Da giovane visse una spiritualità semplice e ordinaria, fatta dell\’ascolto quotidiano della Messa. Gli anni seguenti segnarono la sua vita, sia per le difficoltà economiche, sia per la morte del padre, della sorella Francesca e infine, nel 1814, della stessa madre. Malgrado ciò Vincenza accettò questi avvenimenti come volontà di Dio. Con la costanza della preghiera si impegnò in parrocchia e organizzò un oratorio femminile con incontri, ritiri e scuole pratiche di lavoro domestico. Con Bartolomea Capitanio, che conobbe nel 1824, diede vita a una fondazione religiosa regolare per soccorrere le persone nelle condizioni più misere e soprattutto per l\’educazione delle ragazze. Morta prematuramente la Capitanio, Vincenza acconsentì a continuare l\’impresa che, approvata da Gregorio XVI nel 1840, si diffuse rapidamente in tutta la Lombardia e anche nel Trentino e nel Veneto.
La confondatrice delle Suore di Carità, dette anche di Maria Bambina, nacque a Lovere, sul lago di Iseo (Bergamo), il 29-10-1784, primogenita di Gianantonio, conciatore e commerciante di pelli, ricco di terre e di case, ma di scarsa intelligenza e capacità. Tutta l\’azienda prosperava perché era diretta dal fratello di Gianantonio, Ambrogio, intelligente e di larghe vedute. Anche la moglie, a motivo di malattie subite, era una buona a nulla. Dirigeva quindi la casa sua cognata, Bartolomea, di grande cuore, ma di temperamento violento. Tra i genitori e gli zii di Caterina Gerosa erano perciò molto frequenti i malumori e i litigi. Col crescere negli anni la santa ne sofferse atrocemente. Non riuscendo ad impedirli si rifugiava ai piedi del crocifìsso per attingere da Lui consolazione e forza.
Lo zio Ambrogio apprezzò l\’intelligenza e la serietà della nipote e l\’avviò, dopo la scuola elementare, a passare la giornata al banco di bottega e al mercato accanto a sé. Prima dell\’alba, però, ella si recava in chiesa per ascoltare la Messa e fare la comunione. La sera, dopo le svariate occupazioni del giorno, vi ritornava per pregare per tutti i bisogni della famiglia e della società. In casa tutti ne ammiravano in silenzio la pietà perché, invece di farle trascurare i doveri, la rendeva più laboriosa, umile e mortificata. Benché erede di un grande patrimonio si adattava a zappare l\’orto. A chi le manifestava la propria meraviglia, rispondeva: "Che volete? Devo fare la volontà di Dio". Vestiva abiti semplici e rattoppati; mangiava lo stretto necessario e, qualche volta, polenta e noci per dare ai mendicanti la sua parte di cibo; di notte si flagellava e restava a lungo prostrata sul pavimento.
A diciassette anni la Gerosa perdette il padre. Poco dopo ebbe il dolore di vedere confinare la propria madre a vivere da sola con i proventi della legittima e la proibizione, da parte degli zii, d\’intrattenere relazioni con le figlie. Quando morì (1814) sull\’Italia settentrionale si abbatté il flagello della carestia, al quale, tré anni dopo, si aggiunse quello del vaiolo e della febbre petecchiale. Sotto la direzione del prevosto Don Barboglio, la Gerosa fu in quel tempo un angelo consolatore per tanti poveri e malati. I testimoni dei processi asseriscono che "avrebbe dato via i muri per fare carità"; che andava ella stessa a mendicare per i bisognosi; che quattro volte la settimana offriva in casa sua un lauto pranzo a tredici poveri. Gli abitanti di Lovere la consideravano la principale loro consigliera tanto era retta, e mentre i poveri la chiamavano "zia", essi la chiamavano "signora". Caterina approfittò dell\’ascendente che si era guadagnato con l\’esercizio delle opere di misericordia per richiamare le giovani a una maggiore serietà di vita, i sacerdoti allo zelo delle anime e i peccatori alla frequenza dei sacramenti.
Alla morte dello zio Ambrogio (1822), tutto il patrimonio di casa Gerosa passò in proprietà della santa e in usufrutto della zia Bartolomea. Ignorando che cosa il Signore volesse da lei, la Gerosa largheggiò ancora di più nella paga agli operai e nel soccorso agli sventurati. Un giovane serio le aveva offerto la sua mano, ma ella, mostrandogli l\’immagine di Sant\’Agnese, gli aveva risposto che era già sposata. Le era stato rivolto l\’invito (1819) di entrare tra le Figlie della Carità di S. Maddalena di Canossa (+1835), ma ella lo aveva rifiutato perché si riteneva indegna di appartenere ad una Congregazione Religiosa. A Lovere istituì (1821) la Congregazione Mariana per le fanciulle e un piccolo ospedale (1826), sotto la direzione di Bartolomeo Capitanio, la figlia del fornaio, uscita nel 1824 dal collegio delle Clarisse. Di entrambe le istituzioni ella riservò a sé soltanto le preoccupazioni dell\’amministrazione. Le due sante si compresero e si completarono a vicenda nell\’esercizio delle opere di carità. Ma mentre la Gerosa, impegnata a santificarsi nell\’osservanza delle sue regole di terziaria francescana, non viveva che per l\’Oratorio e l\’Ospedale, la Capitanio, sotto la guida del suo confessore, il curato Don Angelo Bosio, aspirava a fondare una famiglia religiosa per l\’educazione della gioventù e la cura dei malati. Ne parlò alla sua amica Gerosa che contava allora quarantacinque anni, ma costei, di temperamento timido, introverso, le rispose con la sua abituale umiltà: "Noi siamo buone a niente, dobbiamo vivere nascoste, contentarci di quel poco che Dio vuole". Tuttavia si piegò alle reiterate insistenze di Don Bosio convinta di fare così la volontà di Dio, e affrontò pazientemente la fiera opposizione dell\’iraconda zia Bartolomea (+1843), contrarissima a che la nipote offrisse il suo patrimonio per l\’acquisto della casa Gaia, adiacente all\’ospedale e, dal 21-11-1832, sede dell\’incipiente Istituto.
La Gerosa si mise alle dipendenze di Bartolomea, più intelligente e intraprendente. "Io sono entrata – le diceva – non per riposare, né per comandare, ma per lavorare, per essere la serva di tutte". In casa, nell\’ospedale e nel piccolo orfanotrofio, istituito per dieci fanciulle povere del paese, non le mancavano di certo le più umili e faticose occupazioni.
Agli inizi, che facevano presagire un glorioso avvenire, Iddio aveva segnata una prova molto dolorosa per la Gerosa: la morte della Capitanio (+1833). Che avrebbe fatto senza di lei? Ebbe un momento di accorata nostalgia per la casa che aveva abbandonato, ma umile, sottomessa e docile come sempre ai consigli di Don Bosio, rimase al suo posto, mentre andava ripetendo: "Essi vogliono un\’opera grande, io non la capisco, non la vedo. Farà Iddio". Più tardi, parlando della Capitanio, confesserà: "Essa era un\’aquila per il suo fervore, per i suoi desideri e io invece un bue che sempre la tirava indietro". L\’olocausto della fondatrice non tardò a suscitare una fioritura di vocazioni nell\’Istituto da lei appena avviato. Caterina le formò alla vita religiosa esigendo apertamente da loro spirito di sacrificio e di povertà.
Compendiava tutta la sua ascetica dicendo sovente: "Chi sa il crocifisso sa tutto, chi non sa il crocifisso non sa nulla". E, per conto suo, continuava ad aspergere lo scarso cibo di cenere e di acqua, a tracciare per terra con la lingua grandi segni di croce, a fare uso di cilici e di flagelli, a pregare di notte a lungo con le braccia aperte o con le mani sotto le ginocchia, e a praticare fin allo scrupolo, nonostante i suoi cinquant\’anni suonati, le esortazioni che Don Bosio faceva alla comunità nelle conferenze mensili. Le sarebbe piaciuto continuare ad indossare il suo grembiule, ma quando i superiori decisero di darle un divisa (1835) acconsentì a portare, con il nome di Suor Vincenza, la cuffia e il velo. Essendo rimasta in lei una spiccata tendenza a mostrarsi con l\’abito succinto o con gli zoccoli di legno a persone ragguardevoli, a usare con esse termini poco cortesi e a compiere gesti non conformi alla buona creanza, Don Bosio non temeva di rimproverarla. "Che volete? – diceva allora. – Sono stata educata sotto il camino". Ovvero: "Che può fare di meglio un\’ignorante?". La Gerosa non consentì di essere chiamata superiora, ma soltanto "la più vecchia" perché riteneva le sue prime cinque compagne più capaci di lei. Era ferma tuttavia nell\’esigere da tutte la fedele osservanza delle regole; era sincera nel riprenderle privatamente dei difetti; era severa con chi mancava di semplicità. A nessuna permetteva pressioni sulle aspiranti alla vita religiosa. "Lo spirito del Signore – diceva – è come un leggero venticello che spira dove vuole. Egli è il padrone dei cuori, li tocca e li chiama. L\’opera è sua. Egli sa quello che torna a nostro bene, quello che è necessario. Lasciamo fare a Dio, non preveniamo le sue disposizioni con il pericolo di guastarle". Esatta nel compimento dei suoi doveri, voleva che lo fossero tutte le suore. Ad esse ripeteva sovente: "Se non si mette buon fondamento, la casa cade".
Ben presto l\’opera avrebbe varcato i confini del paese, ma nella sua umiltà Suor Vincenza non si stancava di ripetere: "Noi non siamo buone a niente, il nostro Istituto è da niente, l\’infimo di tutti". Invece, nel colera scoppiato a Lovere nel 1836, le Suore di Carità diedero a vedere di quanto eroismo fossero capaci. La loro fama giunse lontano. A Bergamo il sacerdote Carlo Botta aveva ideato di raccogliere nel convento di Santa Chiara vecchie signore e povere fanciulle bisognose di assistenza. Si era perciò rivolto alla santa per avere alcune suore, ma ella ne era rimasta tanto accorata da ammalarne perché, secondo lei, l\’Istituto doveva rimanere nella cerchia di Lovere. Iddio voleva invece che si diffondesse per tutto il mondo, specialmente dopo che Gregorio XVI lo approvò (1838).
Essendo stata riconfermata nella carica di superiora, invano Suor Vincenza ripeteva: "Io sono vecchia. Non sono buona ad altro che a guastare l\’opera di Dio. Farò quello che potrò, ma nello stato di suddita: aiuterò, brigherò, ma non voglio responsabilità. La mia testa è balorda e buona a niente". Tutti sapevano invece che era dotata di molto buon senso, che era sempre pronta ad abbandonare la propria opinione per seguire quella di Don Bosio, direttore di ferrea volontà. Nel 1842 poté così mandare le sue religiose nell\’ospedale fondato dalla contessa Laura Ciceri Visconti a Milano, ed erigere il primo noviziato della Lombardia accanto alla comunità impegnata nell\’assistenza dei malati.
Prima di morire la santa stabilì 247 sue suore in 24 case, le visitò più volte, le diresse scrivendo loro: "Siate guidate dalla retta intenzione di piacere a Dio, e per piacergli abbiate una profonda umiltà, una inalterabile pazienza, un\’illimitata carità". Temeva fino all\’affanno che esse, pure e semplici, rimanessero vittime dei pericoli tra i quali esercitavano il loro apostolato. Per questo raccomandava loro: "Abbiate molto cuore, ma anche testa". Grande era il suo ascendente su tutte sia perché eroica nell\’esercizio delle virtù, sia perché dotata del dono della profezia. Infiacchita dal lavoro e dalle penitenze, assalita da una tosse insistente e cavernosa che le impediva il respiro e il riposo, Suor Vincenza si mise a letto nel mese di maggio 1847 con la previsione di non alzarsi più. Lasciò per testamento un discreto patrimonio all\’Istituto e stabilì vari legati pii. Libera ormai dalle terrene preoccupazioni, diceva alle suore che andavano a chiederle ordini: "Lasciatemi quieta, pensateci voi, io ho da morire, voglio pensare a prepararmi". Ai medici che si affannavano a cercare rimedi ai suoi mali diceva: "Lasciatemi andare in Paradiso, adesso è la mia ora". Morì dolcemente il 28-6-1847.
Pio XI al beatificò il 7-5-1933 e Pio XII la canonizzò il 18-5-1950. Le sue reliquie sono venerate a Lovere con quelle di S. Bartolomeo Capitanio nella cappella dell\’Istituto.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 300-305
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