P. L. Taparelli d\’A. S.J., Risorgimento – Non musulmani ma selvaggi. «La Civiltà Cattolica», Serie IV, Vol. VII – 7 luglio 1860, pag. 25 e segg. Sì, dissero tutti: l\’empietà demagogica minacciante sterminio alla società cristiana è giunta a tale che se tutte non si armano a resistenza concorde le genti cristiane, troveranno oggi sotto il pugnale mazziniano quella universale schiavitù, che un dì minacciavasi dalla scimitarra turchesca.
NON MUSULMANI MA SELVAGGI
«La Civiltà Cattolica», Serie IV, Vol. VII – 7 luglio 1860, pag. 25 e segg.)
Gran rumore si è menato nei giorni scorsi contro un eroe cristiano che osò paragonare i furori dell\’empietà demagogica alle incursioni dei Saracini e dei Turchi. Il paragone a dir vero, se si riguardino il fine e gli attentati, è si giusto, la somiglianza è sì evidente, che tutti i clamori non riuscirono ad altro che a rendere più viva l\’universale approvazione degli assennati. Sì, dissero tutti: l\’empietà demagogica minacciante sterminio alla società cristiana è giunta a tale che se tutte non si armano a resistenza concorde le genti cristiane, troveranno oggi sotto il pugnale mazziniano quella universale schiavitù, che un dì minacciavasi dalla scimitarra turchesca.
Ma se questa somiglianza è verissima rispetto ai materiali effetti della loro ferocia, grandissima diversità passa fra musulmani e rivoluzionari rispetto ai principii antisociali e al termine a cui condurrebbero. Perocché, ignoranti e feroci come essi sono i Musulmani serbano pur tuttavia una qualche base, un qualche germe di vita sociale: l\’unità, l\’onnipotenza, il supremo diritto di Dio, i premi e le pene della vita avvenire sono fondamenti di un edificio religioso: la riverenza al diritto paterno nelle famiglie, l\’amore fraterno degli uomini, l\’ospitalità, la lealtà, la veracità sono germi di vita sociale atti a produrre una civiltà che fu florida un tempo e che, anche ai tempi nostri, si vanta da certi moderati, non fosse altro, per contrapporla quasi rivale alla civiltà cristiana.
All\’opposto l\’empietà demagogica poco più serba nel fatto di cotesti elementi sociali: nella teoria poi stabilisce i principii di una totale distruzione della società, vale a dire della più efferata selvatichezza. Perlochè se il Musulmano merita il nome di barbaro in quanto quei principii condanna a sterile immobilità, più che barbara deve dirsi selvaggia la demagogia, perché tende colle dottrine propagate dal suo pugnale a rendere ogni società impossibile: il che è propriamente il carattere del selvaggio.
Tale è l\’assunto che prendiamo a svolgere qui brevemente considerando le dottrine caratteristiche di quella scuola, che sotto nome di giovane, pretende rigenerare l\’Europa. Se coteste dottrine sono in perfetta opposizione col principio di società; se applicate al fatto, già si veggono iniziare fra noi le norme selvagge, è chiaro che esse minacciano all\’Europa il dissolvimento della società, la totale selvatichezza.
Or diteci: in che consiste il principio di società? In che consiste la socievolezza, contrapposto della selvatichezza? Se società vuol dire unione, socievoli saranno le dottrine quando tendono a produrre unione, selvagge quando tendono a produrre isolamento. Ora l\’unione include essenzialmente l\’idea di una mutua dipendenza fra le parti. Miratela dove più vi piace dall\’infimo grado dell\’unione molecolare, fino al supremo nel mondo visibile, l\’unione dell\’anima col corpo, dappertutto voi trovate introdursi per l\’unione una scambievole dipendenza delle parti. L\’unione chimica toglie ai componenti, ossia neutralizza, le loro proprietà per introdurvi altre proprietà comuni a tutto il composto; la coesione fisica che costituisce un solido costringe tutte le parti ad un movimento comune: la forza vegetativa s\’impossessa di cento sostanze diverse e le riduce sotto le leggi universali della vegetazione e particolari della specie sua propria, a produrre una serie di fenomeni vitali, sproporzionata a tutte le fisiche e chimiche loro tendenze. E senza dimorarci più oltre in simili applicazioni inferiori, la perfettissima delle unioni nel mondo visibile, quella che forma unico essere nell\’uomo di corpo e d\’anima, costringe il corpo a servire l\’anima come stromento, e l\’anima a sopportare mille incomodi e fisici e morali da quel corpo stesso, che ella dice suo servo e stromento.
E questa proprietà di tutte le unioni, è, come ben vedete, essenziale, naturale, necessaria, poiché dipende dall\’idea stessa inclusa in quel vocabolo, che significa i molti ridotti ad unità. Ora come potrebbero i molti ridursi a uno se non vi fosse una causa unificante? Se questo accadesse, avreste un assurdo, un effetto senza causa. Se poi la causa vi è, l\’effetto necessariamente ne dipende. Unione dunque e dipendenza vanno sempre essenzialmente congiunti; e però dovunque è società (unione d\’uomini) ivi è dipendenza: e il principio di socievolezza non può darsi senza essere ad un tempo principio di dipendenza. Questa dipendenza potrà essere di mille forme diverse, come diversissime sono le forme di unione in tutti gli altri esseri composti di loro natura. Ma nella immensa varietà delle forme la dipendenza mai non potrà mancare, siccome quella che entra nel concetto stesso di società.
Or diteci, qual è la cosa più opposta d\’ogni altra alla dipendenza? Non è chi noi vegga, e l\’indipendenza. Se dunque il principio caratteristico della scuola demagogica è l\’indipendenza, cotesta scuola sarà essenzialmente, ineluttabilmente antisociale; dovendo senza meno tutte le conseguenze contrarre la natura del principio, da cui derivano.
Ora che l\’indipendenza sia il primo principio della scuola demagogica lo riconoscono concordi tutti i suoi allievi: le libertà che costoro chiedono per la coscienza, poi culti, per la religione, per la parola, per la stampa, per l\’associazione ecc., tutte rampollano dal famoso principio: l\’uomo è per natura e però inalienabilmente indipendente. Tutte le teorie della scuola moderna sono un esplicamento di cotesto principio: tutti gli sforzi politici sono rivolti ad introdurne l\’applicazione nei fatti. E se l\’inesorabile necessità delle cose costringe finalmente tutti codesti indipendenti a dipendere, e a scegliersi un governo, cui lasciano una balia tirannica; pure l\’inesorabile necessità della logica, non volendo disdire il principio, insegnò a parecchi sofisti alemanni quel furioso ripiego di sentenziare che un buon Governo deve perpetuamente lavorare a distruggere sè medesimo: tanto sono fermi costoro a volere illecita per natura ogni dipendenza. L\’assunto nostro è dunque evidente: socialità include essenzialmente dipendenza: spirito moderno è essenzialmente indipendenza.
Dunque lo spirito moderno è essenzialmente antisociale, ossia essenzialmente conduce alla selvatichezza: né, per quanto vogliano gridare gli spasimati della civiltà moderna contro l\’oscurantismo nostro, potranno mai negare la nostra conseguenza finché non provino falsa una di queste proposizioni: «l\’idea di società involge essenzialmente l\’idea di dipendenza: il gran principio vagheggiato dalle teorie di società moderna e l\’assoluta, inalienabile indipendenza dell\’uomo da introdursi praticamente in tutte le legislazioni».
Se codesti due principii sono diametralmente opposti tra loro, il principio d\’indipendenza è essenzialmente antisociale, e però essenzialmente selvaggio; dicendosi selvaggio ciò che tende a distruggere la società.
Sicuramente i nostri avversarii al sentirsi dire selvaggi bandirannoci addosso la croce, perché questo vuol l\’interesse del loro partito. Non è però che quando tace in cuor loro lo spirito di parte, non riconoscano essi pure qui o colà la verità della nostra asserzione: e più d\’una volta il famoso Gioberti prenunziò all\’Europa il pericolo; e moltissimi credettero già inselvatichita la Francia sotto i terrori del giacobinismo; e le minacce del socialismo e del comunismo francese fecero inorridire nel Giugno i repubblicani del 1848 e ai 21 Dicembre gli elettori di Napoleone. E chiunque conosce i disegni spaventosi e i sanguinari decreti delle conventicole segrete non trova differenza fra la costoro ferocia e quella dei Cannibali, se non in quanto i primi aggiungono alla fierezza dell\’animo la tremenda potenza dell\’organamento. Ma coloro che in tal guisa sanno ravvisare isolatamente un qualche effetto, non sanno riportarlo al vero suo principio: di che fermandosi quasi privi di raziocinio ai puri fatti sensibili, detestano le crudeltà, gl\’incendi, i furti (e allora principalmente quando ne sono tocchi essi stessi) vagheggiando frattanto e careggiando quel principio infernale di indipendenza donde schizzano tante fiamme. Uomini di poca levatura e di poco cuore, incapaci ugualmente e di comprendere gli effetti pratici delle dottrine, e d\’innamorarsi del giusto quando non è in lega coll\’interesse; uomini che detestano i comunisti come detesterebbero il Passatore, prontissimi frattanto ad applaudire al Garibaldi che invece di assalire una Diligenza assale una città. E pure se fra costoro vi ha divario, il vantaggio sta tutto in favore del Passatore, il quale in fine dei conti riconoscevasi da sé stesso coi pochi suoi complici violatore delle leggi e della proprietà: laddove costoro, moltitudine sterminata, mentre preparano desolazione a tutte le genti, vantano di militare in favore della verità, della giustizia, della felicità di tutto il genere umano; e stabiliscono un principio, rampollante, dicono, dalla natura stessa dell\’uomo, e propaginante per conseguenza in tutte le relazioni del mondo morale, a cui la natura umana si protende.
Qual meraviglia dunque se applicato alla realtà delle cose, il costoro principio produce realmente per ogni dove certi sintomi sociali che annunziano, sotto vari aspetti, l\’ingenerarsi di abitudini selvagge a misura che si scuotono o si spezzano i legami delle socievoli attinenze? Fate con noi, lettore, una piccola escursione in tutte le regioni del mondo morale: considerate con noi i vari gradi, per cui procede dal germe dell\’individuo per successivi incrementi la gran pianta della società, e vedrete come il principio dissodante va progressivamente corrompendo ogni parte del mondo sociale e preparandolo a quello imbestiamento a cui principii antisociali debbono naturalmente condurlo.
E poiché il mondo morale prende le prime sue mosse dall\’individuo, incominciate, lettore, dal considerare in questo lo spaventevole eroismo della disperazione. Quel suicidio che in questi ultimi giorni ha sottratto alla giustizia umana in parecchi alti ufficiali austriaci la luce di più ampie informazioni e la vittima della vendetta sociale; quel suicidio, diciamo, è uno dei grandi effetti e dei grandi mezzi d\’indipendenza demagogica. Effetto, perché perduta ogni idea di Dio e di anima, e scossone ogni giogo, il sottrarsi col patire di un momento a lunghi travagli o a gravi pericoli diviene atto di prudenza e di coraggio, come il tagliarsi un dito che minacci cancrena. Mezzo poi d\’indipendenza, non dipendendo più da nessuno sulla terra un uomo che ardisca non solo affrontare, ma provocare la morte. Or questo è ciò che nasce dai principii delle sette, presso le quali il patet exitus è solenne aforismo: aforismo non ammesso certamente se non forse in qualche momento di disperazione da quei selvaggi pei quali la loro brutalità è sventura, ma non teoria. All\’opposto pei selvaggi azzimati della nostra società il suicidio diviene cosa abituale, entrata oramai nei calcoli della statistica, specialmente in quei paesi ove il protestantesimo ha formato negli intelletti e quasi connaturato lo spietato principio d\’indipendenza.
Abbiamo detto selvaggi azzimati cotesti suicidi, in quanto serbano ordinariamente quella tinta o vernice di piacevolezza che la civiltà produce. Questo peraltro vuolsi intendere pel primo stadio della corruzione: giacché negli stadi ulteriori qual sia per essere anche l\’esterna abitudine di ferocia nel ceffo, negli abiti, nelle maniere possiamo congetturarlo e da ciò che vedremo nei Sansculottes del 1793, e da ciò che apparisce in quelle società e principalmente nelle più segrete ove più cinica e sfacciata si mostra l\’influenza della dottrina di libertà. I nostri lettori hanno potuto vederne un ritratto vivamente effigiato nel Lionello quando descriveva il convito di quei feroci che si divoravano crudo crudo e ancor sanguinante un fegato umano imbandito sulla mensa. E se nel comune della società quelle barbarie ancora muovono orrore, non può però negarsi che lo spirito d\’indipendenza ha insegnato a svincolarsi da molti riguardi di urbanità più squisita, i quali molto contribuivano in altri tempi a rendere più dignitosa, affettuosa ed ordinata la vita sociale.
Non negheremo potere questo principio di rozzezza giovare all\’ordine morale ritemprando certi animi soverchiamente ammolliti dalle svenevolezze della civiltà: e sarà questo uno dei tanti beni che la Provvidenza sa trarre dal male. Ma se si riguarda il principio donde quella rozzezza deriva, l\’intolleranza d\’ogni legame, la noncuranza degli altrui incomodi, il disprezzo degli altrui sentimenti; tutte queste cause di rozzezza mettono un gran divario fra la virile austerità di certi caratteri rubesti sì, ma probi ed onestissimi, e la ruvidezza del tratto di cui certuni sembrano oggi farsi un vanto, dandola come carattere della loro indipendenza.
All\’uscire dalla cerchia dell\’individuo, la prima relazione, in cui natura pose l\’uomo è la società domestica: ed anche qui, sia detto a lode del vero, il selvaggio non suole essere pienamente selvaggio; anzi il mancare d\’ogni altra effusione d\’affetto rende in lui più intensi gli affetti domestici; e l\’abbandono d\’ogni altro sussidio gli accresce la stima di quell\’unica società, in cui lo pose natura. Ma quando l\’indipendenza si stabilisce in principio, ogni passione vi trova un appoggio ove assicurare la leva che dee demolire l\’edifizio domestico. La santità del vincolo coniugale o soggezione, soggezione la dipendenza di figlio, soggezione il dovere di educare, soggezione il convivere; e a tutte coteste soggezioni ognuno vede come si vada rimediando, senza quasi avvedersene, in tutte le moderne società. Il divorzio è ormai per esse legge universale. Ma le spaventose dimensioni che prende, la l\’utilità dei motivi a cui si appiglia, la preveggenza d\’arte con cui si prepara prima ancora di contrarre il vincolo (se vincolo può dirsi) matrimoniale, rendono ormai cotesta congiunzione un libertinaggio legato e nulla più. Alla indipendenza dei figli provveggono le leggi per modo, che i parenti medesimi incominciano a dubitare del proprio diritto. A sciogliere i parenti dal debito di educare concorre lo Stato e coll\’aprire numerosi gl\’istituti, ove il figlio si educhi fuori della propria famiglia fino dagli anni più teneri, e col costringere il padre, anche a suo dispetto, a presentare quel cervelletto di morbida cera, sicché riceva dallo Stato tutte le impronte che questo vorrà marchiarvi. Così il figlio nulla riceverà dai parenti se non quella massa di carne sensitiva, e formerà l\’abito di vivere fuori di famiglia senza conoscerne né i doveri, né i diritti. Quantunque, a dir vero, vivesse egli pure sotto il tetto domestico, l\’indole della società odierna è tale, che i parenti stessi sono allettati perpetuamente ad una vita tutta esteriore. Si direbbe che la società abbia preso a sciogliere questo problema: «far sì che un uomo scapolo abbia tutti i comodi della vita domestica, senza tollerarne alcun peso di convivenza». Non avete un tetto? Eccovi un hotel ben fornito e pulitissimo che vi esibisce tutti i comodi della casa, senza doverla né riparare, né mobiliare. Qui non abbisognerete di servitù bastandovi il garzone di locanda; ed eccovi sciolto dalla noia di educare, di albergare, di beneficare i famigli. Vostro giardino di diporto sarà la pubblica villa: volete conversazione e giuoco! Vi aspettano al caffè: la ricreazione ve l\’offre il teatro: in piazza trovate ai vostri comandi una vettura: l\’amministrazione dei beni sarà scusata dai pubblici banchi, sui quali collocando il vostro danaro ne trarrete i frutti senza mettervi in noiose relazioni con fattori e contadiname. Se amate una vita di studio alla leggiera (studi gravi non fanno per gl\’indipendenti), in ogni angolo della città vi si apre un gabinetto di lettura. Tutti insomma, tutti i bisogni della vita trovano agevole l’appagamento senza necessità alcuna di avere una famiglia sulla terra: tutti i bisogni, diciamo, meno quel bisogno di un cuore che conobbe le pudiche gioie dell\’amore domestico e della intimità d\’amicizia; e meno quell\’esercizio perpetuo di virtù che nella vita domestica s\’imparano e forbiscono. Ma la perdita di cotesti due tesori che monta per chi mai non li conobbe? L\’uomo grosso e materiale quando può liberarsi da soggezioni ed incomodi sensibili, ha tocco il cielo col dito: e in tal opera la società odierna porge ogni possibile sussidio a chi vuole sprigionarsi interamente dal convivere domestico. Vero è anche agli affetti casalinghi, che ella uccide coi municipali, sostituisce amori nazionali ed umanitari; amori comodi e che non costringono a sacrifizi determinati, destinati a vagheggiare una idea tanto più cara e più nobile, quanto più remota dalla realtà dell\’umano consorzio.
Abbiamo detto distrutti gli affetti municipali, e non occorre dimorarci nel dimostrarlo, dopo aver accennato come sia distrutta la famiglia: giacché che altro è il Municipio se non l\’unione delle famiglie? E come serberebbesi l\’amore di quello, se è estinto l\’amore di questa? Solo osserveremo come anche in tal opera la selvatichezza eterodossa sottostia immensamente rispetto alle tribù indiane ove l\’affetto dei contribuli è sacrosanto, laddove i nostri rigeneratori non finano nelle loro filippiche contro il gretto e volgare amore di campanile. Né le loro invettive si ristringono a biasimarlo in parole, ma tutto il loro sistema parlamentare include essenzialmente la distruzione di questo, come d\’ogni altro spirito di corporazione. Spirito che natura innestò nelle più intime fibre del cuore umano, confortandolo con quanto ha di più sacro il diritto, di più tenace ed urgente l\’interesse. Questo, incalzando perpetuamente col pungolo dei bisogni, costringe a ricorrere per aiuto ai più immediati, ai più prossimi che sono appunto i domestici e i concittadini. Da questi poi ricevendo continuamente contraccambi, favori, benefici, cortesie, eccoti sorgere in cuore la voce della giustizia e della riconoscenza ad attestarne i diritti e perorarne la benemerenza. L\’essere dunque vincolati a domestici e concittadini non è grettezza di onore che non sappia diffondersi, ma è debito di giustizia che sa rimeritare. Ma ogni debito è soggezione, e dipendenza; e gl\’indipendenti non vogliono saperne.
E ne hanno ben donde, poiché dato il nome alle volontarie loro consorterie, non potrebbero sì di leggieri adempierne i giuri esecrabili, invescati che fossero negli affetti che natura ci detta. Si sciolgono dunque tutti i vincoli di corporazione (e i settarii rinunziano perfino alla patria e al sangue): ogni uomo non è che individuo sgranellato: e tutti que\’ deputati che corrono a rappresentare la nazione in un Parlamento, portano bensì nome di questa o quella provincia, di questo o quel circondario: ma lo rappresentano sì poco, che molti e molti neppure toccarono mai quel suolo, quel Comune, di cui si dicono rappresentanti.
Lo spirito dunque della indipendenza eterodossa, quando entra nelle relazioni civili e politiche, tende ad annullarne i primi elementi, distruggendo il sentimento ed amore municipale e sostituendo all\’amore di patria l\’interesse di partito; principio del tutto inumano che spezza tutti i legami delle più intime società formate per mano di natura.
A questa selvatichezza di sentimento seconda naturalmente la selvatichezza delle forme esteriori e un totale oblìo anche nella vita pubblica di quella riverenza, che l\’umanità ispira in ogni animo ben nato verso le numerose assemblee, e di quella dignità e decoro che riverberato negli animi aumenta la riverenza verso i rappresentanti del pubblico o della autorità.
Quest\’effetto esterno della indipendenza selvaggia spicca mirabilmente in certe pubbliche assemblee degli Stati Uniti, ove o si discute a bastonate come in un chiasso, o si ascolta sdraiato come in una bettola. Ma anche senza andare sì lontano a ricercare un\’idea di rustichezza nelle pubbliche assemblee; in Francia stessa, donde pur ci vengono tutte le raffinatezze e le leziosaggini della moda, quali ispide forme presentava nell\’assemblea repubblicana il partito della montagna! Codesta democratica non curanza del pubblico e delle Magistrature, vera protesta contro ogni soggezione, prepara purtroppo all\’infrangimento d\’ogni legge morale. Il che ci ricorda aver veduto deplorarsi appunto agli Stati Uniti, ove anche i supremi officiali si fanno rei di peculato e di venalità, senza neppure serbare la vergogna della pubblicità; pagandole almeno il tributo dell\’ipocrisia (1). Ecco fin dove può giungere anche nella non curanza della pubblica decenza il malinteso spirito d\’indipendenza.
Dilatiamone adesso le conquiste e facciamo che entri nelle relazioni internazionali; vedrete voi stesso la terribile metamorfosi che dovrà produrr in quel diritto. E qui purtroppo i fatti esterni parlano agli occhi anche di quei medesimi, di cui l\’ottuso intelletto non saprebbe leggere nel libro dei fatti morali. Se l\’indipendenza dell\’individuo gli da il diritto di non accollare una legge, cui non abbia rogata egli stesso, sarebbe ridicolo che a leggi da se non approvate venissero soggettati i popoli. Come dunque in nome dell\’indipendenza toccò ai cittadini di rivedere il loro codice e la loro costituzione, l\’indipendenza medesima lacerò i trattati fra i Princìpi se non erano approvati dai popoli: ed è questo il primo passo che abbiamo veduto a tempi nostri osservato da noi nell\’articolo la Fede dei trattati. Da lungo tempo gli italianissimi andavano ripetendo coteste dottrine, destinate prima a spossessare l\’Austria, poi ad esautorare tutti i Princìpi che non si acconciassero a dipendere coi loro sudditi dalla tirannia degli indipendentisti: E «qual diritto, esclamavano, poteano avere i diplomatici del Congresso di Vienna, di Parigi, di Laybac noi determinare le frontiere e regalare popoli e territori»?
Non è qui mestieri per noi l\’esaminare se in quei Congressi fossero violati alcuni diritti (colpa non rara ad accadere fra potenti nell\’ebbrezza del trionfo); e se gl\’italianissimi si fossero contentati di imputare nullità ed ingiustizia a certe speciali determinazioni; rispettato così il principio di fedeltà e ridotta la questione a pure dimensioni politiche, ci lascerebbe per lo meno indifferenti. Ma gl\’indipendenti non si restrinsero al fatto e vollero annichilare il principio: tolto ai Principi il diritto di patteggiare, divenne impossibile ogni convenzione fra i popoli: giacché come mai patteggerebbero i popoli, senza l\’organo di un\’autorità centrale incaricata di formarne l\’unità e di rappresentarla in faccia agli altri popoli? Ecco dunque le nazioni in una compiuta anarchia! Le leggi naturali ciascuno le intende a suo modo: le convenzionali ciascuno le spezza secondo il tornaconto.
I popoli sono così ridotti, come un giornale descriveva il cittadino americano, a non trovar più sicurezza, se non col revolver alla mano e le spalle al muro. Misera sicurezza per un cittadino, ma che lascia almeno qualche speranza di pugna uguale, cimentando le forze personali. Non così quando trattasi di popoli ove il pesce grosso è sicuro di mangiare il piccolo. Qui l\’orribile regno della forza selvaggia ha preso in meno di un lustro proporzioni sì enormi, che la diplomazia ormai fa i suoi fagotti, e dei dieci Congressi che si annunziano, miracolo se uno solo si avvera. E qual pro di Congressi, se il Ciel ci salvi, quando anticipatamente si professa la lettera dei trattati doversi spiegare, mutare, cancellare secondo i consigli delle fortune avvicendatisi? Le pattovizioni diplomatiche sono essenzialmente funzioni di popoli, i quali si riconoscono dipendenti da un giure universale ed universalmente riconosciuto. Abolito un tal vincolo, mercé dell\’indipendenza delle coscienze e delle ragioni, il trattato altro non è che un pezzo di carta screziato d\’inchiostro.
Spezzato poi ogni vincolo di società internazionale, noi siamo spettatori di una scena affatto nuova nel mondo cristiano. Vedemmo nel corso di pochi anni la Russia invitare l\’Inghilterra a partir le spoglie del turco; Walker partire dagli Stati Uniti con un branco di venturieri a cercare per sé un regno, soggiogando una qualche repubblica dell\’America centrale; un\’altra spedizione di filibustieri tentare uno sbarco in Cuba senza la disapprovazione del suo Governo; e la squadra amica degli Stati Uniti involare al Messico i suoi vapori e togliere al Presidente Miramon la palma di una imminente vittoria, perpetuando in quella misera terra, in favore di un Caporione vendereccio, tutti gli strazi della guerra civile. Vedemmo l\’Inghilterra andar bombardando i piccoli Stati per estorcere concessioni o pecunia; il Piemonte vendere due province per involarne quattro ai possessori legittimi, senza pur fiatare una dichiarazione di guerra. E in questo momento stesso un venturiere, emulo dei predoni normanni e danesi, avventarsi sulla Sicilia colla disdetta officiale o colla reale protezione di Principi che formano parte della famiglia europea, e pure sguinzagliano il loro molosso a danno di un loro fratello coronato con diritti certamente non minori di qualsivoglia altro regnante. Nel qual fatto, è da notarsi come la barbarie di questi nuovi selvaggi apparisca tanto più detestabile e rabbiosa che quella degli antichi, quanto contraddice più direttamente i principii di civiltà abbracciati oggi dall\’Europa. La quale non solamente ha terminato di espugnare la pirateria prima in Algeri ed ultimamente in Marocco; ma nel trattato del 1856, fermò quasi un nuovo diritto marittimo consentito da pressoché tutte le Potenze europee, per sopprimere le Lettere di Marca e la pirateria legale anche in tempo di guerra. Dopo simili determinazioni ci voleva tutta la fierezza degli indipendenti eterodossi per tornare in piena pace alla più obbrobriosa delle piraterie, agli attentati dei filibustieri. A tale spettacolo rappresentato sul teatro del mondo civile da nazioni che si dicono cristiane, ma dominate dal principio d\’indipendenza eterodossa, chi può negare che la società europea cammina a gran passi verso lo stato selvaggio? Laonde saviamente l\’egregio poriodico spagnuolo la Regeneracion, 6 Giugno 1860, incontrata nell\’Invalido Russo la barbara frase «pei tempi che corrono ognuno pensa per sè»; non potrebbe, soggiunge, darsi prova maggiore della tendenza a stato selvaggio di che è invasa l\’Europa. A quanto pare il periodico Russo vorrebbe che da quel settentrione donde scese or sono 14 secoli la barbarie di fatto, scendesse oggi la barbarie delle idee. Ma con questa differenza che quella prima conteneva i germi della civiltà, questa del generale dissolvimento.
Vedete dunque se veramente selvaggia non è la tendenza di coteste Sette! e se non fu soverchio onore per loro il pareggiarle alla barbarie turchesca. Si ammetterebbe dai Turchi cotesta morale che calpesta ogni diritto, che mentisce cinicamente i fatti, che lacera le convenzioni, che insidia gli alleati con l\’opera dei diplomatici, che in piena pace spinge i suoi venturieri a guerra di sorpresa: e tutto ciò con una fronte sì imperturbabile che neppure ci prende l\’acqua benedetta?
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note
1 Possono vedersi le citazioni di molti giornali americani che deplorano cotesta immoralità nel «Monde» del 18 e 19 maggio 1860.