La glorificazione di Mons. Rosaz, vescovo di Susa, aumenta la schiera dei beati e dei santi che fecero onore alla Chiesa che è in Piemonte nel secolo XIX. Il beato nacque a Susa il 15-2-1830. Il savoiardo Romualdo, agiato mugnaio, lo ebbe da Giuseppina Dupraz, ultimo di otto figli. Il giorno dopo i genitori lo fecero battezzare nella cattedrale parrocchia di S. Giusto martire con i nomi di Felice, Edoardo e Giuseppe, e gli impartirono una formazione religiosa solida e genuina. Crebbe fragile di salute motivo per cui non gli fu possibile frequentare la scuola pubblica. Un privato maestro gli impartì in casa lezioni di grammatica e matematica.
Nel 1840 la famiglia Rosaz si trasferì a Torino e collocò Edoardo nel collegio-convitto Giannotti di Saluzzo in cui fu preparato alla prima comunione e alla cresima. Tre anni dopo rimase orfano di padre, buttatesi nel Po per depressione psichica e, 4 anni dopo, del fratello Carlo Vittorio, avvocato, morto in una casa di salute dove si trovava da più di 10 anni, affetto da mania specifica. In seguito perderà pure la sorella Clotilde a causa di un eccesso epilettico.
A 15 anni, Edoardo fu costretto a ritornare in famiglia a Susa dove si diede alla pietà "senza esagerazioni e debolezze", e si circondò di amici, scegliendoli tra i migliori giovani della città. Durante la stagione estiva, mentre con i familiari trascorreva le vacanze nella casa di campagna di Castelpietra, lontana dalla Chiesa, egli, alieno dai giuochi, riuniva i fanciulli e li istruiva nelle verità della fede. Maturava così la sua vocazione allo stato sacerdotale. Il vescovo della diocesi, Mons. Antonio Odone, quando gliene parlò, lo accolse a braccia aperte nel seminario perché pio, zelante e, almeno apparentemente, robusto. Andò, invece, soggetto a disturbi nervosi che gli impedirono di continuare gli studi di teologia, dopo la vestizione dell\’abito chiericale (1849). La sua gioventù fu, perciò, un\’alternativa di miglioramenti e peggioramenti, che accolse con grande rassegnazione e fiducia nella protezione della Vergine SS., e che il medico riteneva di dover curare ordinandogli nutrizione abbondante e lunghe passeggiate in montagna.
Nel mese di luglio 1850 Rosaz, sentendosi "risanato", accolse la proposta di riprendere gli studi in preparazione al sacerdozio a Nizza Marittima, in clima più dolce, ma nell\’aprile del 1852 fu aggredito nuovamente dal male motivo per cui andò a Torino per sottoporsi a cure mediche specifiche, e visitare il santuario della Consolata per ottenere la grazia della guarigione. Poté riprendere gli studi nel mese di novembre di quell\’anno sempre a Nizza Marittima, dopo il fallito tentativo di farsi Gesuita per dedicarsi alle missioni. Prima ancora che fosse ordinato diacono, Mons. Odone lo nominò, di sua iniziativa, canonico della cattedrale di Susa, di cui prese possesso nel giugno del 1853. Per impegnarsi maggiormente ad amare Dio e il prossimo, durante le vacanze di quell\’anno, con i compagni, il Beato si iscrisse al Terz\’Ordine di S. Francesco e, fino alla morte, ne propagò con grande zelo l\’ideale e lo spirito.
Don Edoardo fu ordinato sacerdote a Nizza Marittima il 10-6-1854. Sintetizzò il suo programma ministeriale in cinque punti: procurare in tutti i modi il bene del popolo; gravarsi di lavoro senza badare a disagi; compiere con gioia ciò che può essere utile al bene spirituale e materiale dei fedeli; coadiuvare con zelo e disinteresse i sacerdoti nella cura delle anime; non trascurare nessuna forma di apostolato. Benché l\’infermità continuasse a tormentarlo, la vita apostolica costituiva ormai il suo pane quotidiano e, le fatiche nella vigna del Signore, il suo godimento. I parroci di Susa, dal 1855 al 1858, approfittarono delle sue buone disposizioni per invitarlo a predicare missioni al popolo ed esercizi spirituali. Essendo dotato di una voce poderosa, di semplicità nel dire, di praticità nella scelta degli argomenti tratti dalla S. Scrittura, la gente andava volentieri ad ascoltarlo. Egli preparava con cura le sue prediche e le scriveva per disteso ma, in caso di necessità, improvvisava facilmente.
Il canonico Rosaz, che ogni mattina si alzava alle 4,30, si era assunto l\’impegno di celebrare prestissimo la Messa, per dare modo alle casalinghe di compiere le loro devozioni prima di sobbarcarsi ai gravosi compiti della vita domestica. Alla messa faceva precedere la meditazione e seguire lunghe orazioni. Poi andava ad assidersi al tribunale della penitenza e vi rimaneva finché c\’erano persone in attesa. Una cura speciale egli ebbe sempre, come Don Bosco (+1888), dell\’istruzione e dell\’educazione della gioventù. Si serviva in chiesa e in città, per le vie e per le campagne di tutti i mezzi a sua disposizione per inculcare nei giovani e nei genitori l\’amore alle verità della fede. Sovente, per motivi di salute e per attirare le benedizioni del cielo sul suo operato, si recava a piedi al santuario di Oropa (Vercelli), dove almeno una volta all\’anno si fermava a fare gli esercizi spirituali; al Santuario della Madonna della Divina Provvidenza di Cussanio, nella diocesi di Possano, di Vicoforte Mondovì (Cuneo) e della Madonna della Misericordia di Savona. Pellegrinò pare più volte ai santuari francesi di Laus, nel Delfìnato, di La Salette, nell\’Isère, di Fourvières, presso Lione, ed ad Ars dove conobbe il santo curato Giovanni Battista Maria Vianney (+1859).
Poco dopo l\’ordinazione sacerdotale, per vivere il suo francescanesimo, il Beato cominciò ad accarezzare l\’idea di occuparsi dei bisognosi. Il proposito di fondare un Ritiro gli venne in mente il giorno in cui gli fu raccomandata una fanciulla abbandonata, alla quale altre se ne aggiunsero. Il clero non vedeva di buon occhio che Don Rosaz desse inizio a Susa a una simile opera perché, non possedendo la diocesi mezzi economici, sarebbe morta di inedia appena nata. Don Luigi Anglesio, successore di S. Giuseppe Benedetto Cottolengo (+1842) nella direzione della Piccola Casa di Torino, lo esortò invece a non desistere perché la divina Provvidenza si trovava tanto a Susa quanto a Torino. Nelle contrarietà, quindi, anziché perdere la calma e la fiducia nel Signore esclamava: "Paradiso, paradiso!". Ripeteva invece abitualmente; "Deo gratias!" quando procedeva con il vento in poppa. Corrisponde a verità che la vita del Beato si possa compendiare, secondo i testi del processo canonico, in queste parole: "Amare Dio e farlo amare; preghiera e lavoro".
La vedova Maddalena Pesando, sua ammiratrice, mise a disposizione del Beato la propria casetta, con il tacito consenso e il generoso soccorso del vescovo Mons. Odone, il quale nutriva grande stima per il suo zelante canonico. Poiché il numero delle ragazze cresceva, il 15-8-1862 Don Rosaz comperò una casa più ampia. Per consiglio di Mons. Federico Mascaretti, successore di Mons. Odone nel governo della diocesi, chiamò nel 1872 a formare le prime aspiranti alla vita religiosa, alcune Suore della Misericordia, fondate a Savona da S. Maria Giuseppa Rossello (+1880). Nascevano così l\’8-12-1874 le Suore Missionarie Francescane di Susa, che il fondatore stabilì nella sua casa paterna, debitamente ampliata, prepose alla direzione del Ritiro e incaricò dell\’assistenza alle ragazze nel dopo scuola e della cura dei malati a domicilio. Provvedeva direttamente alla loro formazione con l\’aiuto di sacerdoti del seminario.
Nel 1901, presso la loro casa madre, costruirà pure un\’oasi di accoglienza per le persone anziane e abbandonate che pagherà, come al solito, con questue e con i proventi di lasciti di benefattori e amici.
Nel Ritiro le ricoverate più grandicelle fin dal 1863 furono addette all\’arte del tessere e le più piccine al lavoro di merletti a tombolo. L\’Istituto, per prosperare, non disponeva all\’inizio che delle libere offerte di pie persone e delle magre risorse del canonico. La necessità di dovere stendere frequentemente la mano a sostegno delle sue opere, cagionò al fondatore una continua "pesante oppressione che gli procurava forte affanno e persino tremito". Vinse questa sua suscettibilità per cui meritò dal popolo il soprannome di "il Cottolengo di Susa". Nel 1877, pur non disponendo di denari, dotò il Ritiro anche di una graziosa chiesetta in stile gotico che dedicò all\’Immacolata. Una volta che aveva intrapreso un\’opera, il Beato la portava a termine nonostante le difficoltà. E per questo che un confratello disse di lui un giorno: "E proprio una testa savoiarda" .
Benché fosse già tanto oberato di lavoro, Mons. Odone, circa il 1863, volle nominare il canonico Rosaz cappellano delle carceri. Ritenne questo compito, che adempì con molto zelo e tanto amore, per un certo tempo anche da vescovo, facendosi sostituire da altri sacerdoti. Dal 1863 al 1868 il municipio di Susa lo nominò rettore del Convitto civico. Il Beato accettò questo ufficio molto a malincuore perché era difficile trovare assistenti che fossero in grado di mantenere la disciplina tra i giovani.
Anche Mons. Mascaretti stimò molto Don Rosaz, e gli affidò delicati uffici come quello di direttore spirituale delle Suore di San Giuseppe di Oulx, che svolse per molti anni raggiungendo, ogni 15 giorni, la loro casa a piedi, benché distasse 25 chilometri da Susa, e di rettore del seminario (1874), ufficio che tenne per obbedienza fino a quando fu nominato da Pio IX vescovo dì Susa. Innamorato del metodo preventivo di San Giovanni Bosco (+1888), che aveva conosciuto a Torino e che chiamava "il modello degli educatori", lo adottò su larga scala e con grande frutto. Se ne accorsero subito i chierici i quali dicevano che a lui "era impossibile farla franca". Il rettore se ne stava quieto solamente quando doveva pregare o studiare. In caso contrario ne stava fermo lui, ne permetteva che stessero fermi coloro che da lui dipendevano. Non riusciva a capire come taluni educatori preferissero reprimere il male una volta compiuto, piuttosto che prevenirlo mediante una solerte vigilanza e una dolce fermezza.
Quando Mons. Mascaretti, per motivi di salute, rinunciò alla diocesi di Susa, Pio IX (+1878) lo sostituì con il canonico Rosaz. All\’inattesa notizia il Beato "quasi svenne". Cercò di sviare la scelta adducendo di non essere idoneo "per la nullità del suo ingegno e la pochezza della sua scienza, e la sua assoluta incapacità di amministrare una diocesi". Il Card. Simeoni, Segretario di Stato di Sua Santità, gli rispose che il papa era irremovibile nella scelta fatta, e che lo dispensava completamente dalla mancanza di laurea in teologia e diritto canonico. Lo esortava quindi a mettere il cuore in pace "poiché chi obbediva al Vicario di Gesù Cristo, acquistava il diritto di essere aiutato da Dio". In premio della sua obbedienza, non solo gli fu condonata la grossa somma che avrebbe dovuto pagare per le Bolle alla Cancelleria Pontificia, ma gli furono persino assegnate L. 500 mensili.
Mons. Rosaz fu preconizzato il 31-12-1877 nell\’ultimo concistoro tenuto da Pio IX, e consacrato vescovo nella cattedrale di Susa il 24-2-1878 da Mons. Lorenzo Castaidi, arcivescovo di Torino, da Mons. Giuseppe Sciandra, vescovo di Acqui (Aless.) e da Mons. Eugenio Galletti, vescovo di Alba (Cuneo).
Egli prese possesso della diocesi il 29-1-1878. Chi visse con lui asserì "che il suo metodo di vita era molto austero, e che in vescovado si viveva come in un convento". La sua orazione era "quasi continua", le sue visite al SS. Sacramento "ripetute" e accompagnate da sospiri e slanci amorosi. Si prefisse un orario e lo seguì con scrupolosa precisione. Poté così fare tutti i venerdì, nella sua cappella, la Via Crucis, scrivere una quantità di prediche, di circolari e di opuscoli, nonché 34 lettere pastorali. Inchiodato al suo tavolo era pronto a dare udienza a tutti, in modo speciale ai tribolati e ai bisognosi di aiuto in favore dei quali si privava persino del necessario meritando così il soprannome di "vescovo dei poveri".
Quattro furono le occupazioni che Mons, Rosaz preferì finché visse:
1) l\’insegnamento personale del catechismo nella classe di perseveranza in cattedrale;
2) la predicazione ai sacerdoti, alle suore e ai fedeli;
3) la confessione che considerava "il ministero dei ministeri" alla quale continuò ad attendere in cattedrale al mattino e alla sera;
4) la visita pastorale alle 61 parrocchie della diocesi, fatta sovente a piedi o a dorso di un mulo.
Avendo notato che i fedeli delle parrocchie confinanti con la Francia erano più restii ad accostarsi ai sacramenti a causa del giansenismo, mandò i giovani sacerdoti ad aiutare i parroci più anziani o a sostituire quelli meno zelanti, e promosse missioni straordinarie con l\’aiuto pecuniario di facoltose famiglie torinesi. Quando nominava un nuovo parroco, di solito figlio di poveri contadini, racimolava tutto il denaro che poteva per sovvenire alle di lui necessità. Per i sacerdoti infermi o privi del necessario per vivere, ideò una società di mutuo soccorso e, per i poveri, non trovò di meglio che istituire la Conferenza di S. Vincenzo de\’ Paoli. Per la gioventù maschile avrebbe voluto aprire un oratorio, ma non vi riuscì per la mancanza di collaboratori volenterosi. Gli amanti del quieto vivere quando Io vedevano più stanco del solito erano soltanto capaci di dirgli: "Monsignore, abbia cura della sua salute". A favore della gioventù potenziò il seminario e sostenne le scuole cattoliche tenute dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Diceva: "Dovessi vendere il bastone pastorale e l\’anello, non voglio che abbiano a cessare. Ne abbiamo troppo bisogno in diocesi". Volle perciò che fossero sistemate in modo da competere con quelle comunali. Per la grande stima che aveva della cultura, fondò pure una biblioteca circolante e il settimanale diocesano il Rocciamelone (1897) al quale collaborò attivamente per arginare le idee liberali e socialiste del tempo.
Nel corso dei suoi 25 anni di episcopato il santo pastore visitò sei volte tutte le parrocchie della diocesi. Quando si accorse che diverse chiese mancavano di decenti suppellettili per il culto divino, si recò a Torino, avvicinò le signore della Pia Società per le Chiese Povere e ottenne da esse aiuti consistenti. Sebbene a malincuore, il Beato fu pure parecchie volte trascinato a far valere i diritti della diocesi contro usurpatori dei beni ecclesiastici. Pur di compiere il suo dovere non rinunciò a sostenere diverse cause in tribunale nel corso delle quali dimostrò di avere accortezza e senso giuridico più di quanto lasciasse immaginare. Quando il capitolo di Susa fece comprendere alle autorità comunali che le esequie dei defunti non potevano più effettuarsi nel duomo per il disturbo che arrecava alle funzioni capitolari, fece costruire la chiesa del Suffragio presso il cimitero. Le spese superarono le previsioni per l\’acqua trovata nel sottosuolo, ma poiché era riuscita molto bella, ne volle fare un santuario per i defunti.
Il lavoro intenso, le penitenze, le precarie condizioni fisiche, i pellegrinaggi a Roma nel 1887 per il giubileo di Leone XIII, a Torino nel 1894 per il congresso eucaristico e nel 1898 per l\’estensione della Sindone, la caduta dalla vettura a Savona avvenuta nel luglio del 1902, facevano presagire una vita non lunga. Il 21-1-1903 fu difatti colpito da emorragia cerebrale mentre visitava le scuole femminili elementari.
Morì tuttavia di peritonite acuta il 3 maggio dello stesso anno mormorando: "Nelle tue mani, Signore, raccomando il mio spirito". Sopportò il male con perfetto abbandono alla volontà di Dio, e con tale serenità di spirito da confortare coloro stessi che andavano da lui per fargli coraggio. Unanime fu il giudizio del popolo: "E\’ morto un santo". A due giorni dalla morte, la salma di Mons. Rosaz era ancora flessibile. Tra i suoi indumenti personali furono trovati strumenti di penitenza. Giovanni Paolo II ne riconobbe l\’eroicità delle virtù il 23-3-1986 e lo beatificò a Susa il 14-7-1991. Le sue reliquie, dal 1919, sono venerate nella cripta della cappella dell\’Immacolata, eretta dalle Suore Francescane Missionarie a perenne riconoscenza del loro fondatore e padre. La statua della Madonna del Rocciamelone, che domina tutta la Valsusa, dai suoi 3538 metri di altezza, continua a sorridergli perché fu lui a benedirla il 28-7-1899 e a propagarne la devozione tra i fedeli.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 49-57.
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