Benché la sua salute fosse quasi continuamente malferma, Ippolito digiunava tre volte la settimana e si cibava di pane, frutta e legumi, raramente di carne e di pesce. Se il confessore glielo avesse permesso, avrebbe fatto volentieri uso anche dei cilici e dei flagelli, per prendere parte ai dolori del Figlio di Dio, alla contemplazione dei quali difficilmente riusciva a trattenere le lacrime. Fu tuttavia lieto di potere almeno offrire a Dio le sofferenze che gli procurava al petto una piaga da lui tenuta nascosta a tutti per quattordici anni. Di notte riduceva le ore di sonno per attendere alla preghiera, alla meditazione del Vangelo e della Imitazione di Cristo e preparare diligentemente le lezioni di catechismo.
Questo umile cittadino di Firenze, laico e celibe, emulo
sotto certi aspetti di S. Filippo Neri (+1595) nell’istruzione dei fanciulli e
degli adulti, nacque il 14-10-1565 da Filippo e da Maria Ginevra Zufoli,
modesti tessitori di seta, primo di quattro figli maschi. Fu battezzato in San
Giovanni con il nome di Ippolito. Crebbe perspicace di mente, acuto d’ingegno e
affabile di carattere di modo che costituì la gioia dei genitori.
Di mano in mano che cresceva nell’età, amava ripetere nella
sua stanzuccia, adorna di immagini, i gesti sacri che vedeva compiere dal
sacerdote in chiesa.
Ippolito ricevette
nell’infanzia una formazione letteraria molto scarsa perché le ristrettezze
della famiglia lo obbligarono molto presto a sobbarcarsi al lavoro. Fino alla
morte però coltivò sempre uno speciale amore alla dottrina cristiana, nello
studio della quale fu avviato soprattutto dai Padri Gesuiti. Essendo dotato di
una felice memoria, riteneva bene in mente le spiegazioni che essi facevano in
classe e in chiesa cosicché era in grado di ripeterle con esattezza ai suoi
coetanei.
Sotto la guida del P. Giovanni Battista Ceretelli S.J., a
soli nove anni il beato fu ammesso alla prima comunione e a dodici fu
incaricato di fare il catechismo a una classe di bambini che si preparavano
alla comunione. Di mano in mano che il Galantini cresceva in età sentiva il
bisogno di separarsi dal mondo per darsi alla preghiera e alla penitenza. Dio,
però, aveva altri disegni su di lui. L’arcivescovo di Firenze, il Card.
Alessandro de’ Medici, volle che fosse istituito un Oratorio per il catechismo
ai fanciulli nella chiesa di Santa Lucia sul Prato e che fosse diretto dal
Galantini, di cui gli era noto lo zelo nell’insegnamento del catechismo
nonostante la sua giovane età.
Ippolito vi si dedicò anima e corpo specialmente nei giorni
di festa. Dopo il suono della campana inalberava la croce e, senza rispetto
umano, usciva per le vie della città per radunare, al canto di pie laudi, il
maggior numero possibile di fanciulli. Di ritorno in chiesa li divideva in
varie classi e con l’aiuto di volenterosi collaboratori insegnava loro le
principali verità della fede. I frutti che ottenne furono talmente consolanti
che persino gli adulti, molto ignoranti in materia di religione, accorrevano ad
ascoltare le entusiasmanti spiegazioni, che il santo giovane faceva di essa ai
fanciulli.
Nonostante il bene che il Galantini compiva, continuava ad
aspirare alla vita religiosa. Andò a bussare alla porta di diverse famiglie
religiose, ma la sua richiesta fu respinta a motivo della scarsa salute. Decise
allora, in seguito al parere del suo confessore, di santificarsi restando nel
mondo. E tradizione che una notte, mentre pregava, gli sia apparso Gesù
Crocifisso e gli abbia ordinato di fondare la Congregazione della Dottrina
Cristiana per l’istruzione e l’educazione della gioventù.
Agli occhi dei genitori parve forse eccessivo il tempo che
il loro Ippolito dedicava all’insegnamento del catechismo, motivo per cui
cominciarono a trattarlo con durezza eccessiva. Tuttavia dovettero ben presto
ricredersi alla considerazione della pazienza, della sobrietà e della
laboriosità di cui il loro figlio continuò a dare esempio.
Per ottenere maggiori frutti spirituali dalle sue
catechesi, il beato ogni giorno prendeva parte alla Messa e faceva la comunione
benché non fosse ancora entrata nella consuetudine dei fedeli. Durante il
giorno lavorava sodo nella tessitura della seta, ma appena sentiva battere le
ore invocava la Vergine SS. con la recita della salutazione angelica. Durante
il giorno accorreva nelle chiese nelle quali veniva solennemente esposto il SS.
Sacramento, per restarvi a lungo in adorazione e, strada facendo, gli fiorivano
sul labbro le più belle invocazioni a Dio, alla Madonna e ai Santi.
Benché la sua salute fosse quasi continuamente malferma,
Ippolito digiunava tre volte la settimana e si cibava di pane, frutta e legumi,
raramente di carne e di pesce. Se il confessore glielo avesse permesso, avrebbe
fatto volentieri uso anche dei cilici e dei flagelli, per prendere parte ai
dolori del Figlio di Dio, alla contemplazione dei quali difficilmente riusciva
a trattenere le lacrime. Fu tuttavia lieto di potere almeno offrire a Dio le
sofferenze che gli procurava al petto una piaga da lui tenuta nascosta a tutti
per quattordici anni. Di notte riduceva le ore di sonno per attendere alla
preghiera, alla meditazione del Vangelo e della Imitazione di Cristo e
preparare diligentemente le lezioni di catechismo.
Ippolito ai suoi associati nella catechesi suggerì nuovi
esercizi spirituali. Nelle feste li radunava nell’Oratorio al mattino presto
per il canto dell’Ufficio Divino, la preghiera di suffragio per i defunti e la
preparazione alla Comunione generale che facevano nella seconda domenica di
ogni mese. La sera del venerdì li radunava per parlare loro della Passione del
Signore e prendere la disciplina conforme alla consuetudine del tempo.
Tanto zelo di Ippolito non tornò gradito al parroco di
Santa Lucia, ma egli, anziché desistere dai suoi buoni propositi, continuò ad
adoperarsi per la formazione di quei giovani che erano disposti a coadiuvarlo
nell’evangelizzazione degli ignoranti e dei poveri. I buoni effetti non
tardarono a farsi notare. Difatti, fu necessario moltiplicare i sacerdoti
addetti al ministero delle confessioni, perché erano molti coloro che si
decidevano di fare ritorno sul retto sentiero alla loro scuola.
Non tutti i congregati condivisero sempre il sublime ideale
del fondatore, ma costui non ne rimase sorpreso perché, quattordici anni prima,
illuminato da Dio, aveva previsto le incomprensioni e le persecuzioni quali
sarebbe andato incontro. Un giorno constatò amaramente di essere rimasto
soltanto con cinque Fratelli. La sua afflizione, per quattro anni, fu ancora
più aggravata da tentazioni contrarie alla fede e da spaventose aridità di
spirito. Quando le prove erano più forti recitava una lunga professione di fede
che aveva composto a sua consolazione. Ne fu liberato il giorno di Natale, non
sappiamo di quale anno, al momento della comunione. Nella festa
dell’Ascensione, dopo la comunione fatta nella chiesa di S. Giovannino, gli fu
concesso di vedere in estasi il trionfo di Gesù risorto, in premio delle prove
da lui pazientemente sopportate.
Lo zelo per l’istruzione della gioventù nelle verità della
fede si accrebbe, nel cuore di Ippolito, quando gli fu offerta la direzione
dell’Oratorio di San Salvatore. Vi si trasferì con i pochi Fratelli che gli
erano rimasti fedeli senza tuttavia abbandonare del tutto l’Oratorio di Santa
Lucia.
Nel 1590 il granducato di Toscana, governato da Ferdinando
I de’ Medici fu devastato da una grande carestia. All’apostolato del catechismo
il beato aggiunse allora anche quello della carità. Per aiutare gli affamati
che facevano ressa alle porte della città, non solo si privò del necessario, ma
non si vergognò di andare con i suoi Discepoli a questuare di porta in porta
l’occorrente, per sovvenire alle loro necessità. Anche quando la carestia cessò
Ippolito non perse di vista i malati, che andava a servire e a consolare
nell’ospedale di Santa Maria Nuova, dei condannati a morte e dei poveri a
beneficio dei quali, al termine del carnevale, organizzava un banchetto
proporzionato alle offerte, che i benefattori gli facevano pervenire.
Nonostante tanta virtù dispiegata nel servizio di Dio e dei
fratelli, coloro che due anni prima avevano scelto Ippolito come loro capo,
rosi dall’invidia, cominciarono a denigrarlo come se fosse un despota e un
dissipatore delle loro sostanze. Per evitare incresciose contese il beato
rinunciò all’ufficio di Guardiano nelle mani del Vicario generale della
diocesi. Costui, che apprezzava il Galantini, lo incaricò allora della
direzione dell’Oratorio di San Domenico in Palazzuolo, ma oltre quaranta
congregati, lacerati da continue discordie, si rifiutarono di collaborare con
lui. Non per questo Ippolito venne meno ai suoi impegni, tuttavia ne fu
talmente amareggiato che cadde gravemente malato. Appena recuperata la salute,
Dio permise che fosse tormentato, per un po’ di tempo, da violente tentazioni
d’impurità e da una dolorosa sciatica. Tra tante sofferenze il beato non fu mai
udito uscire in un lamento, certo com’era che Dio non lo avrebbe abbandonato in
quell’opera da Lui voluta.
Lasciato l’Oratorio di San Domenico, con i suoi compagni il
beato fece ritorno in quello di Santa Lucia. Fu tanta la gente che accorse ad
ascoltare le sue lezioni che fu necessario ricercare una chiesa più vasta.
Il Card. Alessandro de’ Medici lo affidò alle cure del
canonico Niccolò Martini, il quale si adoperò perché ad Ippolito e ai suoi
associati fosse affidato l’Oratorio di San Sebastiano. Anche là, però, non gli
mancarono incomprensioni e persecuzioni. Fin da quando il Galantini aveva
cominciato a prendersi cura dei giovanotti, dopo gli esercizi di devozione fatti
in comune, li conduceva fuori dalle mura della città perché si distendessero
con il gioco delle palle. Un predicatore della Quaresima, male interpretò tanto
zelo del beato, e dal pulpito non si peritò di presentare l’associazione di lui
come “un ridotto di gente dedita al gioco”. Il Vicario generale della
diocesi ne prese energicamente le difese costringendo lo sconsiderato
predicatore a ritrattare dal pulpito l’ingiusto apprezzamento.
Alla morte del padre, il Galantini dovette moltiplicare il
lavoro per mantenere i suoi familiari. In mezzo a gravi ristrettezze economiche
egli non perdette mai la fiducia nella Provvidenza. Più di una volta, dopo
ferventi preghiere, gli giunsero degli aiuti insperati. Un certo Guglielmo
Gambini, mosso a compassione della sua povertà, gli pagò persino un discreto
debito che aveva ereditato dal padre, motivo per cui Ippolito poté continuare a
dedicarsi con tutte le forze all’istruzione della gioventù e alla conversione
dei peccatori.
I fiorentini, ammirati di quanto il Galantini faceva per i
loro figli, gli offrirono il denaro necessario per la costruzione di un
Oratorio nel luogo e nella forma da lui ritenuti più opportuni. Anche il Card.
Alessandro de’ Medici lo aiutò, raccomandandolo alla benevolenza del Gran Duca
Ferdinando I (+1609). Il 14-10-1602 fu posta la prima pietra dell’Oratorio
nella parte più povera della città e dedicato per volontà di Clemente VIII
(+1605) a S. Francesco d’Assisi. Dopo un anno il Galantini ne prese possesso
con i suoi Discepoli. In precedenza gli era stata offerta la direzione della
Congregazione dell’Angelo Raffaele, destinata ai figli dei nobili e dotata di
una cospicua rendita, ma egli la rifiutò preferendo lavorare in povertà di
spirito e di mezzi.
Nell’organizzazione della congregazione non tutti i suoi
collaboratori nutrirono i medesimi sentimenti. Alcuni di loro brigarono persino
per divenire gli esclusivi Guardiani, ma Mons. Alessandro Marzimedici,
succeduto nel governo della diocesi al Card. Alessandro de’ Medici, eletto papa
con il nome di Leone XI (+1605), confermò il beato nel governo della
Congregazione della Dottrina Cristiana e lo sostenne nel suo compito. Il
fondatore potè così stabilire un regolamento di vita per gli associati viventi
in famiglia. Esso sarà approvato da Leone XII il 17-9-1824. Il superiore, con
il nome di Guardiano, era coadiuvato nel governo dell’Istituto da quattro
assistenti. Nell’insegnamento i Fratelli si servivano della Dottrina cristiana
breve, scritta nel 1597 da S. Roberto Bellarmino per ordine di Clemente VIII.
Il Galantini, però, esigeva dai suoi collaboratori che, prima di insegnarla
agli altri, la praticassero loro stessi ogni giorno.
A tutti Ippolito dava esempi di fede, di speranza e di
carità. Non per nulla Leone XI lo chiamava “l’apostolo di Firenze”. I
suoi confessori, il P. Giovanni Battista Zafferani S.J., e il P. Alberto Lioni,
carmelitano, nei processi apostolici dichiararono di non avere riscontrato in
lui dei peccati veniali deliberati. Ciò nonostante egli si considerava il più
grande peccatore della terra e degno di mille inferni. Per ottenere la grazia
di governare bene la Congregazione, di cui non voleva essere chiamato
Fondatore, si recò a venerare, prima al monte della Verna, S. Francesco di
Assisi e poi a Siena, S. Caterina, discepola dei Domenicani. Per superare le
avversità che sovente lo affliggevano nel compimento del proprio dovere,
pellegrinò pure alla Santa Casa di Loreto (Ancona). Per restare più unito a Dio
ogni tanto si rifugiava a pregare e a meditare nell’Oratorio che la
Congregazione possedeva nella vicina Fiesole.
Per evitare che nel periodo estivo i Fratelli, meno
impegnati con la scuola di catechismo, si abbandonassero all’ozio, Ippolito
stabilì che dalla Pasqua alla festa di S. Francesco d’Assisi si radunassero
ogni sera nell’Oratorio della Congregazione, eccetto il venerdì e il sabato,
per leggere vite di santi, meditare, pregare insieme e cantare, esattamente
come avevano già fatto durante il carnevale con grande soddisfazione dei
fiorentini. A Pentecoste faceva esporre per tre giorni il SS. Sacramento perché
fosse adorato dai fedeli. Anche durante la Quarantore il SS. Sacramento veniva
solennemente esposto, ed era commovente vedere il beato prostrato per tutta la
notte in adorazione davanti al Signore del cielo e della terra, o udirlo
ragionare sulla presenza di Gesù nell’Eucarestia.
Nel 1617 il Gran Duca Cosimo II, succeduto nel 1609 a
Ferdinando I, suo padre, cadde gravemente malato. Per impetrarne la guarigione,
nel Palazzo Pitti fu esposto solennemente il SS. Sacramento e il B. Galantini
ricevette l’incarico di rivolgere per due giorni pie esortazioni ai fedeli
accorsi ad implorare la grazia.
La fama dello zelo del beato non tardò a diffondersi in
altre città e ad essere apprezzato dai vescovi di tutta la Toscana.
Difatti, fu chiamato a stabilire la sua Congregazione a
Volterra (Pisa), a riformare quella di Pistoia, a incrementare quella di Lucca,
ad avviare quella di Modena per volere dello stesso Gran Duca Cosimo II
(+1621). Con il passare degli anni, il beato, o in persona, o per mezzo dei
suoi Fratelli, organizzò l’insegnamento del catechismo anche a Signa (Firenze),
Ponsacco (Pisa), Cento (Ferrara), Perugia e Parma, senza mai lasciarsi
scoraggiare dalle incomprensioni e dalle avversità. I Fratelli più giovani
avrebbero voluto mitigare la disciplina stabilita nella Congregazione fin dalle
origini, ma il Fondatore, per impedire la dissoluzione dell’Opera, pensò di
costituire i fondi necessari per stipendiare quattro sacerdoti da stabilire
nell’Oratorio per il mantenimento della concordia e dell’unità tra i Fratelli.
I più ostinati non si vergognarono allora di accusare il fondatore di errori
nell’insegnamento della religione presso il Tribunale dell’Inquisizione. Le
autorità disposero accertamenti, ma risultò che nessuno dei congregati
insegnava la dottrina cristiana con più unzione ed esattezza del B. Ippolito.
Nel vedere il Fondatore ricolmato d’i onori persino da parte
dell’Inquisitore, gli avversari di Ippolito decisero di umiliarlo facendo
ricorso prima all’arcivescovo di Firenze, poi al Nunzio apostolico, Mons.
Antonio Grimani, e quindi al Gran Duca della Toscana. Costoro fecero
interpellare i più ragguardevoli fiorentini riguardo all’operato del beato, ma
sulle loro labbra non fiorì che la lode più entusiasta per l’apostolo della
dottrina cristiana. Il Galantini fu allora preso sotto la protezione del Gran
Duca e l’Oratorio affidato alla direzione di quattro sacerdoti, per il bene
spirituale di tutti gli associati.
Come avevano sempre fatto, molte persone continuarono a
ricorrere al beato per consiglio, perché tutti ritenevano che fosse dotato di
spirito profetico. Amava intrattenersi con lui in discorsi spirituali persino
S. Maria Maddalena de’ Pazzi (+1607), carmelitana nel monastero di S. Maria
degli Angeli a Firenze. Un giorno ella suggerì a un certo Giovanni Lapi,
afflitto da una fistola lacrimale all’occhio sinistro, di rivolgersi al B.
Galantini. Per deferenza verso la grande mistica Ippolito si inginocchiò
davanti al crocifisso, pregò, tracciò un segno di croce sull’occhio malato dell’infelice
e la fistola all’istante scomparve. Dell’aiuto del Galantini si valse anche S.
Camillo de’ Lellis (+1614), quando si trovò nella necessità di fondare a
Firenze una casa per i suoi Chierici Regolari Ministri degli Infermi.
L’opera del Galantini poteva ormai considerarsi conclusa.
Cessate le contrarietà, il beato cominciò a desiderare più ardentemente il
Paradiso. Vi si preparò con una preghiera più assidua, uno zelo più attivo e
una esortazione più paterna ai Fratelli dai quali dipendeva l’avvenire
dell’Istituto. Verso la fine di ottobre del 1618 fu assalito dall’asma e dalla
febbre. Fu sottoposto dai medici a salassi, ma senza alcun beneficio. Volle
allora confessarsi e ricevere il viatico perfettamente conformato al volere di
Dio. Dopo due mesi fu assalito da idropisia di petto che gli cagionò una sete
inestinguibile. Al suo capezzale accorsero i più illustri cittadini, tra cui
l’arcivescovo Mons. Marzimedici, che ordinò pubbliche preghiere per l’infermo.
Il morente, ai Fratelli diceva: “Ah, non piangete,
perché è tempo piuttosto di esultare e di gioire. Si avvicina difatti l’ora di
raccogliere il frutto delle sofferte fatiche”. A chi temeva per il futuro
della Congregazione rispondeva stringendo tra le mani il crocifisso:
“Iddio proteggerà bene l’opera sua. E importante che tra voi fiorisca la
concordia e la pace, che sono le condizioni indispensabili per la prosperità
dell’Istituto”. A chi gli doveva succedere nel governo della Congregazione
raccomandò: “Figliuolo, qualora il Signore volesse servirsi di te,
corrispondigli con generosità, cammina rettamente davanti a lui e preparati per
amore suo a soffrire, non a godere”. Al confessore, che gli chiedeva se la
malattia gli recava fastidio, disse che spiritualmente si sentiva tranquillo e
che sarebbe stato disposto a soffrire le stesse pene fino al giorno del
giudizio, se così Dio avesse disposto.
Il Galantini morì guardando il crocifisso nel pomeriggio
del venerdì 20-3-1619. La sua salma, rivestita della divisa dell’Istituto, fu
trasportata nell’Oratorio della Congregazione dove, per tre giorni una
moltitudine di fiorentini andarono a gara per farle toccare oggetti di
devozione. Per volere del confessore, il P. Alberto Leoni, attorno al capo del
defunto fu posta una ghirlanda di fiori, simbolo dell’innocenza battesimale con
cui aveva fatto ritorno alla casa del padre. Il 13-12-1756 Benedetto XTV
riconobbe l’eroicità delle virtù del Galantini e il 31-5-1825 Leone XII gli
decretò il titolo di beato.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 224-230.
http://www.edizionisegno.it/