San Felice da Nicosia (al secolo Giacomo Amoroso), nacque a Nicosia, in Sicilia il 5 novembre 1715. Era laico dell\’Ordine dei Frati Minori Cappuccini dove, dopo essere stato rifiutato per dieci anni, era entrato svolgendo i più umili servizi in semplicità e purezza di cuore. Per oltre quarant\’anni ha offerto il suo servizio di mendicante svolgendo un apostolato itinerante. Analfabeta, ha però avuto la scienza della carità e dell\’umiltà.
E\’ un umile fratello laico cappuccino, che ha saputo sillabare in ginocchio tutti i versetti del Vangelo, specialmente quelli che parlano di pazienza, semplicità e penitenza. Egli nacque a Nicosia, in provincia di Enna (Sicilia), il 5-11-1715 da Filippo e Carmela Amoruso, poverissimi calzolai. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Giacomo. Il padre gl\’insegnò presto a rattoppare ciabatte e a frequentare la Confraternita dei Cappuccinelli. In seguito, perché imparasse a guadagnarsi la vita, lo impiegò nel calzaturifìcio di Giovanni Ciavarelli. Giacomo crebbe devoto e laborioso. Cominciava la giornata ascoltando la Messa e facendo talora la comunione.
Quando entrava nel laboratorio, sulle cui pareti troneggiava un\’immagine raffigurante il trionfo della SS. Eucaristia, esclamava: "Sia lodato ogni momento il SS. Sacramento". La sera, quando la campana dei cappuccini suonava compieta, cominciava la recita del Rosario per volontà del padrone. Qualcuno lo trattava da bigotto, ma egli si limitava a rispondere: "Sia per l\’amor di Dio". Il ritornello costituirà il programma di tutta la sua vita. Qualcuno bestemmiava, e allora Giacomo non si limitava a riprenderlo, ma pregava anche per la conversione del peccatore. Un giorno un operaio proferì una sequela di ingiurie contro Dio e i santi perché con il trincetto aveva fatto un occhiello nel tomaio di una scarpa. Per calmarlo il beato si sentì ispirato a prendere in mano la scarpa rovinata e ad applicare un po\’ della sua saliva sul taglio. Quando la restituì all\’operaio l\’occhiello era sparito.
Il santo lavorò con il Ciavarelli fino a diciotto anni. Sentendosi da Dio chiamato a una vita umile, povera e mortificata, per ben tre volte, in anni successivi, andò dal P. Guardiano dei Cappuccini a supplicarlo perché lo ricevesse nell\’Ordine come fratello laico. Il favore gli fu accordato
354
soltanto alla morte dei genitori (1743), benché avesse vent’otto anni e non fosse mai andato a scuola. Il provinciale lo mandò a fare il noviziato nel convento di Mistretta (Messina) dove, con il saio francescano, assunse il nome di Fra Felice. E tale egli fu per tutta la vita nonostante le umiliazioni alle quali fu sottoposto da parte e di superiori e di confratelli.
Dopo la professione il beato fu destinato al convento di Nicosia, sede degli studenti della provincia, dove fino alla morte fu l\’uomo di fatica. Difatti fece il portinaio, l\’ortolano, l\’infermiere, il calzolaio, a seconda degli ordini ricevuti, senza dare mai il minimo segno d\’impazienza.
Quando fu nominato cercatore principale, Fra Felice riguardò la bisaccia come lo strumento per la propria santificazione offertogli da Dio medesimo. Più volte cadde sfinito sotto il peso di essa, fino a riportarne un\’ernia intestinale, ma non permise mai che altri la portassero al convento al suo posto. Diceva: "E la croce impostami dal Signore, e debbo portarla da solo fino sulla vetta del Calvario. Sia per l\’amor di Dio".
Ai disagi inerenti al propri ufficio, Fra Felice aggiungeva ogni giorno altre afflizioni. Sovente si nutriva soltanto di pane e acqua. Il cibo che avanzava correva a distribuirlo ai poveri. Quando non passava la notte in chiesa, davanti all\’altare, dormiva o sopra un sacco ripieno di tralci o per terra con un tronco di legno per cuscino, oppure sulle zolle del camposanto dei frati. Durante le afose giornate della questua, per provare un po\’ della sete di Gesù in croce si privava persino di un bicchiere d\’acqua o di un sorso di vino. Quando morì gli fu trovata sulla spalla destra, su cui gravava il peso della bisaccia, una rotella di legno con delle punte di ferro, e attorno alle braccia e alle tibie catenelle pungenti. Portava sul petto, a sinistra, una croce da cui sporgevano cinque chiodi, e, a destra, un quadretto dell\’Addolorata con sette punte acuminate. Attorno ai fianchi aveva un cilicio con gli anelli dentati così affondati nella carne da non poterli togliere senza strapparla.
Il Guardiano del convento, P. Macario, si era messo in testa di dovere mortificare il beato per tenerlo nell\’umiltà. Lo chiamava quasi sempre con il nomignolo di Fra Scontento, e lo tacciava di poltrone benché non si concedesse mai un minuto di riposo. Perché la gente aveva cominciato a venerarlo, alla presenza anche degli estranei lo accusava d\’ipocrisia.
Una sera Fra Felice giunse in ritardo a mensa. Al vederlo il Guardiano comandò ironicamente ai religiosi presenti: "Alzatevi che entra il santo della Mecca!". Il fraticello s\’inchinò a baciare il pavimento e a chiedere la benedizione al superiore, ma mentre si avviava al proprio posto, sentì dirsi: "O frate Scontento e fariseo, come ardite sedervi a mensa con i
355
fratelli dopo una mancanza simile? Andate nella stalla; il vostro posto è là". Fra Felice ubbidì. Di lì a poco fu richiamato. Prima di mettersi a sedere s\’inchinò davanti al Guardiano sospirando in cuor suo: "Sia per l\’amor di Dio".
Anziché rattristarsi o risentirsi per tanti cattivi trattamenti, l\’umile fraticello andava ripetendo a mo\’ di ritornello: "Usatemi la carità di trattarmi come l\’asino del convento; copritemi di vituperi; sono un miserabile pieno di peccati". Il P. Guardiano lo prese in parola e, fino alla morte, fece finta d\’ignorare che l\’autorità Dio gliel\’aveva data perché edificasse la propria comunità, e non perché bistrattasse ingiustamente un povero fratello laico, che aveva l\’unico torto di provvedere il cibo quotidiano ai padri e agli studenti del convento.
Il segreto degli eroismi di Fra Felice e dell\’innocenza battesimale da lui conservata sempre intatta, era l\’Eucaristia. Da essa gli derivava quell\’assillo che sentiva dentro di sé di dare conforto agli uomini in compenso delle elemosine che gli facevano. Un po\’ alla volta egli diventò l\’aspettato di tutte le famiglie, il confidente e il depositario dei segreti di tutti gli afflitti, i malati, specialmente dopo che i suoi concittadini si avvidero che Dio gli aveva concesso il dono dei miracoli, della profezia e del discernimento degli spiriti.
Un giorno d\’inverno, mentre Fra Felice tornava al convento con altri compagni, gli si accostarono due ragazzi laceri e piangenti. Il beato si sentì spinto a donare loro il mantello, ma Macario che cosa gli avrebbe detto per quella illecita amministrazione? Rallentò comunque il passo, finse che il mantello gli sdrucciolasse giù dalle spalle e di non accorgersi che i due tapini si erano precipitati a raccoglierlo, ma non era ancora arrivato alla cappelletta della Madonna che era quasi alla sommità della stradicciuola che dalla città porta al convento, che il mantello era tornato d\’improvviso sulle sue spalle. La Vergine SS. glielo aveva restituito più nuovo.
Per intercessione della Madre di Dio Fra Felice operò diversi strepitosi miracoli. Un giorno, mentre passava per una stradetta di Nicosia, una bimba gli corse incontro gridando: "Fra Felice, venite a guarire il babbo mio che muore!". Il fraticello tirò fuori dalla tasca un\’immaginetta della Madonna e gliela diede dicendo: "Prendila, falla inghiottire al babbo e vedrai che guarirà". Un\’altra volta, presentandosi ad un benefattore per la questua del vino, si sentì rispondere che non ne aveva neppure una goccia. Scesi insieme in cantina. Fra Felice s\’inginocchiò davanti alla botte, recitò una Ave Maria, con la saliva vi appiccicò sopra una delle solite
356
polizzette raffiguranti l\’Immacolata Concezione nella quale fermamente credeva, e poi praticò nella botte un piccolo foro. Subito ne sprizzò vino con tanta forza da sembrare che la botte fosse piena. Il beato guarì un confratello dalla polmonite dandogli da mangiare una scodella di pan cotto, da bere una tazza di vinello e nutrendo molta fiducia nella Vergine SS. Un giorno con altri pellegrini si recò a Nicosia un povero storpio. Fra Felice lo portò sul suo giaciglio e lo guarì all\’istante dandogli una immaginetta dell\’Immacolata e facendogli promettere che per tutta la vita avrebbe recitato in suo onore tre Ave Maria e tre Gloria Patri.
Non minori furono i prodigi operati da Dio per intercessione di Fra Felice in merito della sua ubbidienza ai superiori. Il Viceré della Sicilia in una sosta a Nicosia volle conoscere Fra Felice di cui tutti parlavano con ammirazione. Il P. Guardiano glielo mandò dicendo all\’interessato: "Sua Altezza vuole parlare con voi… così si accorgerà anche lui che la fama della vostra santità non è che effetto di raffinata ipocrisia". Mentre i due conversavano, P. Macario li interruppe dicendo: "Fra Scontento, voi state costì a blaterare e non vi accorgete che Sua Altezza ha sete e desidera un po\’ d\’acqua della nostra cisterna!". Il fraticello si precipitò nel chiostro, ma poco dopo comparve costernato per dirgli che non trovava la secchia.
Il Guardiano, che l\’aveva fatta nascondere di proposito, afferrò un vecchio paniere di vimini e porgendoglielo gli disse: "Mettetela qui, presto". Fra Felice ubbidì senza fiatare, calò il paniere nella cisterna e lo ritrasse pieno d\’acqua, senza che ne trasudasse una goccia. Un giorno Fra Felice stava spillando il vino per la comunità quando si sentì chiamare dal Guardiano. Preoccupato di ubbidire prontamente, corse con lo zipolo in mano, lasciando la botte aperta. Nell\’istante stesso in cui il beato si allontanò, il vino cessò di scorrere. Il P. Provinciale si recò a Nicosia per rendersi conto che cosa ci fosse di vero in quello che sentiva dire di Fra Felice. In un meriggio d\’estate gli ordinò di andare ad innaffiare gli erbaggi dell\’orto ed egli ubbidì senza fargli notare che l\’ora era la più impropria. Dopo un po\’ di tempo il P. Provinciale lo chiamò e Fra Felice, per ubbidire prontamente, lasciò che l\’acqua continuasse a scorrere giù per il pendio senza preoccuparsi dei danni che avrebbe arrecato. Essa invece non solo arrestò la propria corsa, ma tornò indietro, in attesa che l\’uomo ubbidiente ritornasse a compiere l\’opera impostagli tanto impropriamente.
Un giorno alcuni secolari stavano visitando il convento. Alla loro presenza P. Macario ordinò a Fra Felice di andare ad attingere acqua alla cisterna. Mentre si allontanava per eseguire l\’ordine, il Guardiano gli
357
disse: "Se invece di scendere tutte le scale passaste per la finestra non fareste più presto?". I visitatori pensarono ad una celia, ma trasalirono quando videro il fratello laico infilare la finestra e sparire nel vuoto. Si sporsero dal davanzale e costatarono che scendeva come se una mano invisibile lo accompagnasse. Un giorno in cui il P. Guardiano mandò Fra Felice in città a fare una commissione, pioveva a dirotto. Nella fretta di eseguire il comando aveva dimenticato l\’ombrello. Il beato andò e ritornò senza bagnarsi e inzaccherarsi.
Per ubbidienza e per amor di Dio Fra Felice si adattò persino a fare da giullare alla presenza dei frati, dopo la cena, in tempo dì carnevale. Si vestì da buffone e poi, nonostante gli strumenti di penitenza che portava indosso, si mise a cantarellare, a fare salti e capriole quasi adempisse l\’azione più gradita al Signore. Ad un certo punto qualche confratello gli mise sulle spalle un straccio, in testa un cesto di cenere, ed il Guardiano gl\’ingiunse d camminare su e giù per il refettorio gridando: "Ricotta, ricotta calda!". Il beato si prestò allo scherzo senza nulla obiettare, ma ad un certo momento dal cesto uscì un profumo che costrinse P. Macario ad alzarsi da tavola, prendere il cesto e posarlo a terra. Che era successo? La cenere si era realmente trasformata in fumante ricotta!
Un giovedì santo Fra Felice fu incaricato di badare all\’altare della riposizione del SS. Sacramento. Dopo la mezzanotte, cessata la visita dei fedeli, il beato rimase solo nella chiesa a meditare l\’amore infinito di Gesù per gli uomini. Ma perché dovevano rimanere soltanto poche candele attorno al divino Prigioniero? Fra Felice, in un impeto incontentabile di carità, diede fuoco a tutti i lumi della Chiesa. Al mattino i confratelli, davanti a quella illuminazione plenaria, pensarono che il beato ne avesse combinata una delle sue, e invece costatarono che la cera delle candele non si era consumata e che l\’olio nelle lampade era addirittura cresciuto.
Lo stesso spirito di carità spingeva Fra Felice a dimenticare se stesso per aiutare il prossimo malato, carcerato, affamato, disgraziato. In quel di Sperlinga un contadino aveva acceso, all\’aperto, da tre giorni una fornace per fare la calce. Un improvviso acquazzone minacciava di distruggergli ogni cosa quando passò di là Fra Felice. Appena egli vide il povero uomo con le mani nei capelli, s\’inginocchiò davanti al cratere fumante, pregò, si segnò e poi penetrò nella fornace. Ad un tratto il cielo si rasserenò e il beato uscì all\’aperto senza una strinatura.
Quando Fra Felice passava per le viuzze in cerca di elemosine per il convento, non gli mancava mai il corteggio dei mendicanti. Un giorno una
358
povera donna con il marito malato, lo supplicò di un aiuto. Il beato le offerse i pochi tozzi di pane che aveva, raccomandandole di metterli a bollire in un pentolone. La donna gli diede ascolto e la zuppa si moltiplicò talmente che ne ebbe per tre giorni. Il marito, appena l\’assaggiò, guarì.
Una volta una sposa andò piangendo al convento per dire a Fra Felice che il suo uomo, lontano da casa per lavoro, da parecchi mesi non le mandava l\’occorrente per vivere. Il beato le disse: "Fate una lettera e portatemela al convento; penserò io a fargliela recapitare". La sera stessa la donna eseguì il comando e la mattina dopo Fra Felice scese nella casa di lei con la risposta e quatto ducati. Aveva fatto la commissione senza muoversi dal convento!
Per la grande carità che esercitava verso i poveri, i malati, i carcerati, Dio fece sì che la bisaccia di Fra Felice diventasse magica. Offerenti sbadati gli davano talvolta delle sostanze non commestibili. A contatto della sua fiasca cambiavano natura. Per burlarsi di lui il figlio di un barone gli riempì la bisaccia di acqua. Fra Felice consegnò al cuoco del convento dell\’ottimo vino. Un incredulo nella virtù taumaturgica del fraticello gli offerse dell\’olio a condizione che lo portasse al convento nella bisaccia. Fra Felice lo prese all\’istante in parola. Passando per la questua in casa di una benefattrice la trovò afflitta perché le si era sfasciata una botte contenente dell\’ottimo vino. Fra Felice l\’esortò ad avere fiducia in Dio. Scese quindi nella cantina, pregò inginocchiato per terra, raccolse la poltiglia rimasta sul terreno e la rimise nella botte. Essa al tocco delle sue mani si era aggiustata automaticamente e si trovò ripiena di un vino eccellente.
Altre volte Fra Felice, nelle sue corse per la questua, riparò dalle acque e dal fuoco i raccolti dei contadini ammucchiati sulle aie esclamando: "Sia per l\’amor di Dio". Ad una benefattrice liberò il frumento dalle tignole camminandovi sopra a piedi scalzi, pregando e dicendo a voce alta: "Sia per l\’amor di Dio!". In questa maniera il beato polarizzò attorno a sé l\’animo delle persone di tutti i ceti sociali. Sovente giungevano a lui addirittura delle "commissioni" per chiedergli di recarsi anche in città lontane a placare la furia degli elementi, a cacciare i demoni dalle mandrie, a guarire i malati, a pacificare i litiganti. Da Messina giunsero un giorno a Nicosia persino alcuni appassionati del lotto per chiedergli il terno. Il povero fraticello senza ridere, né sdegnarsi, li condusse al mattino presto ad una cappella del camposanto dei frati in cui era custodito in piedi il cadavere mummificato di un cappuccino. Fra Felice gli s\’inginocchiò dinanzi, pregò, il defunto si mosse, sollevò le mani al
359
cielo e dimenando il teschio gridò: "No, no, no". Per la paura gli appassionati del lotto caddero malati, ma guarirono dalla loro mania.
Sul finire del mese di maggio 1787 Fra Felice si accasciò su se stesso mentre nel giardino stava purgando dalle erbe parassite alcune piante aromatiche. Divorato dalla febbre, fu costretto a mettersi a letto. Quando gli portarono il viatico lo volle ricevere inginocchiato in mezzo alla cella. Prima di morire consegnò al Guardiano le poverissime cose che aveva: il bastone, la tabacchiera di canna e il libro delle preghiere. Volò al cielo, dopo aver molto pregato, con il permesso del superiore, il 31-5-1787.
A contatto del suo cadavere un bambino di sei anni, storpio e rattrappito, riacquistò all\’istante la sanità. In seguito al prodigio, a tre giorni dalla morte, per assicurarsi della sua santità, i confratelli gli tagliarono una vena. Da essa ne sprizzò un fiotto di sangue caldo e vermiglio. Fra Felice da Nicosia fu beatificato da Leone XIII il 3-2-1888. Le sue reliquie sono venerate a Nicosia nella chiesa del convento in cui visse.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 354-360
http://www.edizionisegno.it/