B. TERESA EUSTOCHIO VERZERI (1801-1852)

Teresa si faceva la serva di tutte occupandosi della cucina e dei lavori più umili. In tutte le figlie spirituali ella cercò d’istillare sempre l’amore al lavoro. Nelle sue lettere sono frequenti gli accenni ai ricami di arredi sacri, da eseguire con sollecitudine per le chiese che li avevano ordinati. Diceva loro: “Sapete quanto bene potete fare con il vostro lavoro, quante anime potete salvare con i vostri guadagni! Senza andare nelle Indie per sostenere queste fanciulle nel corpo, voi mettete in salvo le loro anime che a Cristo costano sangue”. Nell’accettazione delle postulanti si atteneva a quanto raccomandava il fondatore: “Si badi, si badi alla testa; il resto verrà da sé se la testa è buona!”.

La fondatrice delle Figlie del S. Cuore di Gesù nacque a
Bergamo il 31-7-1801, primogenita dei sette figli che il nobile Antonio ebbe
dalla contessa Elena Pedrocca Grumelli, sua consorte. Teresa crebbe
vivacissima. La madre sovente le diceva, prima di mandarla a letto, dopo la
recita del rosario in famiglia: "Guarda, piccina mia, sei tanto cattiva,
eppure spero ancora un gran bene da te". La grazia divina a poco a poco
distrusse in lei l’esuberanza di natura. Un giorno, mentre la mamma le leggeva
la meditazione sui due stendardi di S. Ignazio di Loyola, la beata ad un tratto
esclamò: "Oh, perché sono tante le anime ingannate? Perché i ministri del
Signore non si accendono tutti di zelo per salvarle? Potessi essere io un
sacerdote! Vorrei fare il possibile per convertirle tutte!" Fece la prima
comunione nella festa della riformatrice del Carmelo. Quel giorno le parve di
udire dentro di sé una voce che diceva: "Anche tu, come S. Teresa d’Avila,
avrai compagne che ti seguiranno in una nuova istituzione religiosa".
 Tra i sacerdoti che frequentavano casa Verzeri, Teresa
sentì una speciale attrattiva per il confessore della mamma, il canonico
teologo della cattedrale, conte Giuseppe Benaglio. A lui volle affidare la
direzione della propria anima. Spinta da un inquieto desiderio di
purificazione, mentre attendeva alle lezioni che i maestri le impartivano in
casa, cominciò a chiedere al direttore il permesso di fare delle mortificazioni
e penitenze e offerse a Dio, con voto, il fiore della sua verginità. Più tardi
appunterà: "Fino da giovinetta io conobbi chiaramente la vanità delle cose
del mondo… Ho sempre sentito con forza la necessità e convenienza che l’anima
sia indifferente ai beni creati". Il suo disprezzo delle vanità del mondo,
il suo contegno sostenuto e franco, tanto schivo delle lodi e delle protezioni
umane, fece esclamare con sdegno alle zie materne: "Sembra nata sul
trono!".
 Le rare doti di natura e di educazione della Verzeri
davano occasione a pronostici di nozze illustri, ma l’interessata non ci
badava. Confesserà più tardi: "Leggendo la vita della grande discepola di
S. Francesco di Sales, S. Giovanna Francesca Frémiot de Chantal (+l641) io
risentivo fortemente dentro di me quel medesimo desiderio e quel presagio di
vita santa, che mi aveva tanto affascinato nel giorno della prima comunione, e
quest’effetto si ripeteva leggendo la vita di Sant’Ignazio". Dio la chiamò
al suo servizio permettendo che fosse afflitta quasi continuamente da una
grande inquietudine di spirito. Per liberarsene chiese e ottenne dai genitori e
dal direttore spirituale il permesso di entrare nel monastero benedettino di
Santa Grata (1817), ma ne dovette uscire a causa di attacchi epilettici.
 In famiglia la Beata continuò a condurre una regolare
vita monastica, proponendo di rinnegarsi in tutte le cose, di combattere l’amor
proprio e di ubbidire ai genitori. La contessina Carolina Suardo, sua amica,
ammirò il disprezzo che nutriva per la ricchezza e la nobiltà, intenta com’era
a darsi tutta al Signore. Le furono fatte nuove proposte di matrimonio, ma ella
rispose: "Nemmeno per sogno". Appena poté fece ritorno al monastero,
dal quale era uscita per coadiuvare la direttrice nell’educazione delle nobili
collegiali, ma il suo modo evangelico di agire le attirò le critiche delle più
anziane che sospettarono in lei progetti di riforma d’accordo con Mons. Marco
Passi, superiore del monastero. Fu allora che il Benaglio progettò la
fondazione di un Istituto religioso per l’istruzione e l’educazione della
gioventù con l’aiuto della Verzeri e di alcune maestre (1823).
 La scuola aperta al Gromo non riuscì a prendere una forma
definitiva tanto presto, perciò la Beata visse per 3 anni con l’idea fissa
nella mente che, per attendere ad una vita tutta inferiore, avrebbe fatto
meglio a ritornare in monastero. Per superare le pene di spirito che
diventavano sempre più forti, ella s’imponeva sempre penitenze. Il canonico
Benaglio non voleva perdere la sua collaboratrice, ma ella gli rispose:
"Meglio salvare l’anima". La Beata ritornò dunque per la terza volta
nel monastero di Santa Grata ma, proprio quando credeva di aver compiaciuto il
Signore, fu privata di ogni consolazione divina e umana. Ciò nonostante vestì
l’abito benedettino con il nome di Eustochio. Nel capitolo, radunato per quella
circostanza, qualche monaca espresse parere sfavorevole nei riguardi della
postulante. Un’anziana, rimasta sconosciuta, disse: "Badino bene, sì, farà
la vestizione, ma non professerà. Uscirà come S. Camillo de’ Lellis e fonderà
una nuova Congregazione".
 Effettivamente, a causa delle orrende pene inferiori cui
andò soggetta, dei sospetti di cui fu oggetto e della propensione che sentiva
per le opere di carità, la Verzeri fu dal Benaglio ricondotta al Gromo allo
scopo di dare principio al nuovo Istituto delle Figlie del Sacro Cuore.
Prima però costui aveva voluto recarsi a Verona per consultare S. Maddalena di
Canossa (+1835) che nel 1808 vi aveva fondato l’Istituto delle Figlie della
Carità
. Il Benaglio le aveva parlato delle riforme che intendeva introdurre
nel monastero di Santa Grata in qualità di vicario generale della diocesi, ma
la marchesa di Canossa, conscia dei bisogni dei tempi, gli aveva risposto:
"Forma, forma, monsignore, non riforma!".
 Il Benaglio sottopose il suo progetto di fondazione al
nuovo vescovo di Bergamo, Carlo Gritti Morlacchi, il quale in linea di
principio non vi si oppose (1830). La Verzeri dal canto suo scrisse a Virginia
Simoni, nipote del Benaglio, che l’aveva sostituita nella direzione della
scuola del Gromo: "Mi affido a Dio che regge chi mi regola e alla fedeltà
e prudenza di chi mi regola. Mi persuado sempre più come sia necessario tenersi
in una grande quiete interna, per conoscere e fare quanto Dio vuole da
noi". Il 7-2-1831 il Benaglio scrisse alla Verzeri ed alla sua aiutante
stabilendole al Gromo: "La regola che dovete osservare subito con tutta
l’esattezza, è il totale rinnegamento di voi medesime, pienissimo abbandono
nelle mani del Signore, un’ubbidienza del tutto cieca e senza eccezione, grande
spirito di orazione e di raccoglimento".
 In quel tempo la casa del Gromo mancava di molte cose
necessarie ad una vita di comunità. Teresa si faceva la serva di tutte
occupandosi della cucina e dei lavori più umili. In tutte le figlie spirituali
ella cercò d’istillare sempre l’amore al lavoro. Nelle sue lettere sono
frequenti gli accenni ai ricami di arredi sacri, da eseguire con sollecitudine
per le chiese che li avevano ordinati. Diceva loro: "Sapete quanto bene
potete fare con il vostro lavoro, quante anime potete salvare con i vostri guadagni!
Senza andare nelle Indie per sostenere queste fanciulle nel corpo, voi mettete
in salvo le loro anime che a Cristo costano sangue". Nell’accettazione
delle postulanti si atteneva a quanto raccomandava il fondatore: "Si badi,
si badi alla testa; il resto verrà da sé se la testa è buona!".
 Con le prime giovani che la seguirono la Verzeri potè
attendere non soltanto alla scuola gratuita popolare, ma anche ad una scuola
per le giovani benestanti, ad un piccolo educandato distinto dal ricovero per
le fanciulle abbandonate, alla visita delle malate nell’ospedale. L’anno
successivo alla fondazione, la Beata accettò la direzione dell’orfanatrofio di
Romano, a 20 chilometri da Bergamo, e, nel 1835, la direzione delle scuole
femminili di carità istituite a Breno (Brescia). Nello stesso anno acquistò
pure il monastero delle Visitandine di Darfo (Brescia), in vista del noviziato
da esigervi e degli esercizi spirituali da farvi.
 La Beata riuscì ad estendere presto il suo Istituto perché
sulle giovani esercitava una speciale attrattiva. Per coloro che si facevano
religiose, un po’ per giorno mise per iscritto gl’insegnamenti del Benaglio,
nonché le proprie riflessioni dal titolo: Il Libro dei Doveri delle Figlio
del Sacro Cuore di Gesù
. Mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo,
nella prefazione alla IV edizione dell’opera in 3 volumi, attestò che quello
"era uno dei libri spirituali più degni di considerazione della prima metà
dell’ottocento". Quando si assentava da una casa la Beata vi ritornava
sovente con le sue lettere, pubblicate in 5 volumi dopo la sua morte, per
consigliare e disporre ogni cosa. Ad una superiora scrisse: "Conservati
attiva, vigilante, vigorosa, ma non dimenticare la totale rinnegazione di te
stessa perché questa ti condurrà alla vera grandezza: sii di umore uguale e
vivace, ma vivaci conserva anche le altre, specialmente le novizie… Chiedi
allo Sposo tuo una sempre maggiore purezza d’intenzioni, una sempre maggiore
intensità d’amore nell’operare, un abbandono completo in Dio e una confidenza
illimitata nell’infinita bontà sua. Quale appoggio abbiamo mai in Dio! Se lo
conoscessimo, non temeremmo né del mondo né dell’inferno e nemmeno di noi,
perché se è grande la cattiveria nostra, la misericordia di Dio è sempre
infinitamente maggiore: a che dunque temere?" E ancora: "Vivi
abbandonata nella divina bontà; sta dolcemente in uno stato di sacrificio
continuo, affinchè Dio operi in te a modo suo, senza il minimo riguardo a te.
Pensa al modo di maggiormente glorificarlo e di renderti più utile al
prossimo".
 Mentre la Beata agiva senza tregua nelle fondazioni fino
a scrivere: "Sono proprio un facchinetto", Iddio l’andava affinando
con le solite desolanti aridità di spirito. Il Benaglio la consolava come
poteva. Da qualche tempo, ogni volta che lei si metteva in orazione, udiva una
voce interna che le diceva: "Preparati, ti sarà tolto il fondatore!".
Chi non conosceva la Verzeri pensava che, alla morte di lui (1836), la nascente
Congregazione si sarebbe sfasciata. Invece, sostenuta spiritualmente dal
sacerdote Pier Luigi Speranza, in seguito Vescovo, ella fu la colonna
solidissima dell’Istituto che prosperò nonostante le incomprensioni e le
ostilità di Monsignor Morlacchi. La Verzeri ne accettava le umiliazioni
dicendo: "Quanto monsignore dice di me è tutto vero e se l’Istituto
esistesse contro il volere di Dio lo vorrei subito estinto". Temendo che
le Suore del Sacro Cuore di Gesù, per l’incomprensione del vescovo, fossero
destinate a perire, la contessina Carlina Suardo, andata sposa al marchese Del
Carretto, propose alla Beata la fusione delle sue figlie spirituali con la
società del Sacro Cuore che Santa Maddalena Sofia Barat (+1865) da poco aveva
stabilito anche a Torino. Madre Barat, in una lettera alla Verzeri, si disse
pronta a ricevere "con cuore dilatato" sia lei che le sue suore, ma
l’unione non si fece, sia perché l’Istituto avrebbe perduta la propria
fisionomia, sia perché la maggior parte delle suore non ne volle sapere.
 Le Figlie del Sacro Cuore di Gesù, a differenza di quelle
della Società del Sacro Cuore, continuarono ad occuparsi delle fanciulle anche
povere. La Verzeri le diresse fino alla morte con saggezza, nonostante le pene
interne cui andava soggetta. Confidò al suo direttore mentre pensava alla fondazione
della casa di Lodi (1838): "Mi trovo nello stato più orribile. La
privazione totale del sentimento di Dio mi toglie ogni relazione con Lui, e
pertanto tutto ciò che è fuori di Lui mi è insopportabile. La pena disperata
dei dannati mi mette orrore e compassione, eppure mi pare di provarne un
saggio". Nonostante il suo disagio interno non le era punto difficile
trattare con ogni sorta di persone, parlare con franchezza, consigliare o
riprendere con risoluto garbo secondo le circostanze.
 Fallita l’aggregazione con la Società del S. Cuore, la
Verzeri continuò le pratiche con il governo austriaco per l’approvazione del
suo Istituto. Mons. Morlacchi non l’appoggiò e allora la fondatrice fu
incoraggiata a stabilire la casa madre a Darfo, e a recarsi personalmente a
Roma per ottenere dal papa Gregorio XVI l’ecclesiastica sanzione. Un’eletta
schiera di bergamaschi le prestò man forte tra cui i sacerdoti conti Marco e
Luca Passi e il cardinale Angelo Mai. Le difficoltà da superare non furono
poche. Il cardinale Patrizi, Prefetto della Congregazione dei Vescovi e
Regolari, un giorno disse alla fondatrice: "Bisogna dire che avete
stancato il Sacro Cuore di Gesù a furia di pregare!"
 Anche dopo l’approvazione pontificia, Mons. Morlacchi
non mutò la sua decisione, motivo per cui la beata fu costretta ad abbandonare
la casa del Gromo. Così ne scrisse ad una giovane signora: "Ti assicuro
che, conosciuta nella volontà dei superiori la volontà di Dio, mi sono
sottomessa tranquillamente, adorando le disposizioni divine che sono sempre
santissime, amabili e salutari. Tutto è buono, mia cara, quanto vuole il
Signore, ed oh, quante volte c’inganniamo nel figurarci e proporci il
bene!"
 L’Istituto fu presto richiesto in diverse diocesi. La
Beata si applicò con rinnovato vigore alle nuove fondazioni tanto da scrivere:
"Che vita è la mia! Il mio ufficio è, a tutto rigor di termine, quello di
corriere. L’anima mia avrebbe bisogno di tranquillità e di quiete, invece
tutt’altro le tocca! Sia fatto secondo il volere di Dio, purché Egli mi
sorregga e mi aiuti!". Ovunque si recava le venivano prodigati segni di
stima, ma ella ne approfittava per umiliarsi di più. Nel 1843, anno che segnò
il passaggio del noviziato da Darfo a Brescia, scrisse al suo direttore spirituale:
"Mi preghi da Dio distacco da tutto perché io sia disposta ad andare a
Lui, quando mi chiama. Non ho fede, non ho amore, non ho speranza; io non so di
che cosa vivo. Sto appoggiata a qualche cosa e non so a che; qualche cosa mi
tiene, e che cosa sia non so. L’assicuro che se io mi faccio santa, ciò
dovrebbe dare conforto a tutti, perché un caso più disparato del mio non so se
si avrà".
 Alla Verzeri fu fatta pure istanza perché aprisse una casa
nel Brasile, ma ella scrisse: "Vorrei che la Congregazione si estendesse,
tuttavia, al presente, non ho che lo stretto necessario per sostenere le case
aperte". Le ripugnava, per innato sentimento di nobiltà, il mendicare
soccorsi, ma si superò anche in questo nell’intento di moltiplicare i ricoveri
per le fanciulle povere. Quando la malattia la costringeva all’immobilità, ne
approfittava per corrispondere con le case lontane. Alla maestra delle novizie
un giorno scrisse: "Ti scongiuro, fammi delle sante, non di parole e di
apparenza, ma di fatti". Ad una suora che le chiedeva come doveva
comportarsi con le ragazze, rispose: "L’indirizzo che mi chiedi è questo:
avvedutezza, prudenza, discrezione, pazienza, mansuetudine, preghiera. Guardati
da tenerezza smodata, ma pensa sodamente, scrivi sodamente, parla
sodamente". Nella prima lettera circolare che mandò alle varie case, dopo
aver annunciato la nomina delle assistenti, aggiunse: "Prego e scongiuro
tutte le mie sorelle di voler avvertirmi con semplicità di tutte le mancanze
che vado commettendo e stiano certe che i loro avvertimenti ed anche i loro
rimproveri li riterrò come le prove più forti e sincere dell’amore che nutrono
per me".
 Negli ultimi due anni di vita la Verzeri fu tormentata da
assalti epilettici con frequenti deliqui. Le fu data una Vicaria la quale si
preoccupò della scarsità delle vocazioni a causa dei rivolgimenti politici. La
fondatrice, che conservava la lucidità di mente, fu sollecitata a metterla in
guardia nella scelta delle giovani dicendole: "L’Istituto ha bisogno di
aiuti, non d’impicci e di fastidi". Dopo averle enumerate le virtù che
doveva possedere una buona figlia del Sacro Cuore, concluse: "Se, provato
ogni mezzo, non si vogliono piegare, si rimandino in pace perché l’Istituto non
è per le schiave dell’amor proprio, ma per le vittime dell’amor di Dio".
 La Verzeri attese la morte con apprensione pensando al
severo giudizio di Dio. Di una cosa sola era spiacente: di non potere prendere
sempre parte a tutti gli atti della comunità. Non fu mai sorpresa in ozio. Non
potendo fare altro, pregava e lavorava all’uncinetto, anche durante le
ricreazioni. A chi le raccomandava di non stancarsi, rispondeva umilmente:
"Lasciatemi riacquistare il tempo perduto in gioventù". Non cercò né
medici, né medicine, ma li accettò per compiere il volere di Dio anche a costo
della vita.
 Alla fine del 1850 ebbe la consolazione di recarsi per la
quarta volta a Roma e di assistere, nella chiesa del Gesù, insieme con S. Maria
Crocifissa De Rosa (+1855), fondatrice delle Ancelle di Carità, alla
consacrazione episcopale di suo fratello, Girolamo Verzeri, promosso alla sede
di Brescia. La beata morì dopo convulsioni orrende il 3-3-1852 nella casa di
Sant’Afra in Brescia. Sul corpo di lei furono trovate cicatrici che, secondo il
medico, erano state provocate dal ferro e dal fuoco. Pio XII la beatificò il
27-10-1946. Le sue reliquie sono venerate nella cappella della casa in cui
morì.
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 Sac. Guido Pettinati
SSP,

I Santi canonizzati del
giorno
, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 36-42.

http://www.edizionisegno.it/