ricchezza dei popoli; e che applicandoli sotto il doppio suo aspetto sciolgono agevolmente quistioni altrimenti intricatissime: come egli dimostra nella seconda parte, facendone l'applicazione alla quistione del libero cambio.
Sapete voi, dice, perché tanto si quistiona or sostenendo, or negando i vantaggi della libertà assoluta? Perché i lodatori mirano alla dovizia di uso: e sotto tale aspetto e badando non a questo Stato particolare o a quell'altro, non a questa condizione di tempo o a quell'altra, ma a tutto il genere umano, e supponendo costante la prosperità dei tempi, non può negarsi vantaggiosa la libertà pienissima.
Ma parlando di economia sociale, e per conseguenza parlando ai governanti, che rispetto agli averi debbono coordinare a pubblico bene l'opera dei loro proprii sudditi, ei non sarebbe punto tollerabile chi così prendesse ad apostrofare il principe: «Sire, voi dovete far sì che tutti i sudditi da voi dipendenti concordemente cospirino per procacciarsi scambievolmente il comun bene civile e politico, che si riduce in sostanza a conseguire con sicurezza ed agiatezza l'esterna attuazione dell'ordine morale. Sacrificate dunque la potenza e indipendenza che potreste ottenere col sistema protettivo per la società da voi governata, affinché le altre nazioni, a cui nulla particolarmente dovete voi coi vostri sudditi, godano tutte maggiore agiatezza». Chi non vede l'assurdità di tal conseguenza? Chi non vede l'ingiustizia del togliere ai consociati una parte di quel bene, di cui scambievolmente sono debitori, per distribuirlo a genti non vincolate da alcuna comunanza di relazioni e d'interesse? Tutto stà che l'Autore dimostri il suo assunto, potere cioè il sistema protettivo crescere potenza ed indipendenza ad una nazione, aumentandone la ricchezza permutabile.
A tal uopo egli incomincia dall'osservare, correre talora immenso divario fra il lavoro richiesto a produrre due merci di ugual prezzo; e il lavoro stesso nei diversi mestieri essere retribuito molto disugualmente. Un gioielliere guadagnerà 30 franchi, quando 4 né guadagnerà il tessitore e uno solo forse l'agricoltore: il quale ultimo mestiere è, dice, il più scarsamente retribuito di tutti, benché forse il più faticoso (3).
Or supponete per maggiore evidenza e semplicità due popoli, l'uno interamente occupato all'agricoltura, l'altro interamente all'industria; supponete eguale anche la popolazione. Mettiamo i due popoli in piena libertà di commercio: essi cambieranno i rispellivi prodotti a proporzione degli stipendii dati ai produttori. Or presa la media dei produttori industri e diffalcandone ancora una sesta parte pel poco numero dei prodotti più preziosi che entreranno in commercio; voi troverete che il popolo industre guadagnerà in moneta cinque tanti di ciò che guadagna l'agricoltore, perché il guadagno di chi attende all'industria è cinque volte maggiore di chi attende all'agricoltura. Potrà certo il primo consumare più di questo secondo: ma per poco ch'esso voglia economizzare e tesoreggiare per ambizione di potenza, nulla può vietargli di riserbarsi sui guadagni due o tre tanti di ciò che potrebbe serbare il popolo agricoltore. Or questa ricchezza sopravanzante allo stretto bisogno di sussistenza è quella appunto che fornisce i mezzi di potenza e specialmente militare. Dunque la libertà del commercio, secondo la diversa industria in cui s'impegnano i popoli, può produrre o aumento o diminuzione di potenza. Tanto più che, se le somme sopravvanzanti non si riservano per le spese pubbliche, ma entrano in commercio a crescere l'agiatezza, come ognuno sa, questa dà campo all'aumento della popolazione, nella quale consiste il secondo elemento di potenza, che, con pace del gran capitano Federico, vorremmo dire il primo.
Altre osservazioni aggiunge l'autore, facendone poscia l'applicazione anche ad una nazione che dividesse le sue cure fra l'officina e la campagna; e mostrando con prove analoghe, come anche questa debba arricchire a preferenza di quella che tutta suda sull'aratro. Non ci distenderemo nell'esporre queste considerazioni: dando luogo soltanto all'ultima, ove dall'Autore si nota, che sotto il governo del libero cambio riuscirà sempre difficilissimo che s'introduca l'industria, specialmente nel modo col quale ella fiorisce nelle più inoltrate società del mondo moderno.
Venga ora il moderno Colbert ed ai confini alzi delle barriere in favore di un'industria novella, la quale occupi direttamente o indirettamente una certa parte di quei campagnuoli, addetti prima a produrre cereali, e i cui prodotti si possono tutti consumare, mercé della protezione loro conceduta, senza temere la fatale concorrenza della prevalente industria di un popolo rivale. Questa porzione di agricoltori divenuti industriosi sia, dopo il corso di qualche tempo, la decima parte dell'intera popolazione, che si supponga comporsi di dieci milioni d'individui. Quale sarà l'aumento della ricchezza pubblica nazionale? Calcoliamolo colle cifre che ci son porte dalle statistiche più accurate.
Le mercanzie fabbricate da questo milione d'individui nel corso di un anno possono essere rappresentate almeno da 1200 milioni di franchi; essendo appunto 1200 franchi il valor medio dell'industria d'un solo individuo. Or di questi 1200 milioni, 600 milioni rientrano nei capitali impiegati, e nella mano d'opera, e gli altri 600 milioni costituiscono il prodotto reale ed effettivo dell'industria. Ecco un primo aumento della ricchezza nazionale, prodotto dalla protezione. A lato a questo primo aumento ve ne sarà un secondo. Il prodotto agricolo scemerà è vero, d'un decimo, essendo appunto d'un decimo scemate le braccia occupate all'agricoltura. Ma se il prodotto della terra è scemato d'una decima parte, il prezzo delle altre nove parti si sarà elevato, come l'esperienza generale e costante lo dimostra (4), di sei decimi almeno sopra la tassa ordinaria; ciò che scambia in aumento di valore di cinque decimi ciò che era una diminuzione di prodotto. Ecco dunque un secondo elemento di accresciuta ricchezza nella popolazione, per effetto della protezione conceduta all'industria.
Il consumo però non rimane qual era innanzi: poiché essendo il valore dei prodotti agricoli aumentato di sei decimi, bisogna sottrarre quest'aumento di spesa necessaria al sostentamento della popolazione, da quei due aumenti di valore sopravvenuti. Or questo aumento di spesa non è tale che distrugga in modo sensibile l'accrescimento d'entrata, conseguito dall'industria avvivata: lo diminuisce bensì, ma assai lievemente. Vediamolo colla luce delle cifre nel seguente calcolo particolareggiato.
SISTEMA DEL LIBERO SCAMBIO
Per una popolazione di 10 milioni tutti agricoltori.
Prodotto, calcolato in grano, di sessanta milioni di ettolitri al prezzo di 10 fr. per ettolitro … fr. 600.000.000
Pel sostentamento della popolazione bisognano soli 55 milioni d'etto litri…550.000.000
Prodotto esuberante, che costituisce la riserva…
50.000.000
SISTEMA DELLA PROTEZIONE
Per una popolazione di 9 milioni di agricoltori, 1 milione d'industriosi.
Prodotto della terra, calcolato in grano, scemato di un decimo da quel di prima, cioè di 54 milioni di ettolitri, ma divenuto del valore di 16 fr. …864.000.000
Prodotto dell'industria manifatturiera…600.000.000
Totale dei due prodotti. 1.464.000.000
Consumo, pel sostentamento della popolazione, di 55 milioni di ettolitri, del valore di 16 fr. ciascuno….880.000.000
Prodotto esuberante che costituisce la riserva. …584.000.000
Eccovi dunque come il sistema del libero scambio non dà ad una nazione d'agricoltori che una riserva di soli 50 milioni; nell'atto che il sistema della protezione le dà una riserva di 584 milioni. Più il numero dei suoi manifattori aumenta sotto il sistema della protezione, più essa arricchisce; finché giunta a divenire tutta o quasi tutta manufatturiera non ha bisogno di protezione; anzi nella libertà piena degli scambii trova la miglior condizione della sua prosperità.
L'ultima conclusione del ch. Du Mesnil si riduce, come vedete, ad un calcolo di interesse in favore dei popoli ambiziosi. «Voi, dice egli in sostanza ai popoli, voi pei tempi e per le opinioni che corrono, vi siete scaldato il cervello colla smania di grandeggiare. A tal uopo utile potrebb'esservi il sistema di protezione, e solo all'Inghilterra, lavoratrice senza pari, può giovare la libertà del commercio. Dunque non vi lasciate gabbare da una pretesa filantropia a procacciare con un tal sacrifizio un'agiatezza ideale a tutti i popoli della terra, poiché questo vi farebbe perdere la vostra preponderanza, ed umilierebbe il vostro orgoglio.» Questo raziocinio, come vedete, è interamente fondato sulla passione dell'ambizione e sul principio utilitario: ed appunto per questo offre l'elsa della spada in mano ai filantropi, i quali possono giostrare con vantaggio, specialmente parlando agli animi generosi, e ricordando ai cristiani la carità del prossimo.
Ma ponno eglino ottenere vantaggio uguale contro chi discorre coi principii dell'ordine e della giustizia? I nostri lettori già hanno potuto valutare la tutt'altra forza che acquista il diritto d'ingrandimento, quando, prendendo la società qual ella è veramente in natura, quel preteso diritto dell'ambizione si trasforma in dovere di giustizia e di carità cittadina. Allora se venga il filantropo a perorare pel genere umano, il principe, qualunque egli sia (monarca, senato, consiglio supremo ecc.), troverà ugualmente facile e generosa la risposta. «Cotesto vostro comunismo internazionale che pretende istituire fra tutti i popoli l'equipartita agiatezza, andatelo a predicare a chi non conosce la santità della giustizia e l'ordine della carità. Dal canto nostro sappiamo benissimo che quando o pochi o molti furono, o dalla Provvidenza o dalla propria volontà, riuniti a sociale convivenza, essi si costituirono obbligati scambievolmente a corrispondere coll'altrettanto ai buoni officii di tutti i loro consociati. Sappiamo che l'ordine della carità ci obbliga a volere per essi quel bene specialmente, pel quale fra noi ci riunimmo. Se dunque al genere umano dobbiamo desiderare generalmente ogni bene, ai consociati con noi pel bene civile siamo debitori principalmente dell'opera nostra pel conseguimento dei beni civili. Sarebbe dunque contrario ugualmente e alla giustizia e alla carità patria scemare la sicurezza dei nostri concittadini contro gli assalti e la prepotenza che da ogni parte minacciano; scemando così anche la probabilità che sia salvo l'ordine, quel supremo bene indispensabile di ogni civile società: e perché? Perché il rimanente del genere umano, con cui non abbiamo alcuna speciale attinenza, risparmi qualche centesimo nella compra d'alcune derrate. Oibò, oibò! Il compenso non sarebbe uguale alla perdita; né uguale è in noi il debito verso gli stranieri e verso i concittadini. Voi dunque, sotto le apparenze di generosità e di filantropia, ci chiedete la violazione della giustizia e della carità cittadina.»
Ed è questa, crediamo noi, l'intima ragione di quel malumore che nel ceto industre e commerciale fu eccitato in Francia dall'ultimo trattato di commercio coll'Inghilterra, riuscito sì disastroso agli interessi del commercio francese. Hanno bel predicare gli umanitarii; l'ordine della giustizia e della carità, come tutte le altre idee di ordine, è innestato nel cuore dell'uomo dalla natura; e si fa sentire con un certo confuso istinto anche da coloro che non sanno renderne esplicitamente ragione. Ognuno sente che ai concittadini ci lega per giustizia il continuo ricambio di utili servigi; ci lega per carità l'attuale relazione di prossimi, la quale mette in atto i doveri di amore scambievole che coi lontani sono solamente impotenti. Con tale intimo sentimento il vedere pareggiati concittadini e stranieri comparisce violazione di giustizia e di carità, e non può a meno che non dia al rammarico e al risentimento quel carattere di ragionevolezza, che tanto ingagliardisce i risentimenti dell'interesse, Certamente anche solo l'esser toccato nella borsa è grave rammarico por le anime volgari della moltitudine. Ma la veggiamo acconciarsi senza far motto in mille altre occasioni di gravezze.
Ed a questo argomento appunto ricorse l'ammiraglio Romain-des-Fosses nell'applaudito suo rapporto intorno alla proposta di legge, che doveva scemare la protezione alla pescagione francese. Avvertite, diceva il relatore, che questa legge, commerciale in apparenza, può decidere delle sorti politiche di Francia: la quale intanto può gareggiare colla Gran Bretagna in quanto serba un dominio sul mare. Ma il serbare questo dominio dipende dalla gagliardia, non tanto dei legni, che col danaro sempre si ottengono, quanto delle cerne militari, che mai non saranno numerose e audaci in mare se non si formano nella fortunosa e arrischiata carriera della pesca; ove il garzoncello, appena comincia, per così dire, a reggersi in piè, incomincia su piccoli burchielli a sfidare le onde e a cozzare colle bufere: Togliete a cotesta professione i vantaggi ch'ella gode, ne scemerete il numero. Or se il numero presente appena basta per fornire uomini alla attuale marineria di Francia, scemato quel numero, come provvederete i nuovi navigli con cui l'andate aumentando? La legge dunque sulla pesca è per la Francia una deliberazione, non di guadagno, ma di potenza e d'indipendenza nazionale. E gran pro sarebbe invero ch'ella potesse mangiar le sardelle a miglior mercato, se così comprar dovesse l'umiliazione d'inchinarsi alla sua rivale.
Tale fu in sentenza la precipua ragione del valente ammiraglio: la quale se non giunse a vincere la causa, mostrò almeno qual forza aver possano in materie economiche, contro le ragioni di lucro, gli argomenti di politica nazionale.
Quest'argomento che da lui e dal Du Mesnil viene applicato soltanto agl'interessi di ricchezza e di potenza, non è chi non veda potersi applicare a qualsivoglia grave interesse dei popoli. Così, per cagion d'esempio, potrebbe ribattersi la proposta di libero commercio librario, caldeggiata, come altrove narrammo, nel congresso di Bruxelles intorno alla proprietà letteraria. Parlando della quale, certi economisti peroravano caldamente in favore del libero commercio dei libri, cui riguardavano come sorgente pei popoli di molta ricchezza.
Ma un popolo che preferisce le ricchezze morali alle materiali; un popolo che avesse udito nella tornata del corpo legislativo di Francia l'eloquente e talora anche savia perorazione del Ministro Billault, contro la licenza della stampa: «No, risponderebbe agli economisti, per diffondere fra i librai stranieri un po' più d'agiatezza, fra i letterati stranieri un po' più di curiosità, io non voglio aprire ai miei concittadini una fonte di veleno per l'anima e di discordia per la società». E lo stesso a un dipresso potrebbe rispondere ragionevolmente il Tirolo a chi pretendesse mostrargli con cifre economistiche l'aumento che prenderà il valore dei fondi rustici, tostochè si permetta ai protestanti di far concorrenza ai cattolici nell'acquisto delle terre. «Che m'importa, potrebbe rispondere il proprietario cattolico, che il capitale da me investito in quei fondi cresca di valore, se a tal prezzo debbo pagare la diminuzione della pietà e della fede, l'unità e la quiete del culto divino, e la pace e concordia domestica per me, per la mia sposa, pei figli?»
Il che se ragionevolmente direbbesi, e in quest'ultimo caso e nei precedenti, da proprietarii cattolici; se cotesta loro rimostranza altro non sarebbe per essi, se non l'adempimento di un dovere di coscienza; non è chi non veda, come la protezione conceduta a seconda di cotesti richiami, mediante un analogo sistema proibitivo, lungi dall'essere una violazione di giusta libertà economica, ne sarebbe anzi una tutela, una difesa; poiché concederebbe ai sudditi (che volontariamente lo chiedono) il libero uso dei loro averi, subordinato a quei supremi doveri morali, pel cui adempimento i beni materiali ci furono conceduti dalla Provvidenza.
Queste speciali applicazioni dimostrano come la ragione, arrecata dal Du Mesnil in favore del sistema protettivo, quando favorisce l'ambizione di grandezza e di potenza, può ragionevolmente applicarsi a mille altri casi, nei quali un bene di ordine superiore può richiedere che si rinunzii a quei vantaggi materiali, che la libertà del commercio procacciare potrebbe a tutto il genere umano.
Veggiamo benissimo che la filantropia potrebbe forse immaginarsi di ritorcere contro di noi l'argomento, pretendendo quasi di giustificare la grettezza di certe leggi Tanucciane o Leopoldine, che dell'amor patrio si armavano per formare un clero indigeno e impedire l'eroismo di quello spirito cattolico, che spinge sì generosamente tanti uomini apostolici dal seno delle loro famiglie, dai convitti ecclesiastici, dai chiostri religiosi alla arrischiata impresa di inalberar la Croce fra popoli selvaggi e sconosciuti. «E che? potrebbe dirci la filantropia, se debitori siamo prima ai concittadini, né a questi possiamo togliere per dare agli stranieri; come mai cessa questa ragione ad un tratto, quando il missionario priva i suoi concittadini dell'assistenza religiosa per recarne a sconosciute genti il tesoro inestimabile»?
Ma ogni lettore vede a prima giunta l'insufficienza della ritorsione. Se si mira al bene di cui trattasi, il bene recato alle nazioni remote non è il buon mercato delle merci o l'agiatezza del vivere, ma è la cognizione del vero Dio e la salvezza eterna: i concittadini, tra i quali il clero fornisce a dovizia mezzi di salute, nulla perdono di essenziale e molto guadagnano per l'esempio e pel merito, inviando alcuno dei loro alla grande opera di illuminare le genti. E poiché la Provvidenza è larga sempre verso chi si mostra generoso con lei, noi veggiamo la spedizione dei missionarii riuscire vantaggiosa per lo più, anche temporalmente, a quei popoli cattolici che maggiormente contribuiscono nel diffondere e sostenere fra barbari la diffusione del Vangelo: tantoché molte volte gli scrittori francesi di questi vantaggi politici si valgono per ispronare il loro Governo a farsi protettore dei missionarii fra le barbare genti. È questa l'indole del bene morale, che può diffondersi all'infinito, non solo senza esaurimento, ma con nuovi incrementi della polla onde sgorga il rivo.
Ma a tutte queste risposte un'altra dobbiamo aggiungerne, la quale nel caso nostro recide fin dalla radice ogni difficoltà, togliendo ai popoli barbari quella nota appunto, sulla quale tutto l'argomento si fonda. Rispetto ad una società che tutte abbraccia virtualmente le genti, non vi è più, come dicea l'Apostolo, né Greco, né barbaro: il Vangelo stabilisce una intima relazione fra il centro del cattolicismo e il punto più remoto della periferia; relazione tutta morale se volete, ma non per questo meno urgente e gagliarda. E qual relazione potreste voi immaginare più intima di quel sentimento filiale, per cui un fedele manifesta al Capo della Chiesa le piaghe più umilianti della coscienza, i bisogni più urgenti dell'anima, i dubbii sopra la sua condotta morale e tutti insomma i segreti più reconditi del proprio cuore? Quella ragione adunque che nella società umana separa le une dalle altre le nazioni, quella appunto stabilisce fra esse nella Chiesa cattolica una intima relazione: e il bene in cui la società cattolica comunica, bene universalissimo ed infinito, lungi dall'esigere che le altre genti ne sieno escluse, esige all'opposto che tutte sieno invitate, e fummo per dire astrette, a parteciparne. E quanto più cresce per opera dell'una la partecipazione delle altre, tanto maggiormente, e temporalmente, e spiritualmente si vantaggia la prima.
Ed ecco come il Cattolicismo forma una filantropia ragionevole e prepara colla reale opera dello zelo quella diffusione universale del bene civile, che i filantropi umanitarii sognano idealmente sul loro canapè e descrivono allo scrittoio nelle loro pagine sentimentali. Questa universale diffusione della civiltà favorisce, per riguardo al bene morale, quella universalità, che si contiene nel nome stesso di Chiesa cattolica; lasciando frattanto sussistere, rispetto ai beni materiali, quella distinzione di popoli o nazioni diverse, e quelle varie obbligazioni di giustizia e carità, che sotto tale aspetto possono prescrivere a ciascun principe in bene dei rispettivi suoi sudditi varii ordinamenti o di libertà o di protezione commerciale.
NOTE
1) Journal des Économistes, Maggio 1851, pag. 275.
2) Ivi
3) Ecco la statistica degli annui salarii tratta dai documenti autentici della statistica francese.
Guadagno annuo a testa in franchi:
1852. Agricoltori…250
1851. Tessitori…600
1856. Fabbricanti di cotone…632
1847. Lanificio…1000
1852. Carbon fossile…1300
1852. Setaiuoli…2460
1854. Orefici e gioiellieri…4300
4) Vedi Iooke nella sua Storia dei prezzi.