“Fustel de Coulanges rileva che nell\’Europa medioevale, alla affrancazione della stessa servitù della gleba (pur tanto differente per condizioni morali ed effetti sociali dall\’obbrobriosa schiavitù) non sarebbero bastate né le paure dei signori feudali, né la generosità calcolata delle monarchie, né gl\’interessi civili ed economici dei comuni alleati alle moltitudini servili, se ad un certo momento, sotto l\’ispirazione d\’alto senso di cristiana giustizia, un entusiasmo universale non avesse pervaso tutti gli ordini civili in pro della libertà personale dei volghi campestri. Qui una delle ragioni che profondamente distinguono quei tempi dai nostri”.
Le virtù cristiane e la sociologia
A proposito di un libro recente del card. Capecelatro
(in Riv. Intern. di scienz. soc. e discipline ausiliarie, Roma 1898, v. XVIII, pp. 395-409)
Adempiamo (non senza rammarico per l\’indugio) a un dovere onorifico e caro, esponendo qualche semplice giudizio e pensiero intorno ad un nuovo saggio della dotta operosità di S. Em. il card. Capecelatro; onorifico, perché ci sembra ridondi sopra di chi scrive l\’onore che il critico modesto e sincero tributa ad uomo degno, e in questo caso a persona che all\’altissima dignità aggiunge l\’unico fascino non ancora dissipato dell\’eletto sapere; caro, perché l\’argomento del libro Le virtù cristiane, (1) che ad altri potrà parere ascetico o teologico, ci porta nel cuore delle scienze sociali, cui è dedicata la nostra rivista. (2)
Ed è veramente così. Il positivismo che sebbene volto al tramonto perdura a prendere per punto esclusivo di partenza e di arrivo il fatto positivo, ad osteggiare la legittimità e il valore delle idee speculative e la stessa ultima forma di esso, il materialismo storico, che nel mondo della ricchezza materiale pretende intravedere il movente o la genesi di tutta la civiltà, incontra ogni giorno più tali dubbi, obiezioni e contraddizioni nella medesima osservazione e critica positiva, da risospingere per felice reazione il pensiero odierno verso l\’antica formula: che le idee reggono i fatti; vale a dire che questi ultimi, comunque abbiano una efficacia occasionale sulle umane concezioni, tuttavia rimangono sotto il governo delle supreme idee direttive e finali.
E allora nessuno, mercé la stessa osservazione storica, vorrà negare che nell\’ordine delle idee che signoreggiano l\’umanità vi sia pure la fede, a cui gli uomini aderiscono facendola patrimonio proprio, e del pari la morale, cioè una serie di precetti autorevoli di condotta pratica, cui corrisponde una somma di virtù per adempirli.
Duplice ordine d\’idee intorno a ciò che si deve credere (fede) e a ciò che si deve analogamente operare (morale), che ha una comune giustificazione; e fra cui pertanto intercede un nesso intimo razionalmente e storicamente dimostrato.
Invero la fede riesce oggi e riuscì a dare a tutte le generazioni nei secoli una risposta soddisfacente ai problemi più ardui dell\’umanità: donde deriviamo noi? Quale è la ragione del vivere? Perché tanta guerra in noi e intorno a noi? Perché il dolore? Quali i destini nostri nell\’altro mondo? Sono queste le perenni domande, dietro la cui scorta anche in questi giorni F. Coppée, il geniale letterato francese, trovavasi ricondotto entro le benedette soglie del santuario. Ma la fede stessa fa qualche cosa di più, essa ci da moto, essa c\’imprime cioè l\’impulso e la direzione dell\’operare. Se la fede, infatti, ci addita un\’autorità sovrannaturale imperante e i fini ultramondani delle esistenze, perché non opereremo di conformità? La fede diviene allora la fonte della morale e la ragione di tutte le virtù. Ed eccoci nel cuore della condotta pratica degli uomini, come dimostra l\’A. con larghezza di vedute e venustà di forma.
Anzi (giusta il suo avvertimento) questa unione intima della religione con l\’etica è tutta propria del cristianesimo, penetrando così a fondo tutta la civiltà da lui dipartita. «Il cristianesimo armonizzò in modo strettissimo la vita religiosa e la vita morale dell\’uomo. Codesta unione delle due mirabili vie nella paganità fu nulla o quasi. Nella religione, poi, data da Dio agli israeliti, non mancò, ma non raggiunse mai la profondità e la universalità che ha presso le genti cristiane. Ora questa unione così nobile e così ricca di armonie in se stessa riuscì di grandissima efficacia in tutta la storia della cristianità». Donde, conclude, il fruttificare o l\’isterilirsi della civiltà derivò in massima parte dal tener salda o no questa unione nel pensiero, negli affetti, nella vita.
Così viene a cadere da sé quella veduta angusta, tramutata per i più in cieco pregiudizio, il quale è arma agl\’increduli contro i credenti, che cioè le virtù ispirate dalla religione, e massimamente quelle che hanno nome speciale di virtù teologali, «sieno fantasmi o sogni di asceti, senza fondamento nella natura umana» e senza efficacia pratica. Mille volte no, esclama l\’A.; esse rispondono ai bisogni dell\’uomo, e quindi divengono fattori di vita sociale-civile.
Ed invero, a noi sembra che se l\’odierna scienza o meglio storia delle religioni comparate, fosse dettata con sodezza e serenità d\’indagini positive, ponendo criticamente a raffronto non solo i dogmi (e le pseudocredenze) dei vari culti, ma ancora la loro morale, e questa considerando nel duplice aspetto negativo (il peccato) e positivo (le virtù), ne risulterebbe luminosamente questo vero induttivo: che avuto riguardo agli effetti stessi esercitati sulla civiltà, la sola morale cattolica presenta caratteri di eccellenza da attestare la sua origine divina; e che la vera ed unica civiltà duratura e progressiva è figlia della morale cristiana.
Ciò che si dice dell\’etica cristiana in genere può dirsi delle singole virtù che essa educa e alimenta.
Ed è questo il pensiero che sorge, ci accompagna e quasi ci perseguita nella esposizione che l\’A. fa delle varie classi di virtù – le teologali, – quelle cardinali – e quelle altre che sotto il nome di beatitudini stanno riassunte nel sublime sermone della montagna. Esposizione che in questo libro trovasi attinta alle pure fonti della teologia morale positiva, ma compendiata e accomodata a servizio della comune cultura, e degna veramente di ridivenirne, fra tanta deplorevole trascuranza, una parte integrante; soprattutto quando la morale cristiana si consideri, come qui, nei suoi concetti essenziali, nella sua derivazione dal vero religioso e anche razionale e ancora nella sua rispondenza coi più legittimi sentimenti umani, e col benessere terreno dell\’umana famiglia peregrinante verso l\’eterna felicità. Quali orizzonti inattesi ed immensi qui si disegnano alla mente attonita del pensatore, quale luce celestiale piove da una regione superiore ad illuminare i più foschi problemi razionali e pratici della. vita, quale incanto di armonie sorge dal complesso di queste considerazioni a sopire stridenti contraddizioni del pensiero e del cuore, quali profumi olezzano d\’intorno a temperare e correggere il disgusto di una esistenza di caligine e di pugne! Può ripetersi della morale positiva rivelata cristiana ciò che fu detto della fede: essa non invade il dominio di un\’etica razionale, come appunto la fede non esclude un ordine di verità speculative, anzi lo suppone e vi si appoggia; ma tuttavolta quella e questa rappresentano pur sempre due ali vigorosissime per levarsi in alto e spaziare per i campi del pensiero e dell\’azione umana e penetrarne le recondite ragioni. Quanto angusta e vacillante al paragone una sociologia che si priva di que\’ presidi estrinseci bensì, ma cotanto preziosi all\’indagine dei fatti umani! A dimostrare questo asserto bisognerebbe riprodurre gran parte del libro che abbiamo sott\’occhio e aggiungerne un altro ad illustrare tutte le deduzioni sociali, ivi accennate in germe. Non vi ha una sola delle virtù cristiane che di profondi ammaestramenti sociali non apparisca ricca e feconda.
Ben lo comprese s. Agostino quando, scrive l\’A., discorrendo della carità, di questa massima virtù teologale, che racchiude tutta la legge, scriveva: «amor Dei et proximi, hic ethica, hic logica, hic phisica, hic totae reipublicae salus»; soggiungendo altrove: «duas civitates duo faciunt amores, Jerusalem facit amor Dei, Babyloniam facit amor saeculi». E noi tosto possiamo ritrarne che dalla carità deriva tutto l\’ordine sociale, e ancora da essa sgorga tutta la legge del progresso sociale, cioè dell\’incivilimento.
Ed invero che cosa è ordine se non il risultamento della cospirazione di tutti gli enti e delle rispettive energie al fine conforme alla loro natura, nel quale è il bene? E appunto (soggiunge l\’A.) amore è tendenza al bene, e in questo senso tutto l\’universo ama; e l\’ordine universale è convergenza di tutte le tendenze al bene rispettivo e quindi alla gerarchia dei loro fini che si appuntano in Dio, bene assoluto, fine supremo, che a tutti gli altri dà unità ed armonia. Così l\’amore di Dio è la ragione dell\’ordine, è l\’unica spiegazione sufficiente di esso, sia nel cosmo in genere, sia nei rapporti umano-sociali in ispecie. E viceversa, tutto ciò che disturba la graduazione degli amori, ossia delle tendenze finali degli esseri gerarchicamente conversi a Dio, è disordine. D\’altra parte questo amore (riprende l\’A.), o tendenza al bene nell\’uomo, è libero, cioè senza intrinseca necessità, e quindi tendenza liberamente riconosciuta, voluta, tradotta in atto; divenendo così il principio di tutta la vita morale e quindi di tutte le virtù per l\’attuazione dell\’ordine e per la rimozione del disordine. E che cosa, soggiungiamo, è infatti l\’incivilimento, se non un libero, virtuoso e progressivo trionfo delle tendenze al bene che finiscono in Dio (amor Dei), sopra le tendenze al male, cioè al falso bene (amor saeculi), che da Dio ci dilungano e a Dio si oppongono?
Non vi ha qui una spiegazione di quel sistema di tendenze generali e costanti da cui la scienza moderna sociologica vuol far scaturire l\’ordine sociale; di quella veduta comprensiva e finale di tutto l\’universo nella sua sintesi armonica («Weltanschaung») in cui si ricerca quale posto spetti all\’uomo ed alla umanità; di quella legge del progresso civile, che si raffigura come una lotta e insieme un perfezionamento? Ma quanto più soddisfacente spiegazione, che non quella di una legge materialistica della conservazione delle energie (forze), di un monismo evolutivo, di una lotta cieca per la esistenza e per la trasformazione degli esseri? Per lo scienziato cristiano l\’amore di Dio insomma, è la ragione di tutta la convivenza sociale, di tutta la legge di libertà, di tutta la filosofia della storia. Non si può pur pensare più alta veduta della sociologia.
Similmente può dirsi dell\’amor del prossimo, il quale importa (per seguire sempre il concetto dell\’A.) la spontanea comunicazione universale dei beni morali e degli stessi materiali fra gli uomini per amore di Dio; e «come tale basterebbe esso solo a sciogliere tanti problemi della vita dei popoli». Ma basterebbe del pari, si domanda, a sciogliere questi problemi l\’altruismo come fatto naturale quale è considerato da Spencer ? E una sociologia positiva, ricercando i fattori del progresso civile, può prescindere da tal concetto sovrannaturale-cristiano, cotanto diverso dall\’altruismo, e che l\’antichità nemmeno sospettò; il quale, trapassando nella coscienza dell\’umanità redenta, la munì di una virtù (come è detto dall\’A.) di assimilazione, che partecipa della immensità e onnipotenza di Dio? La carità cristiana del prossimo, che ci induce ad amare gli uomini «per Iddio e come li ha amati e li ama Dio», è una nozione, un precetto, un fatto reale e operativo, che con storica verità Gesù Cristo disse comandamento nuovo, «perché da secoli dimenticato e perché da lui elevato a novella e maggior perfezione». E invero senza la carità non si comprenderebbe la trasformazione profonda e la vitalità indefinita delle società cristiane al paragone delle società pagane, già dalle origini corrotte e moriture.
Trapassando con l\’A. alle virtù che con nome tradizionale s\’intitolano cardinali, niuno contesterà che queste non abbiano carattere di virtù naturali e che non sieno state pregiate dalla paganità. Ma perché il cristianesimo le tolse dalla buona filosofia antica, sarebbe errore il credere che esse non ne varcassero i confini. Anche qui la evoluzione (sit venia verbo), pur uscendo dallo stesso germe, fu così originale e rigogliosa da sembrare una palingenesi.
E così, per toccare di volo alcune remote correlazioni, la storia delle dottrine economiche, oggi con tanta erudizione dettata, chiarisce, p. e., che dall\’analisi speculativa della prudenza come virtù che insegna a proporzionare in ogni atto umano i mezzi al fine, gli scolastici seppero ritrarre la legge suprema dell\’economia, quella del massimo effetto utile col minimo dispendio di forze; e scorsero in essa un riflesso della legge provvidenziale dell\’universo, per la quale Iddio assicura con meravigliosa semplicità di forze i grandiosi e costanti effetti dell\’armonia cosmica, ben prima che Galileo la intitolasse legge del minimo mezzo e che gli economisti moderni la riponessero come cardine della dottrina scientifica dell\’utile materiale. Del pari essi, nell\’analisi speculativa e nell\’esercizio di questa virtù, posero le fondamenta della scienza e dell\’arte di governare le società e gli Stati, ben altrimenti che in una subdola e artificiosa ragione di Stato o in un grossolano opportunismo; sicché il Bossuet più tardi definì la politica, l\’applicazione della morale al pubblico reggimento. E similmente vale per l\’altra virtù della giustizia. Avrebbe un concetto ben superficiale della storia del diritto chi affermasse il cristianesimo non aver nulla aggiunto di nuovo alla vasta e sottile elaborazione del giure romano. Può dirsi con più verità (è un pensiero del Capecelatro) che il cristianesimo, pur sollevandosi sul piedistallo della sapienza romana, definì, innovò, perfezionò tutte le relazioni giuridiche, dal consorzio maritale, al civile, al religioso. Ed oggi buona parte dei quesiti che ci tormentano e che tanta luce di studi giuridici non riuscì ancora a diradare, aspettano forse una soluzione da quei criteri ampli e rigorosi, che s. Tommaso (come trovasi illustrato in questo libro) introdusse intorno alla giustizia commutativa, a quella distributiva e a quella legale, e intorno al rispettivo dominio, distinto da quello della carità. Il progresso anche qui dipende dalla ripresa delle tradizioni cristiane.
Infine quelle beatitudini dell\’animo, che sono promessa e premio dell\’esercizio di altrettante virtù, quelle beatitudini che con un linguaggio per lo innanzi non più udito le moltitudini ammirate e commosse apprendevano per la prima volta dalle labbra divine di Gesù in sul monte, non hanno rovesciato, per così dire, l\’asse delle idee direttive di tutta la società pagana? Ma poiché il cristianesimo, non contento di averle proclamate codeste virtù, laboriosamente si sforzò (se è lecita la frase) a farle passare nelle coscienze, nelle costumanze, nel sentire dei popoli, può dirsi che da questo rivolgimento d\’idee, racchiuso nel sermone del monte, cominciò un\’era nuova di vita civile. E tanto più, come osserva l\’A., che essendo virtù che hanno più diretta attinenza con la natura umana corrotta, esse si confanno ai figli del dolore – retaggio universale degli uomini – e più specialmente ai deboli, agli umili, ai più numerosi, vittime dei pochi quaggiù fortunati e prepotenti, assumendo così un senso ed una espressione sociale e popolare per eccellenza.
Avviene perciò (continuando il pensiero dello scrittore) che queste beatitudini «le quali ai figli della città del mondo sembrano paradossi» e che al palato di filosofi razionalisti serbano pur sempre «savor di forte agrume», milioni di uomini persistono da secoli a considerarle come vere e sublimi virtù di perfezione. E noi soggiungeremo che esse dinanzi al pensatore cristiano rimangono il distintivo delle società cristiane rispetto a quelle antiche pagane o novellamente paganeggianti; e misurano la emancipazione graduale dell\’umanità dalla servitù della forza e della ingiustizia, cioè i gradi dell\’incivilimento. Quindi nel rigetto di queste virtù democratiche per eccellenza deve additarsi una cagione potissima di crisi sociale; nella rivendicazione di esse il segreto per il restauro dell\’ordine di civiltà.
La scienza moderna razionalistica sentenzia per esempio (questo è il distillato di tanti libri di economia e di sociologia): beati i ricchi, beati quelli che sentono altamente di sé. Che ne derivò? Guerra sociale intestina e distruttiva. A tale stregua e a sì duro sperimento si comprende la sapienza anche sociale del passo evangelico: «beati i poveri di spirito». Bisogna rimetterlo in onore, dice l\’A., e avremo pace.
Tutte le età, sotto la caligine e l\’ebbrezza delle passioni, deificarono il genio della forza e fecero l\’apoteosi dei violenti, da Alessandro a Napoleone; e la legge del progresso si presume oggi, specialmente dallo Spencer al Gumplowicz, riassumere nel graduale prevalere dei forti. Vi è contrapposto l\’evangelico: «beati i mansueti, essi possederanno la terra». Quale più recondita analisi di psicologia sociale, quale più vera legge di civiltà in questa sentenza! La forza atterra, travolge e passa; ma il mansueto (dice l\’A.) «ha attraimenti invincibili nella convivenza umana, egli consegue la signoria morale degli uomini». E perciò il Cantù chiudeva il suo discorso sulla storia universale con queste parole: «a lungo andare, attraverso i secoli, chi vince è sempre Abele».
Ma fra i conati ognora rinascenti della violenza e dell\’arbitrio, a mantenere l\’ordine e il progresso non basta la giustizia fatta valere meccanicamente dall\’alto, forse per calcolo di necessità sociale o per paura dei reggitori. Bisogna che i popoli stessi amino la giustizia e ne abbiano insaziabile desiderio, e perciò «beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno satollati». Senza di ciò invano si attende avanzamento di civiltà, che si risolve (nella parte sua essenziale) in una attuazione di più inviolati e squisiti rapporti di giustizia. Il cardinale Lavigerie, predicando la novella crociata contro la schiavitù africana, gridava nel suo zelo di apostolo, che la proclamata affrancazione a pro dei disgraziati figli di Cam, non si otterrebbe se prima l\’Europa non divampasse per l\’orrore di cotanta ingiustizia e per l\’entusiasmo della prima e delle più nobili giustizie umane. E Fustel de Coulanges rileva che nell\’Europa medioevale, alla affrancazione della stessa servitù della gleba (pur tanto differente per condizioni morali ed effetti sociali dall\’obbrobriosa schiavitù) non avrebbero bastato né le paure dei signori feudali, né la generosità calcolata delle monarchie, né gl\’interessi civili ed economici dei comuni alleati alle moltitudini servili, se ad un certo momento, sotto l\’ispirazione d\’alto senso di cristiana giustizia, un entusiasmo universale non avesse pervaso tutti gli ordini civili in pro della libertà personale dei volghi campestri. Qui una delle ragioni che profondamente distinguono quei tempi dai nostri. Una santa ebbrezza per gl\’ideali della giustizia e della cristiana dignità trascinava già dietro la voce di un Pietro l\’Eremita o l\’intimazione de\’ papi, per sei secoli fino alla caduta di Candia, principi e popoli in levante contro il mussulmano; ed oggi, sotto il soffio assiderante dell\’utilitarismo, l\’Europa, fra le più sottili combinazioni della diplomazia e l\’apparato d\’ingenti forze militari, assiste inerte all\’annientamento delle proprie gloriose tradizioni ed ai più iniqui oltraggi all\’umanità. Delle nazioni come degl\’individui si può ripetere che soltanto quelle che hanno fame e sete di giustizia saranno satollate al banchetto della civiltà.
Ma forse quando si trapassi all\’altro elogio evangelico: beati coloro che hanno il cuor puro, perché essi vedranno Iddio, tale virtù della purezza (nel senso del costume personale) ha un valore soltanto soggettivo e interiore. Non già; quell\’elogio racchiude molteplici e profondi sensi sociali. Anche testè l\’arcivescovo di San Paolo negli Stati Uniti del nord, rivendicando l\’eccellenza del costume cristiano di mezzo a quel sensualismo, che colà arriva da un canto fino alla poligamia dei mormoni e dall\’altro al rifiuto sistematico delle nozze (generatore alla sua volta di tutte le aberrazioni del femminismo), non si peritava di tener discorso propriamente di una purità sociale. E non è l\’assenza di questa sociale virtù che rende refrattario ad ogni influenza civilizzatrice il mussulmano, per cui si spensero in una purulenta tabe le società antiche d\’oriente e di Roma, e per cui non sa levarsi dall\’abbrutimento la maledetta stirpe di Cam; mentre l\’onestà del costume, fra le stesse frequenti ribellioni del senso, pur sempre ritempra e ringiovanisce le stirpi cristiane europee? Nessun economista o sociologo che agiti il, tema, dal Malthus in qua così dibattuto (e in mille modi falsato), della popolazione, può disconoscere l\’importanza anche demografica di una classe intera votata al celibato virtuoso, dopo gli onori celesti cui il cristianesimo innalzò la verginità; e l\’Hettinger ne rilevava delicatamente i riflessi multiformi e squisiti che la perfezione della verginità tramanda su tutte le manifestazioni più elette della sociale convivenza. In una parola, la purità sociale è la spiritualizzazione della civiltà.
Ma vi ha ancora una purità di spirito, la quale solleva non solo l\’anima a scorgere Iddio al di sopra delle creature (che da quell\’obbietto troppo spesso la distolgono), ma che educa le nazioni a tener fisso lo sguardo ai sublimi fini spirituali della civiltà, e da quell\’altezza a giudicare dei beni inferiori che ne compongono il piedistallo e lo stromento. Il sensualismo materialistico che ci affoga, ha fatto disgraziatamente perdere ai più il retto giudizio intorno al pregio della vita e dei suoi fini; sicché Hurrell Mallock dovè scrivere un libro – La vita è degna di essere vissuta? – per dimostrare il valore di essa, in ragione della eccellenza dei suoi destini. Lo stesso dubbio tormentoso assedia la vita sociale e si domanda ancora: «in che consiste e da che cosa si estima la civiltà?». Né è raro che oggi si risponda, dalle conquiste sulle forze di natura che ci danno la vaporiera e le applicazioni elettriche, o dell\’accomunamento del benessere economico o dal crescere dei sensibili godimenti. Ma l\’evangelica sentenza: beati i puri poiché vedranno Iddio, conduce il sociologo cristiano sopra un sentiero più sicuro ed elevato, a giudicare le conquiste della civiltà dal punto di vista predominante della perfezione morale, che essa riesce ad attuare quaggiù nei popoli, in relazione ai fini sovrannaturali che si consumano in Dio. Criterio di estimazione bensì trascendente ma non meno positivo, per cui la civiltà primitiva asiatica nel periodo ieratico trovasi da questa idea di una perfezione etico-religiosa circonfusa e predominata; per cui uomini di genio, da s. Agostino a Bossuet, a Schlegel, rinvennero in essa la chiave della storia dell\’incivilimento pagano e poi cristiano; e per cui ricollegando il naturale storico al sovrannaturale eterno, la civiltà (con rigorosa espressione scientifica) apparisce l\’attuazione del regno di Dio sull\’umanità.
Impero e trionfo del bene morale, che s\’identifica col perfetto civile, conformando ci all\’ordine divino, da cui deriva la pace. Pace però (avvertasi bene) a cui le anime, ma ancora le società, non pervengono che attraverso la guerra, mercé la resistenza e la lotta contro la sequela incalzante d\’insidie e di assalti interiori ed esteriori; donde la beatitudine evangelica, che tutto suggella: beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia, perché essi non soltanto vedranno ma possederanno Dio; cioè fruiranno di quella pace perfetta ed immanchevole che è tranquillità nell\’ordine. Sublimi parole che di svelano tanti misteri della stessa storia dell\’umanità. Nessuno quaggiù si sottrae a questo martirio dell\’anima, in mezzo al continuo esercizio di abnegazione e di sacrifizio, per giungere alla pace che è il premio del buon combattimento. Perciò l\’antico aveva formulato il precetto comune del vivere con le parole abstine e sustine, e la sapienza divina aveva sentenziato: militia est vita hominis super terram. Ma del pari per i popoli il lottare per la giustizia è condizione per ascendere alla perfezione civile; e a quelle nazioni che forse più trovansi perseguitate Dio serba nell\’ora da lui prefissa più alta missione nella civiltà. E così l\’Italia, calpesta e stritolata più di ogni altro paese dai barbari, Iddio chiamava alla missione di educare l\’Europa fatta cristiana alla libertà civile, alle industrie, ai traffici, alle arti, al diritto, alla cultura ed alla democrazia, sotto l\’egida del pontificato; e alla Spagna, pugnante per sette secoli contro i mori, fu dato in premio di scoprire e incivilire un mondo nuovo; come il martirio sistematico e protratto del popolo irlandese preparò il rifiorire della civiltà cattolica sulle libere spiagge dell\’unione americana e la rivendicazione dei cattolici nella Gran Bretagna; e come le persecuzioni efferate dei polacchi in patria e nella lontana Siberia frutteranno probabilmente un dì il ravvicinamento a Roma delle scismatiche popolazioni slave, elaborando così la restaurazione dell\’unità dei popoli in Dio e nella sua Chiesa.
Spettava alla teorica dell\’egoismo prepotente pronunciare con lo Stirner e col Nietzsche che i grandi progressi sono figli di chi lavora per conto proprio e peggio di chi ascende calpestando altri. Questa è bensì la vicenda turbinosa di pochi istanti obbrobriosi; ma nell\’incivilimento cristiano quelli che trionfano definitivamente non sono i persecutori, ma i perseguitati. E meglio perciò col Balbo potremo ripetere che nessun progresso duraturo si effettua nei popoli senza grandi sacrifizi; sicché la redenzione dell\’umanità, che fu anche la vittoria definitiva di una civiltà senza tramonto, costò nientemeno che la persecuzione e il sacrifizio di un Dio.
Ma basti di ciò; chè noi non dobbiamo essere né presuntuosi, né indiscreti; e il nostro proposito era quello soltanto di accennare alla sfuggita quale tesoro di verità propriamente sociali si celi nello studio della morale cristiana, quale è presentata con sublime semplicità anche da questo libro del cardinale Capecelatro, Le virtù cristiane. Egli così completava quell\’altro volume, La dottrina cattolica, che è tutto un\’armoniosa dimostrazione delle relazioni fra il dogma e la ragione umana, come questo delle relazioni fra l\’etica cristiana e le esigenze più legittime ed elevate dell\’umana natura. Ad un certo luogo, però, di quest\’ultimo scritto l\’A. deplora la noncuranza in cui dai fedeli cattolici è lasciata oggidì la lettura e la meditazione della bibbia, la quale diventò, è vero, per abuso di soggettive interpretazioni, veleno e morte alle popolazioni protestanti, ma fu pure per secoli pascolo salutifero ai nostri padri sotto l\’autorità interpretativa della Chiesa. «È certo (egli scrive) che in nessun libro del mondo tutta la natura creata parla sempre, e in modo mirabile, di Dio, come nella bibbia; e in nessun libro del mondo il pensiero, le perfezioni e la Provvidenza di Dio entrano in ogni cosa come nella bibbia».
Ma perciò stesso, se è lecito un voto che completi quello dell\’illustre A., io vorrei che la bibbia divenisse non solo oggetto di meditazione per i credenti in generale, cui la parola divina è via, verità e vita, ma ancora fonte di ossequenti e profonde ricerche per i cultori cattolici di scienze sociali.
Certamente per entro a quel libro divino, ove già naturalisti scettici o maligni si affrettavano ad appropriarsi armi contro la rivelazione, scienziati cattolici rinvennero presidi preziosi ai progressi delle scienze naturali e insieme alla difesa del vero religioso. Ma a maggior titolo, e con risultati ancor più fecondi, i sociologi vi troverebbero sussidi multiformi, copiosissimi, inestimabili a costruire le fondamenta dell\’ordine sociale e a delineare le leggi dell\’incivilimento, segnate ivi direttamente dal dito di Dio.
Occasionalmente o in parziali monografie ciò fu tentato da sociologi ed economisti (più invero all\’estero che presso di noi), da Périn, Félix, Champagny, Legrand, Ferraz, de Broglie, senza dire degli apologisti da Lacordaire ed Hettinger fino a Bougaud, Monsabré e Weiss. Ma uno studio sistematico sulle verità dogmatiche e su quelle morali contenute nella bibbia nel loro intrinseco valore e nelle loro applicazioni ed influenze storiche sull\’umanità e su tutte le loro manifestazioni biologiche, economiche, giuridiche, politiche, ben varrebbe a ritrarre mirabilmente le leggi dell\’essere e dell\’operare delle umane società nella storia, soddisfacendo così ai postulati e ai problemi supremi della sociologia moderna. Si pretende oggi (con errore di metodo ripetutamente additato anche dal Cathrein e dal Mayer) di sorprendere nelle orde di popolazioni selvagge l\’espressione schietta e naturale delle leggi prime dell\’evoluzione della civiltà; e noi con migliore criterio metodico non ricercheremo a fondo quel volume, che è veramente il libro dell\’umanità per eccellenza, per entro al quale maestosamente riflessa si dispiega, dalla prima comparsa dell\’uomo sulla terra, la composizione e lo sviluppo della famiglia, la moltiplicazione e le trasmigrazioni dei popoli, il multiforme ordinamento e le vicende della libertà civile e della proprietà; il contatto e spesso il cozzo di più nazioni, di più culture, di più continenti; e ordinamenti religiosi, civili e militari, intimità di vita domestica, continuità e sviluppo di sentimenti e tradizioni popolari, virtù, colpe ed espiazioni private e pubbliche, lotte, trionfi e cadute di principi e di nazioni; e il codice della più sublime sapienza filosofica, e l\’eco di tradizioni etniche e universali, e lo specchio della più fedele e costante psicologia popolare; e infine una civiltà millenaria che si spegne e un\’altra che si rinnovella col labaro della sua vittoria e la coscienza dei suoi destini imperituri? Dove ricercheremo noi un campo di osservazioni e di induzioni più ampio, continuato e fecondo per indurre le leggi storico-sociologiche?
Non vi ha dubbio che a queste leggi, che hanno lor radice nella natura razionale dell\’uomo, il sovrannaturale quivi di continuo s\’intreccia, ed anzi le signoreggia. Ma il sovrannaturale, alla sua volta, è un fatto storico, e come tale la sua influenza sull\’umanità e sul suo sviluppo progressivo diviene uno degli aspetti più importanti dell\’analisi scientifica. Per cui uno studio (bene inteso, munito di debita preparazione e di reverente docilità di mente) intorno a quelle fonti bibliche, in servizio della sociologia, compone un obbietto di scienza ben più positiva, di quella che in omaggio ad un pregiudizio aprioristico, sdegnosamente le rigetta, o le assale con critica negativa. Una volta di più: il positivismo è la negazione della ricerca positiva.
Ma v\’ha di meglio. Quelle verità e leggi sociologiche, racchiuse nel volume biblico, non rimasero sterile cognizione speculativa, bensì esse trapassarono nel sentire e nell\’operare secolare dell\’umanità, fruttificando nelle istituzioni e nelle consuetudini e prodotti dell\’incivilimento moderno, di cui fra tante superfetazioni e pervertimenti formarono pur sempre il filo conduttore ed il succo vitale. Ond\’è che lo studioso che vi si applica con la mente indagatrice farebbe non solo opera di scienza, ma ancora di rinnovamento civile. Egli, cioè, vi rinverrebbe le radici sempre vegete di quegl\’istituti etici, giuridici ed economici, di quelle libertà, di quelle energie, di quelle sane idealità che le popolazioni presenti vagheggiano per restaurare e rigenerare l\’ordine sociale civile, appunto oggi crollante perché deviato dalle sue remote tradizioni e dall\’azione stessa storica perdurante del sovrannaturale.
L\’augurio di codesti studi, all\’occasione di questo libro dell\’insigne porporato, io indirizzo particolarmente agl\’italiani sinceramente credenti e colti. Gli stranieri cattolici forse più prontamente intesero l\’importanza di questi esercizi intellettivi; e sul fondamento di poderose indagini storiche, anche in questi dì il congresso inglese di Nottingham, quello ceco in Boemia e quello germanico di Krefeld, risonarono di nobili, dotte e coraggiose proteste contro una scienza fallace e scredente, rivendicando quanto di meglio vantano la cultura e le istituzioni moderne alla remota educazione della Chiesa cattolica nei loro paesi; educazione storica la quale, checché ne dica il Reville (che nella bibbia non scorge che il riflesso delle idee di un ristretto circolo di famiglie umane), risale attraverso i lunghi e molteplici confluenti di un grande fiume alla sorgente prima e comune del libro ispirato, a cui si abbeverò lungo i secoli di acque vitali tutta intera l\’umanità.
Questo, con più profonda ragione e con più lusinghiere previsioni deve farsi anche in Italia. Lo aveva scritto già il cardinale Capecelatro in altra pubblicazione (L\’alba del secolo XX), che qui giova rammentare: il trionfo del movimento rigeneratore dei cattolici in Italia dipendere da tre condizioni: – dal munirlo di tutta la luce e del calore del sapere cristiano; – dal riannodarlo alle tradizioni civili della patria; – dal convergerlo alla soluzione della questione sociale, che non può trarsi che dal fondo della dottrina e della morale cristiana cattolica. Questa è pure la conchiusione, e questo è il voto ancora di chi dettava con animo riconoscente e convinto la presente recensione.
NOTE
(1) Le virtù cristiane, Roma, Desclée-Lefebvre, 1898.
(2) N. d. R. – Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie