Gregorio Barbarigo nel 1667 viene nominato vescovo di Bergamo, poi creato cardinale. Passa poi a Padova dove dà grande slancio al seminario, puntando molto sul sapere teologico, biblico, ma anche delle lingue orientali. Si fa anche riformatore dei costumi del clero e non lascia mai d\’insegnare la dottrina cristiana, di fare missioni e assistere i moribondi. Muore nel 1697. Beato dal 1761 verrà proclamato santo da Giovanni XXIII nel 1960.
Questo vescovo eroico, al dire di Giovanni XXIII, nacque a Venezia il 16-9-1625, primogenito dei quattro figli di Gianfrancesco, discendente da un\’antica famiglia dalmata e senatore della repubblica. Gregorio, a sei anni, rimase orfano di mamma, ma ricevette ugualmente una buona educazione religiosa e culturale dal babbo che rimase per tutta la vita il suo principale maestro e aiuto. Costui, oltre che abituare il figlio allo studio, alla serietà e alla sincerità, gl\’insegnava a fare speciali orazioni tre giorni prima e tre giorni dopo la comunione domenicale.
Gregorio non aveva ancora diciott\’anni quando il padre decise di farne un diplomatico. Per questo lo mandò a Munster (Vestfalia) in qualità di segretario di Alvise Contarini, capo della delegazione veneziana incaricata di fare da mediatrice nella guerra dei Trent\’anni tra l\’impero e gli stati protestanti. A Colonia edificò il nunzio Fabio Chigi recitando l\’Ufficio della Madonna in Duomo con molta devozione. Tra i due sorse una stretta amicizia. Conversando e pregando insieme di frequente, il santo sentì crescere in sé il desiderio della vita claustrale.
Per conoscere meglio la volontà di Dio mise in pratica due consigli del nunzio: cercare quei libri che rivelano l\’unzione dello Spirito Santo più che le curiose notizie delle nuove scienze; studiare nelle scienze sacre, non esclusa la storia della Chiesa, la presenza di Dio fra gli uomini. Quando Gregorio, dopo quasi cinque anni, fu richiamato in patria, il Chigi gli disse regalandogli una copia della Filotea di S. Francesco di Sales: "Ecco una fonte dalla quale potrà attingere stimoli e incendi per la volontà e per il cuore".
A Venezia il Barbarigo fu proclamato (1650) nel palazzo ducale Savio agli Ordini, ma tra gli onori egli non si trovò a suo agio, motivo per cui, dopo lo studio e il lavoro inerente all\’ufficio, amava leggere e meditare le opere ascetiche del P. Giuliano Hayneufe S.J. (+1663), anziché partecipare a feste e a teatri. Avendo continuato a tenersi in relazione epistolare con il Chigi, dopo che questi fu eletto cardinale, andò a Roma per consigliarsi sulla via da seguire. A conclusione delle conversazioni avute con lui, accolse l\’invito di frequentare l\’università di Padova per la laurea in legge, farsi prete secolare e tornare a Roma dove la messe era abbondante, ma pochi gli operai. Ricevette il presbiterato il 21-12-1655 dalle mani del patriarca di Venezia Gianfranceschi Morosini. Due mesi dopo si stabilì a Roma per invito, pare, del suo consigliere, diventato papa Alessandro VII, che lo elesse Referendario delle Due Segnature, Prelato domestico e, in seguito, canonico della cattedrale di Padova.
Il Barbarigo, oltre che allo studio del diritto e delle cause affidategli, continuò ad approfondire i preferiti studi delle matematiche e della storia ecclesiastica frequentando i dotti di Roma finché non ne fu distolto dalla peste. In principio fu preso dalla paura, ma quando lo deputarono all\’organizzazione della pubblica santità in Trastevere, scese tra la gente, sconvolta dal dolore, condusse a termine il censimento dei poveri e dei malati, dispose che fossero portati gli aiuti necessari alle case "serrate" ed organizzò il lavoro dei monatti. Al padre che, preoccupato, gli raccomandava di non esporsi al pericolo, rispondeva che aveva un efficacissimo rimedio per la salute: "L\’allegria del cuore, fomentata dalla speranza del bene".
Mentre il santo stava rischiando la vita per i fratelli (1656), a Bergamo moriva il vescovo Luigi Grimani. Era ben lungi però dall\’immaginare che il Papa lo avrebbe eletto al suo posto. Accettò quella dignità perché gli avrebbe offerto l\’occasione di lavorare e di soffrire senza "vanagloria" e senza "sfarzo".
Prima della consacrazione episcopale fece gli esercizi spirituali presso i Gesuiti, e propose di guardarsi "dall\’occasione dei peccati veniali", di "non trascurare per qualunque cosa l\’esame due volte al giorno" e di praticare quotidianamente "almeno quattro atti di mortificazione". Lasciò i mobili e parte della biblioteca ai Gesuiti, distribuì il resto delle suppellettili e la biancheria ai poveri, e poi partì (1657) verso il campo di lavoro insieme con il famoso quaresimalista Paolo Segneri S.J. (+1694), la cui corrispondenza con il Barbarigo ci fa conoscere la loro comune avversione al quietismo, propagato a Roma dal teologo spagnuolo Michele de Molinos (+1697).
A Venezia il Barbarigo si preoccupò di studiare gli Atti della Chiesa milanese composti da S. Carlo Borromeo. Nella prima lettera pastorale che indirizzò ai fedeli, scrisse: "Vi aspettate il pastore e noi procureremo l\’abbiate quale l\’attendete… Sappiamo che il nome di pastore è nome di lavoro e di affanno… Ma confidenti in Dio solo, niente possiamo temere. Non ricusiamo la fatica, non schiviamo la lotta, non amiamo la vita, non rifiutiamo la morte… Lieta ci sarà la vita in mezzo a voi, lieta per voi la morte… E per tutto comprendere in una parola, che abbraccia tutti, diciamo: Vi ameremo. Il distintivo del buon pastore è la carità". Il Borromeo costituì per lui il modello da imitare nello zelo riformatore, S. Francesco di Sales il modello da imitare nella dolcezza. Come programma della sua attività pastorale il Barbarigo si prefisse la piena attuazione dei decreti del Concilio di Trento.
Cominciò con il riformare il clero perché, diceva: "Come non potrebbe languire la vita cristiana là dove non risplende per bellezza la vita degli ecclesiastici?". Sospese perciò dalle confessioni tutti quei sacerdoti che non si sottoposero ad un esame; proibì agli ecclesiastici di assistere alle rappresentazioni teatrali; restaurò le congregazioni mensili dei casi di coscienza; promosse tra il clero incontri di studio e di preghiera, nonché gli esercizi spirituali e le missioni al popolo.
Alle ordinazioni del 1658 si erano presentati 200 candidati. Volle prendersi la briga di esaminarli e ne ordinò otto soltanto. Capì che bisognava mettere il seminario in condizione di preparare direttamente i sacerdoti necessari, e non badò a spese per restaurarlo negli studi e nella disciplina. Per due anni il santo percorse le 279 parrocchie della diocesi per la visita pastorale. Non aveva mai posseduto una salute di ferro, eppure all\’occorrenza camminava anche a lume delle torce oppure sotto lo scrosciare della pioggia.
Alla sera si ritirava presto nella sua stanza per studiare, pregare e fare penitenza allo scopo di convertire i peccatori, riportare la pace nelle famiglie e il buon costume nella società. Voleva esser chiamato al letto dei moribondi di giorno o di notte, e ai poveri che andavano a bussare alla sua porta faceva distribuire sempre qualcosa. Andava ripetendo che "l\’elemosina fatta in vita è oro, in morte argento, dopo morte rame". Per soccorrerli rinunciava al riscaldamento benché per il freddo sovente non potesse tenere la penna in mano.
Nel 1660 il Barbarigo venne fatto cardinale con giubilio dei bergamaschi ai quali i milanesi dicevano: "Noi abbiamo un santo cardinale morto, ma voi ne avete uno vivo". Quando ritornò da Roma celebrò il sinodo non con l\’intento di fare leggi nuove, ma di richiamare in vigore le antiche.
Superando ogni opposizione restaurò la vita religiosa anche nei monasteri; tenne testa ai suoi canonici che non volevano rinunciare a certi loro inveterati abusi; promosse la concordia tra i fedeli propensi al litigio; coltivò in tutti la devozione specialmente all\’Eucaristia e alla Madonna, tanto che fu accusato a Venezia di cattivarsi la nobiltà "con oratori e congregazioni e altri esercizi spirituali"; fece rifiorire le scuole della dottrina cristiana; incrementò le accademie letterarie e scientifiche e le istituzioni caritative. Tanto zelo è naturale che riuscisse scomodo a tanti infingardi e amanti del quieto vivere. Allora il santo diceva: "Operare bene e patire male è il pane quotidiano di tutti i servi di Dio, ma specialmente dei vescovi". Anziché scoraggiarsi, egli annotava dopo gli esercizi spirituali: "Amerò più le tribolazioni che le dolcezze perché in quelle vi è più della volontà di Dio". Internamente però ne soffriva fino a "rinchiudersi in camera e, gettatosi sul letto, piangere senza saperne la causa". Se il suo cuore gemeva, la sua volontà era indomita. Per vincere tante resistenze, superare la tristezza e l\’abbandono, si cingeva le braccia di catenelle e i fianchi con un cilicio trapunto di spilli. Nel corso di una malattia il medico ne lo rimproverò, e allora egli si accontentò di portare in tasca una scatoletta ripiena di cenere con cui guastare il sapore dei cibi.
Nel 1664 Alessandro VII chiamò a Roma il Barbarigo e ve lo trattenne quasi un anno con l\’ingrato compito " di vedere e studiare scritture, decidere cause e sentire contradittori". Pensava sempre di potere ritornare quanto prima nella sua diocesi, invece il papa lo trasferì alla sede di Padova rimasta vacante per la morte del cardinale Giorgio Corner.
Nell\’omelia che tenne ai fedeli il 15-8-1664 disse: "Quando qualcheduno di voi commette un peccato sappia che lo mette addosso a me per soprasoma dei miei propri. Vedete che carico, vedete che mole, vedete che monte è questo!… Non crediate mai mai che le visite, le funzioni, le udienze, le fatiche pastorali, l\’attendere al vostro profitto siano per aggravarmi o per farmi ritirare dal portarvi gli aiuti che crederò convenienti per le anime vostre; perché queste non sono quelle cose che aggravano le spalle dei vescovi. No, no! Anzi le angustie, le tribolazioni, le persecuzioni, i travagli, la morte stessa sono quell\’amabilissima eredità che ci ha lasciato il nostro Sommo Pastore, il sommo vescovo delle anime nostre. Ma per lo contrario il vedere stramazzare all\’inferno le anime redente con il prezioso sangue di Gesù Cristo senza poter portare loro rimedio, perché non lo vogliono prendere ; il vedere il peccatore vivere ostinato nel suo peccato senza voler sentire ammonizioni, correzioni, flagelli di Dio, ecc.; il vedere certe occasioni di scandali, di peccati senza sapere che ripiego prendere: questi, fratelli, saranno i miei crepacuori, questi i miei guai, queste le mie lacrime".
A Padova il santo, nei trentatré anni di governo, concluse la grande opera della riforma del clero e dei fedeli iniziata a Bergamo. La sua lontananza dalla diocesi fu breve per i conclavi di Clemente IX (1667), Clemente X (1670), Alessandro VIII (1689). Per tre anni e mezzo dovette invece trattenersi a Roma dopo l\’elezione del B. Innocenzo XI (1691), da lui propugnata, perché fu nominato membro di varie Congregazioni e visitatore di monasteri e conventi. A tali uffici aggiungeva la visita ai malati, il soccorso ai poveri, l\’insegnamento della dottrina cristiana e le consacrazioni episcopali tra cui è da ricordare quella dello scienziato Nicolò Stenone (+1686). Il seminario e la diocesi li dirigeva con le lettere che scriveva dall\’appartamento che un amico gli aveva messo a disposizione e in cui aveva fatto preparare un giaciglio "di paglia e di tavole".
Quando il Barbarigo ritornò a Padova (1680) riprese l\’interrotta azione pastorale con più lena e maggiore esperienza. Sue grandi preoccupazioni furono quelle di avere un clero più dotto e un popolo bene istruito. Per riuscire nel suo intento proibì ai preti l\’uso di abiti borghesi, l\’assistenza a spettacoli teatrali e l\’esercizio di negozi propri dei laici; fondò in seminario un apposito "asceterio" per gli esercizi spirituali del clero; eresse la congregazione di S. Egidio per promuoverne la riforma. Convocò pure due sinodi. A proposito dell\’ultimo (1682) scrisse al granduca Cosimo III de\’ Medici: "Io non faccio altro che confermare i sinodi fatti dai miei antecessori, avendo avuto sempre opinione che al mondo vi sia più bisogno di esecuzione che di legge".
Come S. Carlo, introdusse l\’uso di adunare periodicamente i vicari foranei per trasfondere in essi il suo zelo. Preoccupato di continuo di promuovere la gloria di Dio, diceva loro: "Ohimè! Se per mia e vostra negligenza si dannassero le anime! Il libro che voi dovete studiare è il crocifisso! Oh, se fossero studiosi i parroci di questo sacro libro e leggessero in lui almeno un\’ora dal giorno!".
In loro aiuto, dove più urgeva il bisogno, faceva accorrere gli Oblati dei Santi Prosdocimo e Antonio da lui eretti in Congregazione nel seminario il 12-3-1671.
Per attuare la riforma nel popolo dopo due mesi dall\’ingresso in diocesi il Barbarigo iniziò le periodiche visite pastorali alle 320 sue parrocchie, indossando strumenti di penitenza, e non le terminò che sette giorni prima della morte. Gli Atti che le ricordano riempiono ben 34 volumi nell\’archivio vescovile. Per sovvenire alle loro spirituali necessità cercò di aumentare il numero e la formazione del clero comprando il monastero soppresso di Santa Maria in Vanzo, capace di ospitare oltre 200 alunni (1670). Gli aspiranti al sacerdozio li portò da 12 a 150 e ad essi diede da osservare le regole scritte da S. Carlo Borromeo per i suoi seminari e per essi adottò la Ratio Studiorum dei Gesuiti.
In qualità di protettore della Dalmazia e dell\’Albania fin dal 1663, il santo accettò l\’invito di fare del suo seminario un vivaio di missionari per l\’oriente scismatico e musulmano. V\’introdusse perciò l\’insegnamento del greco e delle lingue orientali e impiantò una tipografia, ancora esistente, per stampare anche opere di grande respiro come la Somma di S. Tommaso ed il Corano, confutato da Ludovico Marracci. A chi gli faceva notare che i frutti non avrebbero compensate le spese ingenti sostenute per la stampa di opere in lingue orientali, rispose: "Questo non importa. Operiamo noi dal canto nostro quel che stimiamo meglio e lasciamo poi che Dio disponga per l\’avvenire". Provvide pure il seminario di rettori e professori fatti venire persino dall\’estero perché erano all\’altezza del loro compito, di una buona biblioteca, di un osservatorio astronomico e lo seguì nel suo sviluppo e funzionamento. All\’amico Cosimo III confidava: "Il seminario è l\’unico spasso che trovo fra le spine del governo episcopale".
Convinto che senza istruzione religiosa era impossibile fare rifiorire la pietà e i buoni costumi nei fedeli, anche a Padova il santo ebbe somma cura dell\’istituzione e del buon funzionamento delle scuole della dottrina cristiana in quasi tutte le parrocchie. Esse erano servite da una folla di maestri, e si articolavano nelle cinque classi, divise in sezioni di otto alunni ciascuna, e nella congregazione degli adulti, considerati come la sesta classe. Nelle visite pastorali egli riservava a sé il controllo di dette scuole per ricompensare i parroci, i catechisti e gli alunni diligenti, e riprendere i trascurati. All\’istruzione dei ricchi provvide con speciali predicazioni in duomo prima della Pasqua; a quella di 700 poveri provvide con il catechismo che faceva spiegare loro nei cortili dell\’episcopio ogni venerdì prima della distribuzione delle elemosine. Pensò pure a fondare un collegio per i figli dei nobili, un ginnasio gratuito per i figli del popolo e un collegio per le fanciulle povere.
Tanta attività logorò le forze del Barbarigo che andava ripetendo: "Lavoriamo! Lavoriamo! Un vescovo non deve sapere cosa sia riposo". Un giorno lo colse una delle solite febbri, si mise a letto e più non si alzò. Al pensiero del giudizio di Dio imminente temette per i propri peccati e quelli del popolo. Se fosse guarito pensava di ritirarsi in un eremo e farne penitenza, invece andò in Paradiso il 18-6-1697 dopo avere esclamato: "O Signore, ho sperato in te; che non resti confuso!".
Pio VI lo beatificò il 18-9-1796 e Giovanni XXIII lo canonizzò in modo equipollente il 12-6-1960. Il suo corpo è venerato nel duomo di Padova.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 203-208
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