Nacque il 2-8-1897 a Trivolzio (Pavia), Assetato di Dio, quando disponeva di una certa libertà, il santo si immergeva talmente nella preghiera da perdere la nozione del tempo e dell\’avvicendamento delle persone nei vari uffici. In un anno e mezzo di professione semplice egli trovò quello che sospirava: "la più grande consolazione dell\’anima e la più invidiabile pace dello spirito". Per il suo angelico sorriso tutti lo chiamavano "il S. Luigi di Brescia".
Medico-chirurgo e religioso dei Fatebenefratelli, il Pampuri nacque il 2-8-1897 a Trivolzio (Pavia), decimo di undici fratelli, dai coniugi Innocente Pampuri e Angela Campari, i quali gestivano una trattoria. Al fonte battesimale gli furono imposti i nomi Erminio e Filippo. Atre anni, essendo rimasto orfano di madre, fu preso in casa degli zii materni che abitavano a Torrino di Trivolzio. Essi lo educarono come un figlio nello spirito del Vangelo. Tre persone soprattutto si presero cura della sua educazione cristiana: la domestica Carolina Bersan (+1928), grande devota dell\’Eucarestia; la zia Maria, nubile, donna di molta carità (+1951), e il dott. Carlo, medico, celibe, asceta e apostolo nello stesso tempo, il quale fu il più efficace plasmatore dell\’animo del nipote.
Erminio frequentò le scuole elementari a Trivolzio e a Casorate Primo, e la prima ginnasiale a Milano nella scuola pubblica "Manzoni" sotto la guida del fratello maggiore. Il piccolo studente crebbe timido, taciturno e riflessivo, ma senza una fisionomia spirituale ben definita benché i suoi compagni lo chiamassero il S. Luigi della classe. Dalla seconda ginnasiale fino al termine del liceo fu convittore a Pavia nel collegio S. Agostino, fondato nel 1897 dal Card. Riboldi, e frequentò la scuola pubblica ginnasio-liceo "Ugo Foscolo" rivelando una spiccata tendenza per la matematica e i libri di avventure. Si iscrisse in seguito alla facoltà di medicina e chirurgia presso l\’università di Pavia.
Da studente il santo tornava periodicamente alla casa degli zii per rifornirsi di quanto gli occorreva per il proprio sostentamento. La zia Maria faceva allora, agli addetti ai vari servizi, la solita raccomandazione: "Non lasciategli mancare niente, tanto è roba che va a finire ai poveri".
Nel 1917 il Pampuri fu chiamato alle armi benché avesse soltanto diciannove anni. Al fronte fece parte della 86a Sezione di Sanità e fu addetto all\’ospedale del corpo d\’armata funzionante come centro di rifornimento per gli ospedaletti situati nelle retrovie del Carso. In un primo tempo stette a Turriaco, poi passò a Ruda, sul basso Isonzo, dove da caporale fu promosso sergente. Nella ritirata di Caporetto, non volendo abbandonare l\’ingente materiale sanitario che doveva poi essere distribuito ai numerosi ospedaletti della zona, prese un carro agricolo abbandonato, vi aggiogò una mucca e con quello, per due giorni, batté in ritirata sotto una pioggia fredda e torrenziale. Il suo sacrificio nella confusione generale passò inosservato, ne venne premiato con qualche encomio.
Dopo il disastro di Caporetto il Pampuri prestò servizio nell\’ospedale di Medole. Dal febbraio del 1918 alla fìne di maggio, con licenza dei suoi superiori, frequentò l\’università di Pavia. Quel quadrimestre poteva equivalere, agli effetti degli esami, ai due del corso regolare. Al termine della licenza il santo fu mandato all\’ospedaletto da campo di Malonno in Val Camonica dove rimase sin quasi al termine dell\’anno. Prestò servizio anche per breve tempo nell\’ospedale succursale di Cadenabbia (Como), sebbene ai primi di gennaio del 1919 figurasse studente del quarto corso di medicina. Fino alla fine di marzo del 1920 stette ancora saltuariamente in diversi posti, ma sempre alle dipendenze dell\’autorità militare. I suoi compagni lo ricorderanno per molto tempo come un assiduo alle sue devozioni, in modo speciale alla Messa, e, nei tempi liberi, sempre intento ai sani divertimenti, alle letture e ai discorsi spirituali, più desideroso di stare unito ai sacerdoti e ai religiosi del suo gruppo anziché ai commilitoni. Il Pampuri trascorreva le vacanze nell\’austera, ma accogliente casa degli zii di Torrino. Ne approfittava per completare i suoi studi avvalendosi dell\’esperienza dello zio dottore. Con lui si recava ogni mattina alla vicina parrocchia di Tovo per fare la comunione e, durante la settimana, ogni tanto con lui scalava il Resegone o faceva distensive gite turistiche.
Nel rientrare definitivamente all\’università, il santo il 31-12-1920 scrisse alla sorella Suor Longina Maria, Missionaria Francescana in Egitto: "Prega molto affinchè io possa attingere tanta forza dalla nostra fede, così bella e così santa, da poter finalmente uscire da una vita di sterili desideri e di vane aspirazioni per cominciarne una nuova veramente feconda di opere che, rendendo a Dio la dovuta lode e ringraziamento, abbia a farmi più lieto e felice nella pace serena della sua santa amicizia".
In quel tempo i professori dell\’università esponevano con competenza le materie loro proprie, ma in fatto di religione erano degli agnostici. I loro alunni, tutti reduci dalle asprezze del fronte, avevano molti problemi da risolvere, e non sempre trovavano l\’aiuto necessario. A Pavia c\’era il circolo "Severino Boezio" in cui, chi voleva, sotto la guida di ottimi sacerdoti diocesani, trovava un ambiente cristiano. Il nostro santo lo frequentò a cominciare dal 1919 con suo grande profitto spirituale. Difatti, pur trovandosi tra compagni dissipati, egli crebbe puro, riservato nel tratto, castigato nel parlare. Molti lo superavano nell\’ingegno, ma nessuno nell\’ordine, nell\’applicazione e nel dominio di sé. Sapeva essere pio senza ostentazione. Anche gli studenti più scanzonati e più riottosi alle pratiche religiose, si sentivano presi se non da completa ammirazione, almeno da rispetto verso di lui. Egli si imponeva a tutti senza pesare perché era sincero e convinto nei suoi esercizi di pietà. Affermerà Mons. Giuseppe Ballerini, vescovo di Pavia, che al circolo universitario "Severino Boezio" portò più soci lui con il suo esempio e con l\’intemerata sua vita, che non tutte le conferenze e gli altri mezzi di propaganda, compreso, non arrossisco di dirlo, il mio personale interessamento". Quando tra i colleghi medici si spargerà la voce della sua entrata, come religioso laico, tra i Fatebenefratelli, nessuno se ne meraviglierà. Diranno, anzi: "Doveva andare così".
Quanto più il santo progrediva, altrettanto diventava più fedele, più attento, più ordinato nei suoi doveri di studente e di cristiano, di modo che lo si sarebbe potuto seguire nell\’orario della sua giornata e persino nel luogo delle sue quotidiane pratiche spirituali. Abitando vicino alla chiesa della Madonna del Carmine, non solo vi si recava puntualmente senza verun rispetto umano, ma conduceva con sé anche altri giovani per la visita al SS. Sacramento o per la recita del rosario con i fedeli. Proprio in quel tempo seppe compiere un gesto di fortezza cristiana: iscriversi al Terz\’Ordine Francescano con il nome di Fra Antonio nel settimo centenario della sua fondazione (20-3-1921). Attrattiva della sua devozione divenne allora la chiesa di Santa Maria di Canepanova officiata dai Frati Minori dove gli era facile fare la comunione anche verso mezzogiorno, al termine delle lezioni e degli esperimenti nelle cliniche, e dove Mons. Giandomenico Pini (+1930), assistente degli universitari, teneva loro adunanze mensili.
Il 6-7-1921 il Pampuri sostenne con il massimo dei voti la laurea in medicina e chirurgia e, dopo una breve supplenza nel comune di Vernale, ottenne in settembre la condotta medica di Morimondo, piccola parrocchia della "Bassa milanese", fondata nel 1182 dai cistercensi del monastero di Morimond, nell\’Alta Marna (Francia). Qui rimarrà medico dei corpi e delle anime fino alla metà del 1927, quando lascerà quegli umili contadini da lui tanto amati per il convento.
Il santo abitava con la sorella Rita (+1979) nel piccolo appartamento situato nell\’antico palazzo della foresteria dei monaci, a circa cinquanta metri dalla splendida chiesa parrocchiale, ma non aveva modo di starsene in ozio perché la condotta comprendeva tre parrocchie molto sparse: Morimondo, Fallavecchia e parte di Besate. Con difficoltà poté disporre del proprio tempo pur essendo provvisto di una bicicletta e di una modesta carrozzella donata e mantenuta dagli zii di Torrino. In principio non fu subito compreso, ma quando la gente si avvide che era diverso dagli altri, ripose in lui la sua fiducia e cominciò a chiamarlo "il dottorino santo".
Il programma di vita del santo era costituito dal motto: "Preghiera, Azione e Sacrificio", impresso sul distintivo della Gioventù Cattolica che portava sempre e dovunque senza ombra di rispetto umano. Soleva esclamare: "Quanti meriti può acquistare un uomo facendo con gioia e offrendo a Dio ogni opera come preghiera!". E propose: "Voglio servirti, mio Dio, per l\’avvenire con perseveranza e amore sommo… nei malati tuoi prediletti: dammi la grazia di servirli come servirei Te".
Il Pampuri fu l\’uomo del dovere che compì sempre integralmente fino allo scrupolo. Ritenne difatti la sua attività professionale come una vera e alta missione. La iniziava ogni mattina prendendo parte puntualmente alla Messa e facendo la comunione. La chiudeva ogni sera rifugiandosi in chiesa e stando a lungo in preghiera davanti al tabernacolo noncurante delle proteste della sorella per la cena che si raffreddava. Quando gli era dato di stare solo, tirava fuori di tasca un libretto che portava abitualmente con sé, ne leggeva alcune pagine e poi si immergeva per qualche ora nella meditazione. Lasciava la chiesa solo quando il sacrestano la chiudeva. Durante la giornata si udiva sovente canterellare motivi religiosi, si vedeva sgranare la corona del rosario o correre in chiesa quando aveva qualche momento libero, essendo abituato a negarsi ogni legittimo svago.
A chi si meravigliava delle sue quotidiane pratiche di devozione, il santo dottore rispondeva: "La mia lampada è piccola! Bisogna che la alimenti continuamente. Io non voglio restare al buio. Non servirebbe neanche un bel lampadario se non vi arrivasse la corrente".
Il santo non conobbe crisi religiose anche perché non andò mai soggetto a rispetto umano. Se durante le visite ai malati sentiva suonare mezzogiorno scendeva dalla bicicletta o dal calesse, si scopriva il capo, faceva un largo segno di croce e non riprendeva il viaggio se prima non aveva recitato l\’Angelus. In casa, sul suo modestissimo tavolo di studio, teneva un crocifisso al quale rivolgeva sovente infuocate espressioni di amore. Pur essendo parco nel cibo, il suo pranzo era sempre molto lungo e silenzioso perché s\’immergeva nella lettura di pubblicazioni religiose. Nel conversare si animava soltanto quando il discorso verteva sui misteri della fede. Allora alzava la voce più del consueto e si trasformava in apostolo. A coloro che scivolavano in recriminazioni del prossimo diceva: "La mia casa è aperta a tutti, in essa però non devono entrare le critiche".
Nei sei anni di permanenza a Morimondo, il Dott. Pampuri fu esemplare nella cura dei malati. Li visitava e li assisteva di giorno e di notte senza dare segno di noia o di impazienza, e si preoccupava non soltanto della loro salute corporale, ma anche di quella spirituale. In ciascuno di loro vedeva il Signore. Ai familiari dei malati più gravi raccomandava di pregare dicendo: "Vedrete che il Signore vi aiuterà". Alla presenza di un medico condotto di tanta fede gli ammalati aprivano il cuore alla speranza e per niente intimoriti gli chiedevano talora la corona del rosario. Il santo prediligeva i vecchi e i cronici perché, diceva: "Con loro posso ragionare delle cose dell\’anima e li aiuto a rendere meno pesante la loro vita, insegnando loro a sopportare cristianamente gli acciacchi dell\’età mediante la preghiera e l\’offerta al Signore". Quando qualcuno di loro moriva egli prendeva parte al loro funerale senza fare distinzione tra il benestante e il povero.
Il Dott. Pampuri svolgeva il suo compito con competenza professionale, con integrità morale e una certa austerità dovuta al suo temperamento riservato, incline all\’ordine e alla minuzia. Era ben nota la sua delicatezza nelle visite o consulti medici con le persone di altro sesso. Quando non riusciva a diagnosticare il male le inviava da specialisti e pagava loro quanto era dovuto per il consulto. Un giorno una donna della sua condotta morì senza assistenza medica a causa di una sua momentanea assenza. Ne rimase desolato. Difatti il 29-11-1926 scrisse alla sorella: "Mi sembra che questo sia un chiaro avvertimento del Signore affinchè abbia da raccogliermi una buona volta dalla mia troppa dissipazione, tralasciando ogni occupazione e preoccupazione inutile o superflua o estranea, per attendere con più attenzione e amore e tranquillità allo studio e alla cura dei miei malati, poiché essendo questi affidati in modo tutto speciale ed esclusivo a me, per dovere professionale, di questi dovrò rendere speciale conto al Signore".
Il denaro non aveva mai allettato il santo sia perché gli zii di Torrino lo rifornivano abbondantemente di tutto quello che gli occorreva, e sia perché gli premeva di vivere conforme agli insegnamenti del Vangelo. Del resto, anche i parrocchiani sapevano che le 15.000 lire annue che riceveva dal comune come stipendio della condotta andavano a finire in soccorsi ai poveri e ai malati, alle opere parrocchiali e alle missioni. Ai bisognosi donava anche con generosità scarpe, biancheria, vestiti e coperte. La sorella protestava, ma egli la riduceva al silenzio dicendo: "Si può dire di no a chi ha bisogno?". Oppure: "Io viaggio sul biroccio, gli altri vanno a piedi, quindi di suole ne consumano più di me". Non minore cura il Pampuri dedicò ai giovani di cui era diventato apostolo e per i quali aveva allestito, a proprie spese, un teatrino parrocchiale, fondato il circolo della Gioventù di Azione Cattolica "Pio X" e la banda musicale.
La domenica il Dott. Pampuri si trasformava in "raccoglitore" di ragazzi e di giovani sbandati a causa della guerra, e con essi prendeva parte in chiesa alle funzioni del mattino e del pomeriggio. Ad essi, durante le funzioni liturgiche e durante i loro raduni, rivolgeva fervide e sagge esortazioni per aiutarli a vivere conforme alla loro dignità di fìgli di Dio, uniti alla chiesa e alla famiglia. Mons. Luigi Mainardi, assistente dei giovani di Azione Cattolica, parlando del Dott. Pampuri un giorno esclamò; "Ah!… quello era uno in gamba!".
Per esercitare tra la gioventù un più efficace apostolato, il santo frequentava a Triuggio la villa del S. Cuore dei Padri Gesuiti, e tutti gli anni vi conduceva folti gruppi di giovani e operai, di contadini e padri di famiglia, perché si ritemprassero nello spirito con gli esercizi spirituali di S. Ignazio. Egli stesso cercava di accrescere la propria cultura e di perfezionarsi nello spirito leggendo giornali e riviste di sicuro indirizzo cattolico, meditando il Vangelo, le Lettere di S. Paolo e l\’Imitazione di Cristo, studiando gli scritti dei Santi Padri, i pensieri del B. Contardo Ferrini (+1902) e la storia della Chiesa. Per dare sfogo alla sua devozione nel 1923 prese parte a Genova al Congresso Eucaristico Internazionale e, nel 1926, si recò in pellegrinaggio a Lourdes, dove rimase impressionato della grande fede dimostrata dai malati. Quando entrò in convento i giovani, che avevano preso ad amarlo e a seguirlo, per un po\’ di tempo furono uditi esclamare: "Dei dottori ne troveremo subito altri, ma un fratello come il Dott. Pampuri non l\’avremo mai più!". E confessavano candidamente di essersi sentiti diventare migliori solamente con lo stare vicino a lui.
Quando il Pampuri giunse a Morimondo non esisteva ancora la sezione parrocchiale "Pro Missioni". Appena fu costituita egli ne divenne il segretario cassiere. Per il suo zelo le 95 lire che i mille abitanti della zona offrirono nel 1922 per le missioni passarono a L. 1.525 nel 1927. Un debole il santo ebbe sempre per gli Istituto Missionari. Li aiutava in tutti i modi vivendo in francescana povertà. Se qualcuno si meravigliava di vederlo sempre in bolletta, pensando alle missioni rispondeva: "I miei risparmi io li mando all\’estero dove mi fruttano il cento per uno".
Sotto la guida del santo fiorì pure l\’opera della buona stampa di cui comprendeva l\’importanza per l\’elevazione spirituale della società. Non minore fu il suo interessamento per il decoroso svolgimento delle funzioni sacre in chiesa. Quando il parroco, Don Cesare Alesina, celebrò il decennale del suo ingresso in parrocchia, egli gli fece dono di un "armonium" con l\’aiuto di altri benefattori. In seguito si adoperò per provvedere la vastissima chiesa parrocchiale di un bei parato in broccato rosso.
Qualche anno dopo il suo arrivo a Morimondo, al Dott. Pampuri capitò quello che capita d\’ordinario ai giovani di buona famiglia e con una invidiabile posizione sociale: una proposta di matrimonio. Egli la rifiutò garbatamente dicendo che non si sentiva chiamato allo stato matrimoniale. Tuttavia bisogna notare che la vocazione alla vita religiosa non fu repentina in lui. Egli stesso ad una famiglia di Morimondo che gli esprimeva il proprio dispiacere per la sua partenza per il convento dichiarò che, all\’età di otto anni, già aveva sperimentato il desiderio di farsi religioso. Il Signore in seguito non glielo fece più percepire, ma quando riapparve sentì il dovere di assecondarlo. Ne scrisse alla sorella, ma ella lo dissuase a motivo della salute.
Eppure il santo si sentiva chiamato da Dio a tale vita più perfetta. Chiese di entrare nella Compagnia di Gesù, ma i superiori dell\’Ordine non lo incoraggiarono per quella via. Gli consigliarono di entrare piuttosto tra i Fatebenefratelli con i quali avrebbe potuto esercitare la sua professione di medico e svolgere un grande apostolato al capezzale degli infermi. Il Pampuri accolse il suggerimento con gratitudine.
Don Riccardo Beretta, impiegato al segretariato dell\’Ufficio Missionario di Milano, estimatore del Pampuri e amico personale del Provinciale dei Fatebenefratelli, gli facilitò l\’ingresso nell\’Ordine. Dopo un breve periodo di riposo nella casa di Solbiate Comasco, dove poté farsi un\’idea esatta della sua futura vita a contatto dei Fatebenefratelli colà residenti, il santo chiese di essere ammesso nell\’Ordine (6-3-1927). Il P. Provinciale capì di trovarsi di fronte a un aspirante non comune e lo accettò dicendo: "Dovesse il giovane Pampuri rimanere anche un solo giorno membro effettivo del nostro Ordine, sia il benvenuto: dopo di esserci stato in terra motivo di edificazione, ci sarà in cielo anche angelo di protezione".
Il Dott. Pampuri lasciò per sempre Morimondo il 22-6-1927. Fece il probandato e il noviziato a Broscia nella casa di salute S. Orsola con il nome di Fra Riccardo, in memoria del suo amico e benefattore, Don Beretta. Non ebbe rimpianti perché gli piaceva la vita ben ordinata e l\’ubbidienza alle disposizioni dei superiori. Il 19-5-1928 scrisse alla sorella: "Se la mia insufficienza mi esporrà a delle umiliazioni, intendo fin d\’ora accettarle e offrirle al Signore".
Un compagno di noviziato di lui dichiarò: "Era davvero esemplare, ma senza forzature. Faceva tutto bene e con grande umiltà. Era sempre il primo a impugnare la scopa e a prestarsi ai lavori più ripugnanti, lui che come medico avrebbe potuto aspirare ad altro. I degenti rimanevano molto impressionati nel costatare che talora il primario dell\’ospedale lo chiamava per la visita di qualche malato, e che il Pampuri deponeva la scopa, indossava il camice e, con la massima naturalezza, faceva ciò che gli era stato richiesto".
Il P. Provinciale affidò a Fra Riccardo negli ultimi mesi di noviziato la direzione del gabinetto dentistico annesso alla casa di salute "Fatebenefratelli". A lui fecero ricorso non soltanto gli indigenti, ma anche le persone agiate, i sacerdoti, i religiosi e le suore, tanto grande era la sua competenza professionale e soprattutto la fama di santità che si era diffusa per la città. Ne erano convinte specialmente le mamme che gli presentavano i propri bambini perché imponesse loro le mani e li benedicesse benché non fosse sacerdote.
A tanto quotidiano lavoro, svolto sempre con grande spirito soprannaturale, si aggiungeva per il novizio anche quello non meno pesante della supplenza diurna e notturna ai medici che, dopo il proprio turno di servizio in ospedale, tornavano alle loro case.
Fra Riccardo fu ammesso alla professione temporanea il 24-10-1928. Fu felice di poter continuare il suo lavoro nell\’ambulatorio dentistico perché gli offriva l\’occasione di diventare "tutto e solo di Dio nel servizio dei poveri". I superiori lo incaricarono pure di preparare i novizi e i professi agli esami per il diploma d\’infermiere, ed egli vi si dedicò con impegno e competenza. Era talmente attento a nascondere i propri talenti che i confratelli lo chiamavano "il cavaliere dell\’umilità".
Assetato di Dio, quando disponeva di una certa libertà, il santo si immergeva talmente nella preghiera da perdere la nozione del tempo e dell\’avvicendamento delle persone nei vari uffici. In un anno e mezzo di professione semplice egli trovò quello che sospirava: "la più grande consolazione dell\’anima e la più invidiabile pace dello spirito". Per il suo angelico sorriso tutti lo chiamavano "il S. Luigi di Brescia".
Fratel Riccardo appariva costantemente agli occhi dei confratelli con i lineamenti di un uomo stanco e, di frequente, con un leggero rosso agli zigomi, indice di un corpo minato dalla tisi. Fu sottoposto a vari esami clinici, ma i risultati furono negativi.
Dopo un periodo di riposo in casa degli zii a Torrino e una visita a varie località del Veneto fu riportato a Brescia. Vedendo che la sua salute precipitava i parenti chiesero ai superiori che il malato fosse trasportato da Broscia alla casa di S. Giuseppe di Milano per averlo più vicino e assisterlo giorno e notte a turno. Furono accontentati il Venerdì Santo 18-4-1930. La malattia si aggravò con tanta rapidità che il morente talvolta perdeva il controllo delle sue facoltà. Si preparò alla morte ripetendo pie giaculatorie e chiedendo di tanto in tanto: "Manca ancora molto all\’inizio del mese di maggio?". Morì il 1° maggio, dopo aver ricevuti tutti i sacramenti in piena lucidità, stringendo tra le mani due crocifissi che aveva ricevuto in dono dalla sorella missionaria.
Qualche giorno prima aveva detto a Don Beretta che gli aveva amministrato il Viatico: "Padre, come mi accoglierà Iddio?". E, dopo qualche istante di silenzio, aveva esclamano sollevando gli occhi al cielo: "L\’ho amato tanto e tanto lo amo!"
Dopo i funerali, la salma del Pampuri fu trasportata a Torrino nella casa degli zii e, quindi, portata a spalla dai giovani di Azione Cattolica nel cimitero di Trivolzio tra una fiumana di gente. Fu deposta nella tomba della famiglia Campari con l\’indovinata iscrizione: "A soave ricordo di Fra Riccardo Pampuri medico-chirurgo dei Fatebenefratelli, nel secolo e nel chiostro angelicamente puro, eucaristicamente pio e apostolicamente operoso".
Il 16-5-1951 la salma del santo venne traslata dal vescovo di Pavia, Mons. Carlo Allorio, nella chiesa di Trivolzio e collocata al lato destro del battistero. Il 12-6-1978 fu riconosciuta l\’eroicità delle sue virtù da Paolo VI, il 4-10-1981 fu proclamato beato da Giovanni Paolo II e quindi canonizzato il 1-11-1989.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 20-30.
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