Turibio frequentò con profitto le scuole pubbliche prima a Valladolid, e quindi presso l’università di Salamanca, dove si laureò in giurisprudenza. Filippo II, re di Spagna, venuto a conoscenza della virtù e del sapere di lui, nel 1575, benché semplice laico, lo nominò presidente del tribunale dell’Inquisizione a Granada. Il Santo adempì per cinque anni il suo compito con tanta competenza e tatto che si attirò l’ammirazione di tutti. Particolarmente soddisfatto, dovette restarne il re, se lo destinò alla sede vacante di Lima, capitale del Perù. Gli scandali che colà avvenivano, erano così gravi, che gli indiani si rifiutavano di abbracciare la fede degli spagnoli.
Turibio, il restauratore della religione cattolica nel
Perù e il padre dei poveri, nacque il 16-11-1538 a Mayorga de Campos nella provincia
di Leon (Spagna), secondogenito del signore di Mogrovejo. Fin dall’infanzia
mostrò una grande inclinazione alla pietà. Trovava infatti la sua delizia
nell’adornare gli altari, nel recitare il rosario e l’ufficio della Madonna,
nel digiunare tutti i sabati in onore di Lei. Con la devozione concepì un
grande orrore al peccato.
Un giorno si imbatté in una povera donna che imprecava,
inviperita, perché aveva perduto un oggetto che le stava particolarmente a
cuore. Turibio la riprese dolcemente della mancanza e, per calmarla, le diede
in denaro l’equivalente al valore dell’oggetto smarrito. Per sfamare i poveri
si privava sovente di una parte del suo pranzo.
Turibio frequentò con profitto le scuole pubbliche prima a
Valladolid, e quindi presso l’università di Salamanca, dove si laureò in
giurisprudenza. Filippo II, re di Spagna, venuto a conoscenza della virtù e del
sapere di lui, nel 1575, benché semplice laico, lo nominò presidente del
tribunale dell’Inquisizione a Granada. Il Santo adempì per cinque anni il suo
compito con tanta competenza e tatto che si attirò l’ammirazione di tutti.
Particolarmente soddisfatto, dovette restarne il re, se lo destinò alla sede
vacante di Lima, capitale del Perù. Gli scandali che colà avvenivano, erano così
gravi, che gli indiani si rifiutavano di abbracciare la fede degli spagnoli.
Turibio fu considerato come la persona più adatta per
portarvi rimedio. Quella nomina tuttavia lo gettò nella costernazione.
S’inginocchiò piangendo ai piedi del crocifisso e lo supplicò di non permettere
che gli fosse imposto un fardello tanto sproporzionato alle sue forze. Scrisse
pure al Consiglio del Re, per fare presente la propria incapacità e per
ricordare che i sacri canoni vietavano espressamente di elevare dei laici
all’episcopato. Le sue ragioni non furono accettate. Conformato alla volontà di
Dio, piegò il capo. Quell’atto di umiltà e di sottomissione fu per lui la
sorgente di abbondanti grazie, il cui affetto si manifestò in seguito
nell’esercizio del sacro ministero.
Il Santo si preparò all’ordinazione con lo studio e la
preghiera. A Roma il papa Gregorio XIII lo preconizzò vescovo nel 1579. L’anno
successivo egli fu ordinato sacerdote a Granada e consacrato vescovo a Siviglia.
La diocesi di Lima, verso la quale subito si diresse, si estendeva lungo la
costa dell’Oceano Pacifico per 520 chilometri e comprendeva, oltre diverse
città, un grandissimo numero di villaggi sparsi sulla catena delle Ande. Gli
spagnoli che, al seguito di Francesco Pizarro, conquistarono il paese (1532),
si erano lasciati dominare da una smisurata ambizione e da una insaziabile
cupidigia. Il paese era perciò sconvolto da continui fremiti di rivolta, da
perfidie, dissensi, tradimenti e crudeltà ai quali invano la corte di Spagna
cercava di mettere fine.
Il Santo arcivescovo, alla vista di tante miserie,
accresciute dalla vita scandalosa di diversi frati e sacerdoti, non seppe
trattenere le lacrime e per toglierne le cause, risolvette di compiere
qualsiasi sacrificio e di usare tutti i mezzi a sua disposizione. Una consumata
prudenza congiunta ad uno zelo attivo e vigoroso gli appianarono le difficoltà.
A poco a poco riuscì a estirpare i pubblici scandali e a stabilire il regno
della pietà sulle rovine del vizio.
Prima sua
preoccupazione fu quella di visitare la diocesi. E’ impossibile dare un’idea
esatta delle fatiche e dei pericoli cui andò volontariamente incontro. Fu visto
inerpicarsi, a dorso di mulo, sulle più scoscese montagne, coperte di neve o di
ghiaccio, per catechizzare, cresimare, regolarizzare matrimoni e confortare i
poveri indiani che vivevano in miserabili capanne. Sovente viaggiava a piedi e,
per attirare sulle anime a lui affidate le più abbondanti grazie del Signore,
pregava e digiunava.
Il Santo
collocava ovunque dei sacerdoti sapienti e zelanti, si mostrava il flagello dei
pubblici peccatori e il protettore degli oppressi senza riguardi per nessuno.
La fermezza del suo zelo gli suscitò contro, persecuzioni da parte dei
governatori del Perù, i quali, ai loro interessi, non arrossivano di
sacrificare il bene comune degli indiani. Turibio non oppose loro che la sua
pazienza e la sua dolcezza, senza mai transigere con il vizio. Siccome qualche
cattivo cristiano dava alla legge di Dio un’interpretazione che favoriva le
sregolate inclinazioni della natura, egli ricordava loro, con Tertulliano, che
Gesù Cristo “si chiamava la verità, non la consuetudine” e che al suo
tribunale le nostre azioni saranno pesate non sulle false bilance del mondo, ma
su quelle inalterabili del Vangelo.
Per estendere e perpetuare l’opera del suo zelo, Turibio
decise di tenere un sinodo diocesano ogni due anni e un sinodo provinciale,
ogni sette. Con l’aiuto del viceré Martin Henriquez, il primo sinodo diocesano
venne tenuto a Lima nel 1582. L’anno successivo si convocò, pure a Lima, il
terzo Concilio Provinciale di tutta l’America meridionale, che risultò di
capitale importanza per l’ulteriore sviluppo della Chiesa Cattolica in quelle
regioni. Con apostolica fermezza l’arcivescovo difese i diritti ecclesiastici
contro il potere civile e contro lo stesso Filippo II, come pure i diritti del
vescovo contro i privilegi dei religiosi.
Durante il suo episcopato, Turibio fondò chiese, seminari
e ospedali, ma non permise che il suo nome figurasse negli atti di fondazione.
Quando si trovava in sede, visitava tutti i giorni i malati negli ospedali, li
consolava e li disponeva a ben morire. Un anno la peste infierì in una parte
della diocesi. Il buon pastore si privò allora del necessario per provvedere ai
bisogni dei colpiti dal flagello e raccomandò la penitenza come il solo mezzo
efficace per placare il cielo irritato. Prescrisse delle pubbliche processioni
alle quali prese parte e con gli occhi fissi sul crocifisso che teneva in mano,
offrì se stesso a Dio, per la conservazione del popolo. Per tutto il tempo che
la peste continuò a mietere vittime, egli non tralasciò le preghiere, i
digiuni, le veglie straordinarie che si era imposti.
Turibio era disposto ad affrontare i più grandi pericoli
per procurare il minimo vantaggio spirituale anche ad una sola anima. Per i
diocesani egli avrebbe dato volentieri la vita. Quando veniva a conoscenza che
dei poveri indiani, per sfuggire alle barbarie dei loro oppressori, erravano su
per le montagne o nei deserti, egli andava a consolarli, a prenderne le difese
a costo di qualsiasi sacrificio. Tre volte visitò personalmente tutta la sua
vastissima diocesi, tenne dieci sinodi e tre concili provinciali. La seconda visita
pastorale durò cinque anni, nei quali organizzò missioni e convertì un grande
numero d’indigeni. Quando giungeva in qualche villaggio, sua prima
preoccupazione era di recarsi in chiesa ad adorare il SS. Sacramento. La
predicazione, la lotta contro gli abusi e i vizi lo trattenevano talora diversi
giorni in uno stesso posto, anche se si faceva sentire la mancanza delle cose
più necessario alla vita.
Per potere evangelizzare il più grande numero possibile
di anime affidate alle sue cure, l’instancabile pastore non esitò a studiare,
nonostante l’età già avanzata, le differenti lingue che parlavano le tribù
peruviane. In questa maniera Turibio, coadiuvato dalle preghiere e dalle aspre
penitenze di S. Rosa da Lima (1586-1617), riuscì a rinnovare la faccia della
Chiesa del Perù, a ravvivare la fede che vi avevano portato i primi missionari
e che stava per estinguersi a causa degli egoismi umani. I decreti dei concili
provinciali, tenuti durante il suo episcopato, costituiranno per sempre
autentici monumenti della sua pietà, del suo sapere e della sua prudenza. Essi
furono considerati degli oracoli non solamente nel Nuovo Mondo, ma in Europa e
nella stessa città di Roma.
L’opera di Turibio è stata paragonata a quella che S. Carlo
Borromeo (+1584) svolse nell’arcidiocesi di Milano. Se il Santo attendeva, con
audacia e tenacia indefessa, alla salute del prossimo, non trascurava nessun
mezzo per la propria santificazione. Ogni mattina si confessava e celebrava la
Messa con grande pietà. La gloria di Dio era il fine di tutto quello che
faceva. L’intera vita veniva da lui trasformata in una continua preghiera. Ciò
nonostante nel corso della giornata egli si riservava determinate ore da
dedicare alla meditazione e all’orazione. In quei momenti di intima unione con
Dio, un certo splendore brillava esteriormente sul suo volto. Nella sua umiltà
egli nascondeva con cura estrema le mortificazioni alle quali si dava e le
buone opere che faceva. Soprattutto non conosceva confini la sua carità per i
poveri, gli orfani, i malati, le donne cadute, le vedove.
Turibio cadde malato nella Valle di Pacasmago, a 440
chilometri da Lima, nel corso della terza visita pastorale. Egli predisse la
sua morte e promise una ricompensa a colui che, per primo, gli avesse
comunicato che i medici disperavano di salvarlo. Tutto quello che era di suo
uso lo donò ai domestici, il resto dei suoi beni lo lasciò per testamento ai
bisognosi, che si compiaceva di chiamare i suoi creditori.
Per ricevere il viatico, il Santo si fece portare in
chiesa, ma fu costretto a ritornare a letto quando gli si dovette amministrare
la santa unzione. Egli aveva sempre sulle labbra le parole di S. Paolo:
“Desidero morire per andare con Gesù”. Attorno al suo capezzale volle
che gli fosse cantato il primo versetto del salmo 122 che dice: “Esultai
quando mi fu detto: “Andiamo alla casa del Signore””. Morì il
23/3/1606 pronunciando, con Gesù in croce, le parole: “Nelle tue mani, o
Signore, raccomando il mio spirito”.
Il corpo di Turibio fu trasportato l’anno successivo alla
morte, ancora incorrotto, nella cattedrale di Lima. Negli atti della
canonizzazione, che gli fu decretata da Benedetto XIII il 10/10/1726, viene
ricordato che, ancora vivente, egli risuscitò un morto e guarì miracolosamente
diversi malati. Innocenzo XI il 28-7-1679 lo aveva beatificato.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 252-257.
http://www.edizionisegno.it/