Fu insigne apologista e pastore. Giovanni Fisher, vescovo al tempo in cui Enrico VIII dopo il divorzio aveva iniziato il processo di separazione dalla Chiesa di Roma. Morì martire testimoniando insieme l\’indissolubilità del matrimonio e l\’unità della Chiesa.
Giovanni Fisher, martire dell\’indissolubilità matrimoniale e della supremazia del sommo pontefice su tutta la Chiesa Cattolica, fu ritenuto da Paolo III (+1549) "decoro e ornamento" del clero e del Regno inglese.
Nacque verso il 1469 a Beverley (Yorkshire) da agiati mercanti. Rimasto orfano di padre, fino alla sua adolescenza Giovanni crebbe sotto le vigili cure della madre e del patrigno White. Frequentò la scuola di grammatica della cattedrale dove si distinse per una schietta semplicità, che rimase il tratto più caratteristico di tutta la sua vita, e per una grande devozione alla Madonna.
I genitori, vedendo che il figlio, d\’intelligenza vivace e di grande memoria, mostrava propensione allo studio e alla preghiera, lo mandarono all\’università di Cambridge (1483) dove, sotto la guida di un santo prete, Gugliemo Melton, conseguì la laurea di Maestro delle Arti. Fu eletto membro del collegio dottorale e venne ordinato sacerdote secondo gli antichi regolamenti e statuti del medesimo Collegio. Poté così darsi alla scienza sacra e diventare un appassionato cultore della Bibbia e dei Padri. Il 5-7-1501, dopo un esame che ne divulgò la fama nell\’intero paese, ottenne il grado di dottore in teologia. Dieci giorni dopo fu eletto vicecancelliere di Cambridge. Lady Margherita Beaufort, madre del re Enrico VII Tudor (+1509), lo volle cappellano della sua casa. Ella fu per lui tenera madre e nello stesso tempo docile figlia. In seguito ai suoi consigli ella ripristinò la "Casa di Dio" a Cambridge fondando il Collegio di Cristo (1505), e istituì una cattedra di teologia di cui Giovanni fu il primo titolare. Nel 1504 questi fu pure nominato cancelliere dell\’università e, nel 1505, presidente del Collegio della regina.
Quando Lady Margherita morì (1509), il Fisher portò a termine a Cambridge il Collegio di San Giovanni Battista. Nel testo degli statuti da lui redatti, scrisse in merito all\’eredità che la sua penitente gli aveva lasciato: "Ho considerato che era meglio che questo lascito, come anche gran parte dei miei averi, fossero spesi per la salvezza della mia anima, per l\’educazione dei teologi, piuttosto che essere dissipati dai miei parenti e consumati malamente e inutilmente per altri scopi, come si usa nel mondo". Cambridge non fu ingrata a tanta generosità. Nel 1514 l\’università lo nominò cancelliere a vita.
Nel 1504 la diocesi di Rochester, della contea di Kent, si era resa vacante. Enrico VII, che aveva imparato a conoscere la rettitudine ed il distacco dagli onori del Fisher, scrisse alla madre dopo che lo aveva designato a quella sede: "Con la nomina di un tale uomo so bene di potere incoraggiare molti altri a vivere virtuosamente ed a seguire le vie che egli segue… Ho nella mia vita portato agli onori molti uomini senza riflettere e vorrei ora poter riparare onorando alcuni uomini buoni e virtuosi". Il re nominò Giovanni anche membro del consiglio della corona perché lo considerava un uomo di Dio.
Quando il santo prese possesso della sua sede aveva trentacinque anni, era di corporatura molto alto e magro, e di temperamento austero e conservatore. Aveva preso l\’abitudine di macerare le sue carni con le mortificazioni, che continuò nell\’intimità del palazzo vescovile. La mattina celebrava la Messa sovente con abbondanti lacrime. L\’ufficio divino per meglio gustarlo lo voleva recitare da solo. In una parete della sua camera era stata praticata un\’apertura che gli consentiva di vedere l\’altare e l\’interno della cattedrale. Dedicava gran parte della notte ai colloqui con Dio perché sul suo durissimo giaciglio non dormì mai più di quattro ore. Portava il cilicio ed ai digiuni prescritti dalla Chiesa ne aggiungeva altri di propria iniziativa. D\’ordinario non mangiava altro che una zuppa con poca carne. Quando non c\’erano ospiti, sedeva in mezzo ai suoi cappellani e li incitava a qualche discussione su argomenti scientifici o teologici. Se poi parlava di Dio, della Madonna o dei santi, gli si illuminava il volto e la voce assumeva inflessioni d\’infinita dolcezza. Dopo la refezione si affacciava alla finestra per sorvegliare la distribuzione delle elemosine alla folla dei poveri che attendevano al cancello per impedire ingiustizie o parzialità. Quando ritornava da qualche viaggio chiedeva per prima cosa notizie di tutti i malati del vicinato e correva a visitarli, passando magari tre o quattro ore nei loro tuguri affumicati. A suo fratello Roberto, maggiordomo, raccomandava il massimo risparmio possibile per poter disporre di mezzi più abbondanti per le opere di carità e per l\’acquisto di libri.
Grandi cure Giovanni dedicò alla biblioteca, che fu tra le migliori dell\’epoca. Passava tutto il suo tempo nella preghiera e nello studio. Siccome non sapeva il greco, chiamò Erasmo di Rotterdam perché glielo insegnasse, nonostante avesse raggiunto quarantotto anni di età. Due anni dopo affrontò pure lo studio dell\’ebraico e ne apprese abbastanza per poter contestare a Martin Lutero l\’esattezza della sua traduzione della Bibbia. Se per inclinazione tendeva alla vita monastica Giovanni non venne mai meno ai suoi doveri pastorali. Tutti si meravigliavano della grande importanza che egli attribuiva alla predicazione. Vedendo che in Europa tanti cristiani aderivano agli errori dei protestanti per mancanza d\’istruzione, percorse la diocesi per confermare tutti nella fede. Coi preti indegni era terribile. "I vescovi – si lamentava – sono assenti dalle loro diocesi ed i parroci dalle loro parrocchie… Usiamo vie traverse e circonlocuzioni per rimproverare. Non prendiamo la questione di fronte, e così in tutti i tempi la gente muore in peccato". Ascoltava le lamentele dei parrocchiani contro i loro pastori, le verificava personalmente e non temeva di applicare le sanzioni previste dal diritto ecclesiastico anche a coloro che avevano amici a corte. Il figlio del re, Enrico VIII, usava dire agli ambasciatori stranieri che nessuno di loro avrebbe trovato un vescovo più savio e più santo del Fisher anche se avesse messo a soqquadro tutta la cristianità. Persone influenti gli offrirono diocesi più importanti, ma egli rifiutò di abbandonare "la sua povera vecchia moglie per la più ricca vedova d\’Inghilterra".
Dal 1521 al 1527 Fisher, in qualità di cancelliere di Cambridge, fu costretto a prendere un\’attitudine più aggressiva contro Luterò e i suoi seguaci i cui libri incominciavano a penetrare clandestinamente in Inghilterra. Il trattato che Enrico Vili aveva scritto contro Lutero in difesa dei sette sacramenti, aveva mandato l\’eresiarca sulla furie. Tommaso More, vice-tesoriere e presidente della camera dei comuni, e Giovanni Fisher, risposero agli insulti dell\’ex-frate, confutandone gli errori. In seguito altri libri scrisse il Fisher, basandosi sulla Scrittura e sulla tradizione, in difesa dell\’autorità della Chiesa, del primato del papa, delle indulgenze, dei sacramenti, collocandosi così tra i primi e più valorosi polemisti antiluterani. Ma questo non gl\’impedì di dire liberamente quanto pensava riguardo agli abusi del tempo: "Vorrei che i pontefici romani riformassero i costumi della loro corte cacciandone l\’ambizione, la cupidità e il lusso. È il solo mezzo d\’imporre silenzio a coloro che li coprono d\’obbobrio… C\’è molto da temere, se attendono, che la vendetta divina giunga presto". Per i suoi meriti intellettuali e lo zelo pastorale ben meritava gli elogi che il cardinale Reginaldo Pole tesseva di lui a Carlo V. All\’imperatore il santo doveva essere ben noto perché, nel 1522, era stato suo ospite a Rochester con il re d\’Inghilterra Enrico VIII.
Per il santo, l\’atmosfera cambiò del tutto quando il sovrano chiese (1527) il divorzio da Caterina d\’Aragona, zia di Carlo V, e sua legittima consorte dal 1509, per sposare la sua dama d\’onore, Anna Bolena. Per dichiarare nullo il matrimonio occorreva il consenso dell\’autorità ecclesiastica, ma i più dotti vescovi inglesi non furono del suo parere. Il Fisher era stato nominato tra i consulenti della regina e quando fu convocato il tribunale alla presenza del cardinale Lorenzo Campeggio, legato della Santa Sede (1529), egli prese le difese della regina dicendo che il matrimonio contratto non poteva essere sciolto da nessun potere, né umano, né divino. A sostegno della sua convinzione era pronto a sacrificare la vita. Enrico VIII ne rimase sdegnato ma, accecato dalla passione, non indietreggiò, convinto che fosse nulla la dispensa che Giulio II gli aveva concesso dall\’impedimento di affinità di primo grado quando sposò Caterina, vedova di suo fratello Arturo. Benché il papa avesse avocato a sé il processo, e proibito al re, sotto la pena di scomunica, di contrarre nuove nozze, consigliato da un oscuro avvocato, Tommaso Cromwell, cappellano di casa Bolena, pensò di fare a meno di Clemente VII. Nella convocazione generale del clero (1531), sul tenore della proposta dell\’arcivescovo di Canterbury e primate d\’Inghilterra, Guglielmo Warham, volle essere dichiarato capo supremo della Chiesa inglese. Il Fisher vi oppose un netto rifiuto. Quando sia avvide di non poter trascinare l\’assemblea all\’opposizione, fece inserire nella sua dichiarazione la clausula di salvaguardia: "Con quei limiti che la legge di Cristo consente".
Da quel momento Enrico VIII fece tutto quello che era in suo potere per farlo morire. Il Fisher ebbe delle noie una prima volta per i contatti avuti con la visionaria Elisabetta Barton. Siccome costei aveva predetto castighi al re se avesse sposato Anna Bolena, Giovanni fu accusato di esserne stato il consigliere. Egli aggravò la sua posizione quando rifiutò di prestare il giuramento all\’atto di supremazia del re sulla Chiesa d\’Inghilterra, votato dal parlamento dopo che il papa aveva dichiarato legittimo soltanto il matrimonio che Enrico VIII aveva contratto con Caterina d\’Aragona (1534). Considerato reo di alto tradimento, fu imprigionato nella Torre di Londra benché soffrisse di mal di fegato e avesse i piedi e le gambe così gonfi da non potere neppure andare a cavallo. Gli fu concesso di occuparsi a scrivere trattati ascetici, di conservare il breviario e il Nuovo Testamento, ma gli fu impedita la celebrazione della Messa e di ricevere i sacramenti. I suoi beni furono sequestrati e i suoi libri dispersi dai commissari mandati a Rochester dal re. Nell\’oratorio trovarono un mobile chiuso a chiave. Lo forzarono: conteneva un cilicio e due o tre discipline.
Durante la prigionia, cortigiani e vescovi tentarono di piegare la tempra adamantina del loro collega. Il santo si limitava a rispondere con amarezza: "La fortezza è tradita da coloro stessi che dovrebbero difenderla!". All\’inizio del 1535 Paolo III lo nominò cardinale. Enrico VIII esclamò allora furibondo: "Che il papa gli mandi pure il cappello quando gli pare, ma provvederò io affinchè, quando arriverà, egli abbia a portarlo sulle spalle perché non avrà più la testa per poggiarvelo". Il 17-6-1535 nell\’aula di Westminster l\’intrepido campione della fedeltà a Roma udì la sua condanna a morte con aspetto lieto e rara fermezza, perfettamente sottomesso alla volontà di Dio. Passò gli ultimi quattro giorni di vita in una continua e fervente preghiera. Quando il luogotenente andò a svegliarlo per comunicargli che era giunta la sua ultima ora, chiese che gli fosse concesso di dormire ancora un poco perché nella notte, a causa delle infermità, aveva riposato male. Quando si destò, sostituì al cilicio i migliori abiti che aveva perché quello era il suo "giorno di nozze". Indossò pure la pellegrina foderata di pelliccia per sentirsi a suo agio fino alla fine e non nuocere intenzionalmente alla sua salute nemmeno per un minuto. Gli sceriffi lo portarono al patibolo seduto sopra una sedia, tant\’era invecchiato e ridotto a pelle e ossa, immerso nella meditazione del Vangelo di S. Giovanni. Volle poi salire da solo il palco ferale e senza aiuto alcuno. Con voce potente disse alla folla sgomenta: "Sono venuto qui a morire per la fede della Chiesa Cattolica. Ringrazio Iddio di avermi dato il coraggio che mi ha sostenuto finora e lo prego di proteggere il re con il suo regno e di mandargli un buono consiglio". Si genuflesse, recitò il Te Deum e il salmo: In te, Domine, speravi (LXX), si lasciò bendare, sollevò le mani al cielo pregando ancora per qualche istante, e poi offerse senza indugio il suo esile collo al carnefice. Il capo del martire fu fatto bollire, fu impalato e sospeso sopra il ponte di Londra. Dopo quattordici giorni il carnefice ebbe l\’ordine di buttarlo nel Tamigi perché, anziché deteriorarsi, diventava sempre più piacevole a vedersi e la gente accorreva in tale quantità ad osservarlo da intralciare il traffico. Giovanni Fisher fu canonizzato da Pio XI con Tommaso More il 19-5-1935. Leone XIII ne aveva confermato il culto il 9-12-1886.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 240-246
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