La guerra scatenata da Adolfo Hitler nel 1939 rendeva difficile la vita anche a Rennes. La città l’ 8-3-1943 fu bombardata per la prima volta. Tra le oltre trecento vittime ci fu pure Maddalena, la sorella di Marcello. Fu lui che la trasse fuori dalle macerie dando prova di grande calma e sangue freddo. A questa sciagura un’altra se ne aggiunse: la sua requisizione da parte dell’organizzazione tedesca detta Servizio di Lavoro obbligatorio. Il santo giovane ricevette l’ordine di partire per la Germania la vigilia dei funerali della sorella. Avrebbe potuto nascondersi, ma non lo fece per non esporre i genitori a feroci rappresaglie. Preferì, dunque, partire per non creare noie a suo padre, che lavorava ancora, e a suo fratello, alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, ma soprattutto per fare “il missionario”, assistere cioè spiritualmente i giovani già partiti per il lavoro forzato in Germania.
Il 1-6-1987 Giovanni Paolo II ha riconosciuto il martirio di Marcello Callo, subito il 19-3-1945 nel campo di sterminio di Mathausen
(Austria) a soli 23 anni di età. Egli nacque a Rennes (Ille-et-Vilaine), il
6-12-1921, secondo dei nove fìgli che Giovanni Maria, modesto operaio di una
ditta che si occupava della costruzione di ponti e di strade, ebbe da Felicita
Fanène, cuoca di professione. AI fonte battesimale della parrocchia di
St.-Aubin gli furono imposti i nomi di Marcello, Maria e Gabriele. In famiglia
imparò molto presto a pregare con i genitori al mattino e alla sera, a cantare
il Credo e a recitare il rosario e, nella cappella delle Monache Clarisse e delle
Suore dell’Adorazione, a servire la Messa.
Crescendo in età si mostrò un po’ troppo autoritario con i
fratelli e le sorelle, ma fu molto affettuoso e servizievole con tutti,
specialmente con la mamma, soprattutto dopo la prima comunione (1932) e la
cresima che ricevette nella cattedrale di Rennes (1933). A causa delle non
floride condizioni economiche della sua famiglia, Marcelle potè frequentare
soltanto le scuole dell’obbligo, durante le quali dimostrò di essere
intelligente, ma un po’ svagato e incostante. Crebbe tuttavia sano di mente e
puro di cuore, allegro, amante del giuoco e della sincerità. Il canonico Haraut
di lui dichiarò: “So che faceva la comunione… Ricordo che mi faceva
l’impressione di un ragazzo molto soprannaturale”.
A dodici anni il
beato entrò nelle organizzazioni giovanili cattoliche e, in particolare, dello
scoutismo in cui diede prova di molta rettitudine, discrezione e semplicità di
spirito. Prendeva parte alla Messa anche nei giorni feriali durante i campeggi sui
monti della Francia meridionale. Divenuto apprendista e scout di prima classe a
motivo della sua edificante condotta, fu nominato capo della pattuglia delle
Pantere, formata da giovani apprendisti come lui.
Quando Marcello entrò nel mondo del lavoro fu costretto ad
abbandonare lo scoutismo. Il sac. Giulio Martinais, suo confessore occasionale
e cappellano della sezione jocista di St.-Aubin, lo persuase allora a dare il
suo nome all’Associazione della Gioventù Operaia Cristiana (J.O.C.) che era stata
fondata a Rennes nel 1929. Da quel momento l’impegno del beato per
l’associazione divenne continuo e costante. Lo stesso sac. Martinais affermò:
“Egli fu veramente l’eccellente militante e il dirigente modello di cui
avevamo bisogno. Per diversi anni sono stato il testimone edificato della sua
molteplice dedizione e della profonda azione che esercitò sui suoi compagni.
Amava la sua sezione e, per mezzo di essa, aveva sognato di fare del bene ai
giovani che la frequentavano. Sapeva per esperienza quanto fosse necessaria una
simile opera… Apostolo del tempo libero, egli lo fu ancora di più nel lavoro
di educazione e di formazione che qui intraprese onde fare dei nostri giovani
dei veri jocisti”. Per averne una conferma basta leggere i due discorsi
che egli, diciannovenne, tenne nel 1940 agli amici e agli associati della
J.O.C. Ci teneva che essi “nell’ambiente del lavoro sapessero diffondere
il loro spirito di fraternità, sapessero vivere e realizzare la dottrina di
Colui che essi consideravano come un fratello: il Cristo operaio”.
Il 1-10-1934 Marcello, vero apostolo della Gioventù
operaia, entrò come apprendista nella Tipografia Provinciale dell’Ouest,
e vi rimase fino al 1943. In principio fu vittima di vessazioni da parte di
operai senza fede e senza costumi. Poiché lo consideravano un clericale, per
quaranta giorni non gli parlarono e non gli prestarono aiuto alcuno. Il beato,
lieto di poter guadagnare qualche soldo a sollievo della famiglia, non se ne
lasciò abbattere. Si applicò coscienziosamente al suo lavoro convinto che, per
esercitare l’apostolato tra i colleghi, serviva anche la professionalità con
cui lo compiva. I dirigenti erano contenti di lui, ma lui non era contento dei
suoi compagni per i discorsi empi e disonesti che facevano sulla Chiesa, la
Messa, le donne. La mamma gli suggerì di dire, mentre si recava al lavoro;
“Mia buona Madre, Maria, ricordati che ti appartengo; proteggimi,
difendimi come tuo bene e tua proprietà”.
A poco a poco, il beato con la serietà del suo comportamento,
si impose al rispetto e alla stima degli spregiudicati colleghi di lavoro. Si
servì suo ascendente per impedire che gli apprendisti venissero sottoposi
soprusi, e per riportare l’ordine tra gli uomini e le donne che lavorava nel
reparto delle macchine da stampa sistemato nel sottosuolo della tipografia,
ogni volta che li udiva litigare con l’uso di parole triviali. Non per nulla
nello stabilimento veniva soprannominato “Gesù Cristo”.
La mamma un giorno chiese al figlio se, nella sua vita, non
aveva mai sentito l’inclinazione di farsi sacerdote come Giovanni, il fratello
maggiore. Marcello le rispose: “Io non mi sento chiamato al sacerdozio;
ritengo di fare maggiormente bene restando nel mondo”. Alla J.O.C, nel
1942 conobbe la signorina Derniaux. Avendo notato che era animata dai suoi
stessi sentimenti, l’amò e le promise che un giorno l’avrebbe fatta sua sposa.
La guerra scatenata da Adolfo Hitler nel 1939 rendeva
difficile la vita anche a Rennes. La città 1’8-3-1943 fu bombardata per la
prima volta. Tra le oltre trecento vittime ci fu pure Maddalena, la sorella di
Marcello. Fu lui che la trasse fuori dalle macerie dando prova di grande calma
e sangue freddo. A questa sciagura un’altra se ne aggiunse: la sua requisizione
da parte dell’organizzazione tedesca detta Servizio di Lavoro obbligatorio. Il
santo giovane ricevette l’ordine di partire per la Germania la vigilia dei
funerali della sorella. Avrebbe potuto nascondersi, ma non lo fece per non
esporre i genitori a feroci rappresaglie. Preferì, dunque, partire per non
creare noie a suo padre, che lavorava ancora, e a suo fratello, alla vigilia
della sua ordinazione sacerdotale, ma soprattutto per fare “il
missionario”, assistere cioè spiritualmente i giovani già partiti per il
lavoro forzato in Germania. Di essi, per volontà dei nazisti, il clero locale
non poteva prendersi cura. La mattina del 19-3-1943 disse alla svelta
“arrivederci” ai familiari, e volle essere accompagnato alla stazione
soltanto da un amico.
Il beato giunse al campo di lavoro di Zella-Mehlis, in
Turingia, cinque giorni dopo, dove, adorno del distintivo della J.O.C., iniziò
subito il suo lavoro apostolico tra i prigionieri e i deportati di diverse
nazioni nonostante i gravi rischi che questo comportava. Nella zona non c’erano
riti religiosi per gli stranieri. Soltanto una volta all’anno compariva in
mezzo a loro un prete cattolico il quale, dopo aver impartito un’assoluzione
collettiva, celebrava la Messa e distribuiva la comunione a chi la voleva. Per rianimare
la fede tra loro, Marcello si adoperò perché un sacerdote tedesco, che
conosceva il francese, celebrasse la domenica, nella chiesa di Zella, la Messa
per coloro i quali volevano prendervi parte.
Fu un successo. Era bello allora vedere il beato, dal
fondo della chiesa, salire lentamente verso l’altare maggiore per ricevere la
comunione, con le braccia in croce, cantando: “Mio Dio, io non sono degno
di riceverti”.
Nel campo di concentramento in cui viveva, Marcello
continuava a fare una discreta, ma continua propaganda religiosa con la parola
e con l’esempio. A sera, nella baracca in cui dormiva, egli scriveva parecchio
ai familiari, alla fidanzata e ai jocisti degli altri campi di lavoro per
stabilire delle riunioni in cui si parlava della J.O.C., si programmavano Messe
e anche incontri di foot-ball. Non aveva smesso l’abitudine di pregare.
Tornando dal lavoro entrava immancabilmente nella
chiesetta, se la trovava ancora aperta. Tutte le sere, prima di addormentarsi,
diceva il rosario. Vinceva così la tristezza che ogni tanto l’attanagliava, sia
perché non poteva prendere parte all’ordinazione sacerdotale del fratello e sia
perché non poteva fidanzarsi ufficialmente con la giovane che amava.
L’attività religiosa svolta dal beato nel suo habitat non
fu gradita dalla politica tedesca. Per questo motivo, infatti, il 19-4-1944 fu
trasferito nella prigione della Gestapo di Gotha, nel distretto di Erfurt,
insieme con i sacerdoti e i seminaristi che svolgevano clandestinamente il loro
apostolato tra i giovani deportati in altri campi. “Perché arrestate
Marcello Callo?” aveva chiesto un suo compagno di baracca al poliziotto
tedesco, esecutore di ordini superiori. Gli rispose: “Perché il signore è
troppo cattolico”. Marcello raccomandò ai genitori: “Non
compiangetemi… Io offro tutte le mie pene per voi, per il mio futuro
focolare, per la mia cara J.O.C. Viva Cristo!”.
Tutti gli arrestati per motivi religiosi furono
radunati dai tedeschi in una sola cella, da essi soprannominata
“chiesa”, perché tutte le sere i detenuti vi facevano la preghiera in
comune prostrati davanti a una croce fatta di fiori di sempreviva colti nei
campi, e cantavano inni. Il loro arresto fu così motivato dal tribunale di
Berlino: “Con la loro azione cattolica e sociale, hanno attentato alla
sicurezza del Grande Reich”. Il beato dimostrò di possedere una eroica
fortezza quando l’ispettore lo costrinse a strappare le lettere e le fotografie
dei familiari, della fidanzata e dei suoi colleghi di apostolato. Contro i suoi
aguzzini non si lasciò sfuggire parole di riprovazione e neppure le permise
negli altri compagni di sventura, anche quando a causa del cibo troppo
grossolano, contrasse il mal di stomaco.
Marcello rimase nella prigione di Gotha fino ai primi di
ottobre del 1944, addetto alla coltivazione degli orti che sorgevano nei
dintorni della città. Un suo compagno di prigionia, il P. Paolo Berchet, S.J.,
attestò che non perse l’allegria, anzi, che la manifestava esternamente con canti
quando, al giovedì, si riuniva con i suoi amici più intimi per commemorare
l’istituzione della Eucaristia e fare la lettura della Messa. Un giorno ebbe la
fortuna di fare la comunione in un angolo del cortile con un’ostia che gli era
stata fatta pervenire clandestinamente.
Il 25-9-1944 la Gestapo di Berlino ordinò che Marcello
Callo e i suoi compagni di cella fossero internati in un campo dove fosse stato
possibile riservare loro un trattamento più duro. E questo perché il beato
“con la sua azione cattolica presso i suoi camerati, durante il tempo di
lavoro, era un pericolo per lo stato e per il popolo tedesco”. Nell’ultima
lettera che Marcelle riuscì a scrivere ai genitori si legge; “Quanto
ringrazio il Cristo di avermi tracciato il cammino che seguo in questo momento.
Che belle giornate da offrirgli… Quanto è dolce e confortevole soffrire per
coloro che si amano”.
Attesta sempre il P. Berchet: “Lasciammo Gotha il
primo venerdì del mese di ottobre dopo una fervente novena a S. Teresa di Gesù
Bambino… e in vagone cellulare siamo passati per Weimar”. Al campo molto
duro di Flossenburg, Marcello giunse, con altri 78 compagni, il 12-10-1944,
incatenato come un malfattore. Andrea Tibodo, suo compagno di sventura e
militare di carriera, affermò che i tedeschi furono severi con Marcello perché
ai loro occhi appariva un jocista molto convinto. Daniele Bonino, suo compagno
di camerata, depose nel processo: “La sua fede era profonda. Egli pregava
con me e con gli altri, nascondendosi talvolta in un angolo del tunnel per Io
spazio di una Ave Maria. Ci diceva: “Fiducia, il Cristo è con noi”.
Egli teneva alto il morale dei suoi camerati esclamando: “Non bisogna
lasciarsi andare! Dio ce ne liberi!” Pregava sempre. Condivideva il suo
pane con i compagni di prigionia pur avendone egli stesso grande bisogno”.
Per il suo coerente atteggiamento di credente, tredici
giorni dopo, il beato fu trasferito nel campo di sterminio di Mauthausen, in
Austria. Nell’uscire da Flossenburg, Marcello vide una croce che dominava un
Calvario. Disse allora ad alta voce ai suoi compagni: “Osservate bene
questo Cristo, forse non vedremo più altri crocifissi”. Nel campo di
Gùssen II, dipendente da quello di Mauthausen, al quale fu destinato a partire
dal 7-11-1944 con il numero 108.584, la costituzione fisica del beato non
resistette alle privazioni, ai lavori forzati, all’angoscia di restare senza
notizie.
Finché visse, Marcello Callo non fu maltrattato, né
percosso dalle guardie del campo, ma come tutti gli altri prigionieri di
diverse nazionalità dovette subire il freddo, la fame, gli interminabili
appelli e le estenuanti code per avere un po’ di zuppa e un pezzo di pane nero.
Nei vari blocchi del campo le latrine consistevano in una grande fossa alla quale
sovrastava una sbarra di ferro. Essendo collocata troppo in alto, bisognava
afferrarla con molta energia per non precipitarvi dentro. La triste sorte
capitò un giorno proprio a Marcello, perché le forze stavano ormai per
abbandonarlo. Fortuna volle che fosse presente all’incidente Andrea Tibodo, il
quale lo estrasse subito dalla fossa e lo trasportò sul suo lettuccio senza che
alcuno se ne accorgesse. Fu allora che il Tibodo percepì che Marcello non era
un giovane come gli altri e che “aveva uno sguardo da santo”.
Nel processo canonico questo teste oculare affermò:
“Se io, non credente, che ho visto morire migliaia di prigionieri, sono
stato colpito dallo sguardo di Marcello Callo, è perché in lui c’era qualcosa
di straordinario. Per me fu una rivelazione: il suo sguardo esprimeva una
convinzione profonda che portava verso la felicità. Era un atto di fede e di
speranza verso una vita migliore. Non ho mai visto in nessuna parte, accanto ad
ogni moribondo (e ne ho visti migliaia), uno sguardo come il suo”.
Sentendo le forze venirgli meno giorno dopo giorno,
Marcello cercava di reagire, dicendo: “Non bisogna lasciarsi andare. E
nella preghiera che si trova la forza”. Morì, invece, il 19-3-1945 a due
anni di distanza dalla sua partenza da Rennes per debolezza cardiaca e catarro
acuto dell’intestino crasso. Tibodo, che lo raccolse per portarlo morente sopra
un lettuccio dell’infermeria, in seguito dichiarò: “Vedevo per la prima
volta nel viso di un deportato un’impronta che non era unicamente quella della
disperazione”. Il suo corpo, con molta probabilità, fu buttato insieme a
quelli di tanti altri prigionieri in un forno crematorio.
Giovanni Paolo II beatificò Marcello Callo il 4 ottobre
1987.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 218-223.
http://www.edizionisegno.it/