Nacque ad Orgosolo, nella diocesi di Nuoro, il 21-6-1919. Venne uccisa durante un\’aggressione Il 17 maggio del 1935. Dal 10-4-1983 le sue reliquie sono venerate nella chiesa del SS. Salvatore di Orgosolo. Sul luogo del martirio fu eretta una croce con queste parole: "Antonia Mesina, pura e forte". Giovanni Paolo II della Mesina riconobbe il martirio l\’8-5-1987, e la beatificò il 4 ottobre 1987. Martire della purezza a sedici anni, la Mesina è la prima giovane dell\’Azione Cattolica Femminile Italiana ad essere elevata all\’onore degli altari.
Martire della purezza a sedici anni, la Mesina è la prima giovane dell\’Azione Cattolica Femminile Italiana ad essere elevata all\’onore degli altari. Ella nacque ad Orgosolo, nella diocesi di Nuoro, il 21-6-1919, secondogenita dei dieci fìgli che Agostino, prima carabiniere e gestore di una bettola, e poi guardia campestre, ebbe da Grazia Rubanu, donna molto pia. Il padre in casa esigeva dai figli obbedienza e rispetto con un piglio piuttosto militaresco, la madre, invece, educava i figli con la dolcezza e insegnava loro a pregare mattino e sera, a recitare il rosario, a santificare le feste con la frequenza ai sacramenti. I genitori al fonte battesimale imposero alla figlia il nome di Antonia. Il 10-11-1920 fu cresimata dal vescovo Mons. Luca Capena per il timore di non potere tornare a Orgosolo entro breve tempo. Al banchetto eucaristico si accostò per la prima volta all\’età di sette anni.
Antonia cominciò a frequentare le scuole elementari a sei anni sotto la guida di una ottima educatrice, signorina Francesca Funedda, la quale, nel processo, di lei attestò: "Era una bambina normale, molto attiva, generosa e servizievole, di indole vivace, ma obbediente. Ebbe la prima educazione morale e religiosa in famiglia; poi, mi interessai io stessa della sua educazione negli anni del corso elementare… Andava d\’accordo con tutti e non si permise mai di venire a scuola impreparata. E\’ sempre stata rispettosa verso tutti: genitori, educatori e compagni". Frequentò pure con grande diligenza il catechismo parrocchiale, e, negli anni 1929-1931, fu Beniamina della Giov. Femm. di Azione Cattolica. Ogni settimana faceva la comunione e prendeva parte alle riunioni stabilite per la sua associazione, che lasciò soltanto quando, per i crescenti lavori nella sua povera famiglia, non poté più prendervi parte.
In casa Antonia era paziente anche quando Giovanna, la sorella maggiore, si mostrava troppo esigente con lei o con i fratelli. La mamma affermò nel processo canonico: "Non ricordo di averla sgridata: non ne dava motivo ne a me, ne al babbo. Sembrava un angelo per modestia e obbedienza. Amava molto anche il silenzio e la riservatezza e aveva uno spiccato spirito di sacrificio". Quando, nel 1935, diede alla luce due gemelli, ne affidò la cura ad Antonia, benché nell\’anno sociale 1934-1935 fosse rientrata quale effettiva nell\’Associazione della Gioventù Femminile di A. C. con la licenza del padre, e partecipasse con entusiasmo alle conferenze fatte dall\’Assistente sulla "crociata della purezza". In quel tempo fu costretta molte volte a passare le notti insonni o a dormire per terra, nella stanza della mamma, non per mancanza di letti, ma per essere pronta a prestare a lei, molto malata, e ai fratellini l\’aiuto di cui avevano bisogno.
La signora Mesina della figlia affermò ancora: "Ho notato un cambiamento in meglio in lei quando frequentò l\’Azione Cattolica. Per potere andare a ricevere la comunione affidava i fratellini a qualche vicina". Quando ciò non le era possibile, faceva preghiere più lunghe in casa tra un\’occupazione e l\’altra. Il fratello Giulio depose nel processo: "Più volte la trovai nella sua camera in ginocchio e con la corona del rosario in mano".
Con il passare degli anni la Beata appariva sempre più bella allo sguardo dei compaesani con i suoi occhi neri, il viso tondo e la corporatura snella. A sedici anni era già talmente sviluppata che sembrava una forte e robusta giovane di vent\’anni. Un giorno si recò in un negozio a fare spesa. Poiché era stata fatta oggetto di complimenti e di ammirazione da parte del proprietario per la sua prosperità fisica, ne rimase risentita talmente che ottenne dalla madre di non ritornare a fare acquisti in quel negozio. La mamma riguardo alla figlia dichiarò; "Non mi risulta che sia stata chiesta in sposa. So invece che era riservata con tutti, in modo speciale con gli uomini, che evitava per quanto le era possibile, non perché era strana, ma onesta", e soprattutto perché, secondo la testimonianza di Anna M. Castangia, sua vicina di casa, le dispiaceva comparire in pubblico a causa dei seni che le si erano sviluppati in modo sproporzionato all\’età. "Non amava i divertimenti e non aveva neppure il tempo di frequentarli… Non si intratteneva con persone che facevano discorsi cattivi… Non era vanitosa, né dispettosa".
Candida Settima Mesina, sposata, nel processo disse della sorella: "Sentiva pudore di apparire in maniera piacevole e con abiti vistosi. I genitori le avevano fatto confezionare un costume, secondo la tradizione orgolese, perché lo indossasse per le feste e per recarsi in chiesa in occasione di processioni o di altre cerimonie solenni; ma quando apprese in casa che era stata ammirata per l\’abito, arrossì per pudore e non volle più indossarlo. L\’usò una o due volte soltanto e poi lo rimise nella cassapanca, donde fu estratto verso il 1937 per donarlo ad Annida Barelli (+1952), che aveva manifestato il desiderio di possederlo e di portarlo con sé a Roma, in qualità di Presidente della Giov. Femm. Cattolica Italiana.
Anche la mamma della figlia dichiarò: "Presentarsi davanti alla gente, soprattutto ai giovani, le pesava molto. In certi casi si rifiutò amabilmente di compiacere il babbo. Una volta venne a casa, ospite, il Prof. Ugo Pellis di Torino, vecchia e buona conoscenza di mio marito. Ciò avvenne tre mesi prima che Antonia venisse assassinata. Il professore manifestò il desiderio di fotografare Antonia sia con il costume usuale delle giovani di Orgosolo, sia con il costume della mamma. Ci volle del bello e del buono per persuadere la ragazza a lasciarsi fotografare; acconsentì soltanto per compiacere il babbo e a condizione che le fotografie si facessero in una stanza, non nel cortile, meno ancora in presenza di altri".
La Beata, secondo sua mamma, amava la virtù della purezza "fino all\’esagerazione". E certo che "da piccola non ha mai voluto andare senza calze". I genitori ignoravano la sublimazione che la grazia dello Spirito Santo operava nell\’anima della loro figlia, predestinata alla gloria degli altari. In quel tempo si faceva un gran parlare e scrivere di Maria Goretti (+1902), anche lei martire della purezza a Ferriere di Conca (Nettuno). La Mesina ne sentì esaltare l\’eroismo in associazione e in chiesa dal parroco Don A. Cabras. La signorina Funedda, avendole chiesto che impressione ne aveva riportato, sentì rispondersi: "E che c\’è di straordinario? Chi non avrebbe fatto altrettanto?". In casa una sera lesse ai familiari il racconto del martirio della santa, e poi commentò: "Io avrei fatto altrettanto". Più volte dichiarò alla mamma; "Meglio la morte che il peccato. Anch\’io avrei preferito morire ed essere fatta a pezzi che offendere Dio". L\’innocente fanciulla ignorava che Dio la chiamava a seguirne le orme insanguinate.
Il 17 maggio del 1935 la Beata si recò in chiesa di buon mattino per prendere parte alla Messa e fare la comunione. Di ritorno a casa andò ad acquistare il latte per preparare la colazione ai due gemelli e alla mamma malata, si recò in casa di una amica a barattare un pezzo di lardo per poche once di caffè e di zucchero, impastò un buon quantitativo di farina di orzo per il pane, collocò la pasta in recipienti di sughero per la fermentazione e poi, giacché in casa non c\’era legna per cuocerla nel pomeriggio, decise di andare in campagna a farne una fascina. Non volle, però, recarvisi da sola per alcuni brutti delitti di sangue avvenuti poco tempo prima nel nuorese, e neppure in compagnia del fratello Giulio, benché fosse più giovane di lei. Supplicò allora la tredicenne Anna Castangia di accompagnarla nel bosco a raccogliere legna di cui anche la famiglia di lei aveva bisogno. Strada facendo Antonia si rammaricò con l\’amica perché il vento impetuoso nella notte aveva scoperchiato parte del tetto della sua casa, le chiese perché non si era ancora iscritta alla sezione delle Beniamine dell\’Azione Cattolica e la esortò a farlo quanto prima.
Nel primo tratto di strada provinciale esse furono raggiunte da Giovanni Ignazio Catgiu, un po\’ gobbo e zoppo, figlio di un certo Ziu Tangaiau, di ventun anni, nonché da una donna diretta a un paese vicino, Mamoiada. Il giovane guardò le due ragazze che camminavano con una fune in mano, ma non rivolse loro la parola forse perché le conosceva soltanto di vista. Mentre esse stavano per deviare a sinistra verso il valico Sas Garippas, egli si fermò a discorrere con Tendeddu Pietro, un ragazzo che era intento a riattare il muro secco di un recinto per ammali. Gli confidò che se ne stava andando verso il suo orto situato in Conca de Furru, poi, avendo notato che una delle ragazze aveva i seni molto sviluppati, gliene espresse tutta la meraviglia. In quel preciso momento, però, il povero Catgiu fu assalito dal più sfrenato dèmone della lussuria, e non seppe metterlo in fuga.
Mentre Antonia e Anna, oltrepassato il valico Sas Garippas, si avviarono verso sinistra per fare legna nella vicina località detta Baddutzai, distante 4 km. da Orgosolo, in due diversi recinti separati tra loro da una mulattiera, il Catgiu, oltrepassato il valico di Sas Garippas si avviò verso destra, poi, bramoso di soddisfare la propria passione, invertì inosservato la marcia, si avvicinò ad Antonia che se ne stava china a raccogliere legna secca in un bosco di proprietà di un pastore e, pur di attaccare bottone, le disse che non le era permesso fare ciò. Un po\’ seccata, Antonia gli rispose che avrebbe fatto meglio a badare ai fatti propri dal momento che era consuetudine comune andare per la campagna a raccogliere la legna secca abbandonata. Il Catgiu perse allora il lume della ragione. Le saltò addosso con l\’evidente intento di violentarla. Annetta, che si trovava distante una quarantina di metri da loro, dichiarò nel processo: "Sentii le voci di richiamo e di paura di Antonia e, avvicinandomi, vidi che il Catgiu tentava di saltarle a cavalluccio in modo villano e di spingerla con la mano sulla spalla per distenderla a terra. Il tentativo si ripeté per almeno tre volte alla mia presenza, e mentre Antonia energicamente gli opponeva resistenza senza lasciarsi travolgere, e invocava aiuto chiamando me e il suo babbo, gridai anch\’io: "Zio Agostino, zio Agostino", pensando che questo richiamo avesse potuto intimorire e far desistere l\’aggressore. Atterrita, fuggii gridando e piangendo, convinta che Antonia sarebbe riuscita a svincolarsi e a scappare anch\’essa. Salii poi su un sasso, ma non vidi nulla; sentii soltanto un urlo disperato come di un animale sgozzato".
Quello che avvenne nello spazio di pochi minuti, tre o quattro, lo spiegò lo stesso sventurato assassino pochi giorni dopo al reggente della questura di Nuoro, dopo aver invano cercato di sviare le prove lavandosi gli abiti e cospargendoli del sangue di un bue che aveva salassato alla coda: "La ragazza si mise a gridare \’su babbu, su babbu\’ e riuscì a liberarsi da lui. Inseguitala, perché preso da ira, e raggiuntala su un pianoro visibile dalla mulattiera, con una pietra che aveva nel frattempo presa, la colpì ripetutamente, senza sapere quel che si facesse. La ragazza cadde ginocchioni, grondante sangue e quasi inerte, ma ancora viva. Lasciata la pietra, la prese per la testa e la trascinò, per uno strettoio di cespugli, in altro retrostante pianoro, celato alla vista dei passanti per la mulattiera. In quest\’ultimo pianoro, temendo che la ragazza potesse ancora parlare ed accusarlo, con un\’altra pietra ne provocò la morte, e dopo averla accomodata sotto i cespugli attigui, andò a lavarsi nel ruscello vicino".
I carabinieri, i militi, i parenti e i curiosi, appena furono informati dell\’accaduto, si recarono sul posto assieme a Castangia Anna e, in base alle sue indicazioni, dopo brevi ricerche, trovarono la Mesina già cadavere, con il capo orrendamente sfracellato e ricoperto di 74 ferite. Vicino al cadavere c\’era una pozza di sangue e un grosso sasso insanguinato. Alla distanza di tre metri dalla prima pozza ce n\’era una seconda con un orecchino della vittima, e alla distanza di nove metri dalla seconda una terza con un sasso più piccolo, pure insanguinato. Le vesti dell\’assassinata presentavano tracce di violenza, nella parte anteriore.
La perizia medico legale accertò che la morte della Mesina era avvenuta per emorragia violenta e commozione cerebrale, cagionata da numerosi colpi di un corpo contundente, vibrati con estrema violenza sul capo e sul viso, e che la vittima fu aggredita alle spalle, a giudicare dalla direzione di alcune unghiate esistenti al lato sinistro del collo…I periti stabilirono pure che la giovane non aveva subito violenza carnale consumata, che era sessualmente formata e aveva i seni ben sviluppati. I compaesani la considerarono subito martire della purezza. Un mese dopo la morte, alcuni di loro si recarono sul luogo del martirio e, tra l\’erba, trovarono ancora alcuni denti di lei.
I funerali della martire riuscirono un trionfo. Fu inumata nel cimitero del paese, ma il 26-2-1939, per interessamento di Annida Barelli, le sue spoglie furono collocate in una nuova cassa e deposte sotto il monumento eretto in suo onore nello stesso cimitero. Dal 10-4-1983 le sue reliquie sono venerate nella chiesa del SS. Salvatore di Orgosolo. Sul luogo del martirio fu eretta una croce con queste parole: "Antonia Mesina, pura e forte". Pare che la martire abbia preveduto la sua fine violenta. Difatti, il fratello Giulio testimoniò nel processo che, pochi giorni prima della morte, mentre se ne andava per gli stessi paraggi con lei e con due ragazze di Orgosolo, "ella ci disse di inginocchiarci dinanzi alla croce detta "del giuramento" che si trovava poco sotto la chiesa di S. Anania, e ci invitò a pregare perché un giorno, più in su, ne pianteranno un\’altra, che sarà la mia".
I genitori di Antonia nei riguardi dell\’assassino non espressero propositi di vendetta o di odio, ma la Corte di Assise di Sassari, convocata a Nuoro, lo riconobbe normale e responsabile del gravissimo delitto commesso e il 27-4-1937 lo condannò alla pena di morte. Fu eseguita il 5 agosto dello stesso anno in località Prato Sardo (Nuoro) dopo che il Catgiu ebbe ricevuto tutti i sacramenti.
Giovanni Paolo II della Mesina riconobbe il martirio l\’8-5-1987, e la beatificò il 4 ottobre 1987.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 214-220.
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