Martire, secondo la Chiesa Cattolica, è colui che, volontariamente, preferisce subire la morte corporale piuttosto di rinnegare la fede in Dio. Al B. Liberato e ai suoi due compagni è stato riconosciuto questo titolo, perché, in Etiopia, preferirono lasciarsi lapidare dai monofisiti anziché rinnegare l’esistenza in Gesù Cristo delle due nature, quella divina e quella umana.
Martire, secondo la Chiesa Cattolica, è colui che,
volontariamente, preferisce subire la morte corporale piuttosto di rinnegare la
fede in Dio.
Al B. Liberato e ai suoi due compagni è stato
riconosciuto questo titolo, perché, in Etiopia, preferirono lasciarsi lapidare
dai monofisiti anziché rinnegare l’esistenza in Gesù Cristo delle due nature,
quella divina e quella umana.
Il cristianesimo
in Etiopia fu introdotto da due fratelli fenici, Frumento ed Edesio, dopo che
erano stati fatti prigionieri sulle rive del Mar Rosso e condotti ad Axum,
capitale del regno. Essi, da ferventi cattolici, si erano imposti talmente alla
benevolenza del re, da meritare di essere nominati educatori dei suoi figli. Al
termine del loro servizio ottennero di fare ritorno alla loro patria. Passando
per Alessandria d’Egitto parlarono della diffusione del cattolicesimo
nell’Etiopia al vescovo della città, S. Atanasio (+373), il quale, anziché
lasciare che Frumenzio ritornasse in Fenicia, lo consacrò vescovo e lo rimandò
a dirigere la cristianità etiopica. Alla predicazione del novello presule anche
il re si convertì, motivo per cui la fede cattolica divenne religione di stato
e, a poco a poco, si diffuse in tutte le regioni del paese.
Con l’occupazione, nel secolo VII, di tutta l’Africa
settentrionale da parte degli Arabi, l’Etiopia fu tagliata fuori da ogni
relazione con il rimanente della cristianità, fatta eccezione del patriarcato
copto di Alessandria, che aderì al monofisismo e si arrogò il diritto di
scegliere tra i suoi monaci il metropolita da inviare in Etiopia con il titolo
di Abuna e il compito, non di ordinare vescovi ausiliari, ma soltanto
sacerdoti, consacrare il re e dispensare dai voti.
Nel secolo XVI l’Etiopia corse serio pericolo di essere
invasa dalle orde musulmane. L’imperatore Lebna Dengel (1508-1540) chiese
allora aiuto ai Portoghesi che in quel tempo costeggiavano ed esploravano
l’Africa. I musulmani furono sconfitti. In ricompensa, ai Gesuiti portoghesi fu
concesso il permesso di entrare in Etiopia, di istituirvi il patriarcato
cattolico (1551) e ristabilire persino l’unione con la Chiesa Cattolica durante
l’impero di Susenyos( 1607-1632). Sventuratamente il suo figlio e successore,
Fasiladas, mutò parere. Proibì difatti ai suoi sudditi di avere relazioni con i
sacerdoti cattolici e cacciò persino i Gesuiti dal suo regno.
La S. Congregazione di Propaganda Fide cercò allora di
stabilire in Etiopia i Frati Minori Riformati, con l’erezione di una missione
nei regni di Ahmim, di Fungi o Sennar di cui fu nominato Prefetto il Padre
Francesco da Salemi. Costui partì per l’Etiopia nel 1700 in compagnia di alcuni
confratelli, tra cui Fra Giuseppe da Gerusalemme, esperto in medicina e buon
conoscitore del mondo arabo. Era nato a Damasco da una famiglia
greco-ortodossa, nel 1685 si era fatto cattolico ed era stato ordinato
sacerdote durante il viaggio. Prima di arrivare a Gondar, capitale dell’impero,
il P. Francesco per gli strapazzi subiti si ammalò. Prevedendo prossima la sua
fine nominò suo successore il P. Giuseppe. Costui, insieme a un confratello,
nell’agosto del 1701 riuscì ad arrivare a Gondar con lettere pontificie per
l’imperatore Jasu, il metropolita e il superiore generale dei monaci. Fu ben
ricevuto in udienza privata dall’imperatore, il quale accettò non soltanto di
discutere con lui tutte le questioni teologiche, ma si degnò persino di rinviarlo
a Roma come proprio ambasciatore presso il papa Clemente XI affinchè gli
esponesse il desiderio che aveva di ricevere nel suo regno i Frati Francescani
con il compito di lavorare per il ristabilimento dell’unione tra l’Etiopia e la
Chiesa Cattolica.
L’arrivo del P.
Giuseppe a Roma il 16-7-1703, vale a dire dopo un anno e mezzo di viaggio, con
6 ragazzi etiopici da educare, fu considerato un avvenimento eccezionale e
pieno di speranze. Il Commissario Generale dell’Ordine, il P. Giovanni Antonio da
Palermo, mandò subito a nome del papa lettere alle province della Famiglia
Cismontana, per invitare i confratelli più giovani a dare il proprio nome alla
missione per l’Etiopia. Più di 20 francescani risposero all’appello tra cui il
P. Liberato Weiss da S. Lorenzo, il P. Michele Pio da Zerbo, ai quali in
seguito si unì anche il P. Samuele Marzorati.
Il B. Liberato Weiss nacque il 4-1-1675 a
Konnersreuth in Baviera. Si fece Frate Minore a Graz il 13-10-1693; fu ordinato
sacerdote a Vienna il 14-9-1698; iniziò la sua attività prima a Langenlois e
poi la continuò a Graz da dove partì per le missioni nel 1703.
Il Beato Michele da Zerbo (Pavia), di cui ignoriamo
il cognome, fu membro della Provincia Riformata di San Diego in Insubria
(Lombardia). Il 21-1-1704 la S.C. di Propaganda Fide lo dichiarò missionario
apostolico e il 9-2-1704 il Commissario Generale dell’Ordine gli permise di
recarsi missionario nell’Etiopia, Fungi, Ahmim, Egitto Superiore e Socotra
(Aden).
Il B. Samuele Marzorati nacque il 10-9-1670 a Biumo
Inferiore, presso Varese, e fu battezzato lo stesso giorno della nascita con i
nomi di Antonio, Francesco e Maria. Si fece frate francescano nel convento di
Lugano, appartenente allora alla provincia riformata di Milano. Diventato
sacerdote, fu mandato a Roma nel collegio di San Pietro a Montorio perché si
preparasse all’apostolato missionario. Non si limitò quindi a fare gli studi
propri del collegio, ma frequentò pure i corsi di medicina e di chirurgia
nell’ospedale romano di Santo Spirito e il 5-3-1701 ottenne da Clemente XI il
permesso di esercitarle.
I primi due di questi martiri furono destinati alla
missione etiopica con altri confratelli. Sotto la guida del Prefetto, il Padre
Giuseppe da Gerusalemme, essi cercarono di raggiungerla scendendo dal Cairo per
la via del Nilo (1704-1710) ma, quando giunsero al regno di Fungi o Sennar, il
re non permise che andassero oltre. Anche il P. Samuele con alcuni confratelli
fu mandato alla missione dell’isola Socotra (1705-1711), ma l’impresa fallì.
Per gli stenti patiti, il 29-5-1709 a Sennar morì il P. Giuseppe. Gli ultimi
due componenti la spedizione, il P. Liberato e il P. Michele Pio, si fermarono
nella regione ancora oltre un anno in attesa di occasioni propizie, ma poi,
“senza denari, provvisioni e soccorso umano”, “affamati,
vilipesi e strapazzati da tutti”, il 3-12-1710 fecero ritorno ad Ahmim,
ospizio della missione etiopica nell’Alto Egitto, dopo un viaggio pieno di
insidie e di timori.
Essendo ormai chiaro che ai Francescani non sarebbe stato
possibile penetrare in Etiopia per la via del Nilo, la S.C. di Propaganda Fide
propose loro di raggiungerla per la via del Mar Rosso: Suez, Gedda, Moka,
Massaua. Il P. Liberato accettò in virtù di obbedienza “non senza rivi di
lacrime” l’incarico di Prefetto della missione etiopica. Come
collaboratori gli furono assegnati il P. Samuele e il P. Michele Pio. Nel
viaggio, iniziato dal Cairo il 3-11-1711, i tre missionari furono costretti ad
affrontare, come al solito, pericoli e disagi di ogni genere, soprattutto
l’avidità dei trasportatori dei bagagli, l’esosità dei doganieri e l’avversione
dei monaci e dei preti monofisiti del luogo.
Il P. Liberato arrivò con i due confratelli a Gondar il
20-7-1712. Sul paese non regnava più Jasu l’imperatore, ma Justos il quale, per
la probabile illegittimità dei suoi natali, da molti sudditi era considerato un
usurpatore. Lo sventurato non stava quindi mai in pace essendo costretto a
intervenire con le sue truppe per reprimere le ribellioni che scoppiavano nelle
varie regioni dell’impero. Ciò nonostante egli ricevette con amabilità i
missionari e promise loro ogni appoggio e favore. Tuttavia, affinchè non
fossero un nuovo motivo di scontento, proibì loro di predicare, di discutere le
questioni religiose e di dichiararsi romani.
Gli Etiopi chiamavano gli europei con il nome di
“franchi” e odiavano di cuore la Chiesa Cattolica. Conservavano
ancora il vivo ricordo della dominazione portoghese nel loro paese, e
dell’avidità con cui i Gesuiti avevano fatto incetta dei loro beni materiali
nel corso delle loro missioni. Il P. Liberato decise perciò di non accettare
nulla dalla corte imperiale né per il sostentamento suo e dei confratelli, né
per le medicine di cui avevano bisogno per l’esercizio dell’arte medica. Egli
sperava che la S. C. di Propaganda Fide avrebbe portato da 60 a 100 scudi il
contributo annuo per il mantenimento di ciascun missionario, e che avrebbero
aperto un ospizio a Moka, importante porto sulla sponda orientale del Mar
Rosso, da cui era facile raggiungere Massaua e quindi la Etiopia.
All’inizio i tre missionari si impegnarono nello studio
della lingua del luogo e nella cura dei malati, ma nessuno somministrava loro
neppure il denaro di cui avevano bisogno per comperare le medicine. Il P.
Liberato faceva l’orefice, eseguiva bassorilievi in oro e argento
apprezzatissimi dall’imperatore e dai grandi del regno, ma il profitto che ne
ricavava era troppo modesto. L’artefice, sconsolato, annotò in un suo scritto:
“Sanno benissimo i ministri del re l’ablativo, ma il dativo non l’hanno
mai studiato”. Il suo comportamento fu ritenuto generoso e dispendioso da
parte del P. Samuele, motivo per cui i loro rapporti divennero ben presto molto
tesi. Per amore di pace stabilirono di amministrare ciascuno la parte degli
aiuti pecuniari che gli spettava per il proprio sostentamento, vale a dire 50
reali.
A Gondar, per ordine dell’imperatore, i francescani
dovevano restare quasi nascosti. La gente ormai sapeva che non erano mercanti,
ma missionari venuti per seminare “gli errori di una religione
cattiva”. Sul loro conto e sulla loro religione alcuni armeni fecero
persino circolare delle false dicerie. Li accusavano infatti di essere nemici
della B.V. Maria, di preparare il pane da consacrare nella Messa con farina,
viscere di cane e cervello di porco, e di mirare al pervertimento di tutta
l’Etiopia, inducendo l’imperatore ad aderire alla loro religione.
Nonostante tante contrarietà i degni figli di S. Francesco
non se ne rimasero inoperosi, specialmente dopo che il loro interprete, Abba
Gregorio Tarara, il 12-1-1713 aveva fatto abiura nelle mani del P. Liberato.
Come sacerdote indigeno, più dei missionari egli poteva fare opera di
evangelizzazione perché non dava eccessivamente nell’occhio.
In poco tempo riuscì difatti a preparare all’abiura 157
catecumeni. Frattanto i missionari erano attanagliati dal dubbio di essere
abbandonati da tutti. In due anni non avevano ricevuto né notizie e né sussidi
tanto dal Cairo quanto da Roma. Poiché la loro vita diventava giorno dopo
giorno più precaria e la loro condizione sociale più difficile a causa delle
continue rivoluzioni che serpeggiavano nel paese, il 28-5-1714 presero la
decisione di comunicare alla S.C. di Propaganda Fide che avrebbero abbandonato
l’Etiopia se, entro 21 mesi, non avessero ricevuto soccorsi.
Alle chiacchiere della gente l’imperatore, all’inizio, non
aveva dato molta importanza, in seguito consigliò ai missionari di non uscire
di casa. Quando il comandante dell’esercito gli comunicò che la loro posizione
era insostenibile, in un primo momento intimò loro di lasciare il suo regno,
poi, nel settembre del 1715, concesse loro di stabilirsi nella provincia del
Tigre. Poco tempo dopo la loro partenza l’imperatore si ammalò. I suoi
avversari si recarono al monte Vekna, dove dimoravano i figli di stirpe regia,
presero con sé David, figlio di Jasu (1682-1706), e lo incoronarono imperatore.
Dopo circa 5 mesi, dal Tigre i tre francescani furono richiamati a Gondar
affinchè rendessero conto del loro operato al nuovo re, il quale aveva in
abominio la religione cattolica.
Il monarca volle sapere dalla loro viva voce chi erano e
che cosa erano venuti a fare nel regno. Con molta schiettezza gli risposero di
essere sacerdoti cattolici e di essere stati mandati in Etiopia dal Sommo
Pontefice, pastore della Chiesa, affinchè istruissero i suoi abitanti nella
vera fede per la salvezza delle loro anime. “Dunque – chiese loro il re –
noi non siamo cristiani?”. Gli risposero: “Siete cristiani solo di
nome, non di fatto”. In realtà praticavano ancora la circoncisione e
ammettevano in Gesù Cristo una sola natura. Il re minacciò loro la pena di
morte, ma essi con somma decisione gli dissero: “Moriremo incirconcisi e
confesseremo che in Cristo Gesù ci sono due nature, non una, fino allo
spargimento dell’ultima goccia di sangue”. Furono perciò condannati ad
“essere sepolti vivi sotto le pietre del torrente Angareb” che
scorreva poco lontano dalla collina Abbo.
La sentenza doveva essere eseguita il giorno dopo, il 3
marzo 1716, ma l’imperatore, forse agitato dal rimorso, promise loro che li
avrebbe salvati dalla morte se si fossero lasciati circoncidere e se avessero
partecipato all’eucarestia etiopica. A difesa della fede cattolica i tre
missionari francescani rifiutarono energicamente quelle proposte. Furono perciò
denudati, legati con le mani dietro la schiena e condotti al luogo del martirio
distante due miglia dalla loro casa, dai soldati e da una folla tumultuante.
Giunti sulla piana di Abbo, luogo dell’esecuzione, i tre francescani si
abbracciarono, parlarono sottovoce tra di loro e poi si inginocchiarono. Un
monaco, avvertito in precedenza, proclamò ad alta voce: “Maledetto,
scomunicato e nemico della Vergine Maria chiunque non tirerà cinque pietre
contro questi condannati”.
Sotto il grandinare dei ciotoli il P. Liberato morì
subito, il P. Michele riuscì a rimettersi in piedi una volta e il P. Samuele
tre. Non tutti gli etiopi approvarono quelle uccisioni. Diversi di loro
andarono difatti a pregare sul sepolcro dei martiri per raccomandarsi al loro
potere di intercessione presso Dio. Alcuni asserirono di avere visto il tumulo
di pietre che ricopriva le loro salme illuminato da un fulgidissimo splendore.
I servi dei missionari furono messi in carcere e, dopo un certo tempo, vennero
battezzati di nuovo. Il loro interprete, Gregorio Tarara, in un primo tempo fu
condannato a morte, in seguito il re lo obbligò soltanto a rimanere per un anno
a pane e acqua. Ad altri cattolici fu bruciata la casa. Giovanni Paolo II
riconobbe il martirio dei tre missionari francescani il 28-3-1988 e li
beatificò il 20-11-1988.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 55-60.
http://www.edizionisegno.it/