I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: L’Inferno

1. Che cosa è l’Inferno?

2. Pene dell’Inferno: 1° Il
fuoco; 2° le tenebre; 3° Il verme roditore; 4° la
schiavitù; 5° la separazione da Dio; 6° ogni sorta di
mali.
3. Il reprobo è maledetto da
Dio, dal demonio, e dagli altri reprobi.

4. Morte nell’Inferno.
5. Come i demoni trattano i reprobi.

6. Disperazione nell’Inferno.
7. Gradazioni di supplizi.
8. Eternità delle pene
Infernali.
9. L’Inferno è conforme alla
giustizia di Dio.
10. Mezzi per schivare l’inferno.

1. CHE COSA È L’INFERNO? –
L’inferno, a definirlo in una parola, è la privazione di ogni
sorta di beni e l’abbondanza di ogni sorta di mali; la privazione di
ogni piacere, il colmo di ogni tormento… Nell’inferno, non più
ricchezze…, non più onori…, non più libertà…,
non più gioia…, non più consolazione…, non più
lumi… , non più speranza…non più carità…,
non più felicità…, non più riposo…, non più
grazie…, non più Dio…, ecc…, ecc… Ma a farcene una
sbiadita idea chiamiamo a breve rassegna le varie pene che
costituiscono quello che si chiama inferno.


2. PENE DELL’INFERNO.
1° Il fuoco. – «I reprobi, dice S. Paolo, sono condannati a
stare in mezzo alle fiamme vendicatrici perché non vollero
conoscere Iddio, né obbedire al Vangelo (II Thess. I,
8). La mano del Signore, come annunziava il Salmista, si stenderà
sopra i suoi nemici e la sua destra afferrerà coloro che
l’odiano; li getterà in un forno ardente (Psalm. XX,
8-9); l’ira sua ha acceso un fuoco che avvamperà fino al fondo
dell’inferno (Deuter. XXXII, 22); e durerà, a
tormento dei maledetti, per tutti i secoli, senza mai né
spegnersi, né scemare (MATTH. XXV, 41).
Il fuoco dell’inferno
fa patire all’anima, separata dal corpo, gli strazi medesimi che
sentirebbe, se gli fosse unita e quando, dopo il giudizio universale,
lo avrà compagno, daranno ambedue continuo alimento al fuoco,
senza che ne restino distrutti. «Il fuoco divino, dice
Lattanzio, brucerà e ribrucerà sempre con la medesima
attività ed energia gli empi e quanto toglierà ai
corpi, tanto vi rimetterà per consumarli di nuovo;
somministrando così a se medesimo un pascolo eterno (Lib.
VII
, c. XXI)».
Quindi il fuoco
infernale, come supplizio ed effetto della vendetta divina, è
il sommo dei mali; tanto più se si consideri: 1° che esso
è un fuoco ardentissimo, cocentissimo, penetrantissimo… 2°
Che abbrucia le anime non meno che i corpi, senza mai annientarli…
3° Che è un fuoco tenebroso, puzzolente, il quale tormenta
i dannati non solamente con la sua intensità, ma ancora con la
sua oscurità, col suo fumo densissimo, con l’intollerabile suo
fetore di zolfo. «Pioverà (Iddio) sopra di loro i suoi
lacci; il fuoco, lo zolfo, il vento delle tempeste saranno il calice
che loro prepara» (Psalm. X, 6). S. Giovanni li vide
affondare vivi in uno stagno di fuoco e zolfo e vomitare dalla bocca
fiamme, fumo e zolfo (Apoc. XIX, 20 ;
Id. IX, 17). E più oltre: «In quanto ai
vili, agli increduli, agli abominevoli, agli omicidi, ai fornicatori,
agli avvelenatori, agli idolatri, ai mentitori, essi toccheranno per
loro eredità lo stagno ardente di fuoco e zolfo, che è
la seconda morte» (Id. XXI, 8). 4° Finalmente,
questo fuoco sarà eterno; non può né spegnersi,
né diminuire mai e tiene in continua agitazione, in un tremito
incessante, gli adoratori della bestia, dall’ira di Dio colà
confinati (Id. XIV, 11).
«Meditate,
esclama qui S. Agostino, queste verità e di questo fuoco
dell’inferno fatevi schermo contro le fiamme della concupiscenza che
vi tormentano nella vita presente. Il fuoco materiale che serve ai
nostri usi investe gli oggetti a cui si appicca e li consuma; ma il
fuoco dell’inferno divora i reprobi, e ciò nulla meno sempre
li conserva interi per sempre castigarli. Perciò si chiama
inestinguibile, non solamente perché non si spegne mai, ma
anche perché non uccide e non distrugge coloro che consuma. La
potenza poi e l’efficacia di quella pena e di quel fuoco, non vi è
né lingua né parola che possa esprimerla (Serm.
CLXXXI)».
Venite a contemplare
l’orrendo spettacolo delle vittime del fuoco infernale! Entrate in
ispirito in quelle prigioni ardenti, osservate quegli schiavi legati
con catene di fiamme! Essi non stanno semplicemente nel fuoco, nota
Gesù Cristo, ma vi stanno sepolti (Luc. XVI, 22).
Guardate quel fuoco che divampa da quegli occhi ebbri di lascivia, o
che si dilettarono tante volte di fermarsi in oggetti osceni! Mirate
quel fuoco che entra ed esce a onde da quelle bocche che vomitarono
tanto spesso canti impuri, parole sconce, esecrabili bestemmie e
velenose maldicenze! Guardate come quelle fiamme avvolgono tutte le
membra, come penetrano nelle
midolle, come scorrono
per tutte le vene per fare del reprobo un carbone acceso! Giustizia
del mio Dio, quanto sei tremenda! Quelle vittime sciagurate non
vedono che fuoco, non toccano, non inghiottono, non sentono, non sono
che fuoco (Luc. XVI, 24). Ah! «chi di voi, esclama
Isaia, potrà dimorare con quel fuoco divoratore? chi sosterrà
quegli ardori sempiterni?» (ISAI. XXXIII, 14). Il fuoco di
quaggiù, già tanto ardente, è il fuoco della
bontà di Dio; pensate, quale sarà il fuoco infernale
che è il fuoco della giustizia e della vendetta del
Signore!…
Le tenebre.
– I reprobi non vedranno più raggio di luce in eterno (Psalm.
XL VIII, 19) perché sprofondati nell’abisso, nel regno delle
tenebre, nella notte della morte: (Psalm. LXXXVII, 6), vi
staranno come morti sempiterni (Lament. III, 6). Il peccatore
in vita, andava cercando l’oscurità delle tenebre per
abbandonarsi senza ritegno alle brutali sue passioni e trova
nell’inferno tenebre senza misura e senza fine, in punizione dei suoi
misfatti… L’inferno, regno di Satana, è regno di tenebre,
oscurità, di notte densissima ed eterna… Rappresentatevi un
disgraziato incatenato in oscurissimo carcere, condannato a non
uscirne più mai e a non più vedere un barlume di luce:
o Dio, che desolante, disperata condizione sarebbe mai questa! meglio
cento volte la morte. Lontana immagine dell’infelice stato dei
reprobi, stipati nell’orrendo buio dell’inferno, nei densi vortici
del fumo, che si alza dallo stagno del fuoco e dello zolfo, meno
orribile e puzzolente delle colpe dei dannati!…
Il verme
roditore
. – Nell’inferno, nel fuoco che sempre brucia, si
mantiene tuttavia, dice Gesù Cristo, sempre vivo in seno ai
reprobi un verme che li rode del continuo senza mai consumarli
(MARC. IX, 43); adempiendosi in loro quel detto della Scrittura: «Il
Signore darà la loro carne alla fiamma e ai vermi, affinché
siano tormentati e straziati per sempre» (IUDITH. XVI, 21).
Questo verme roditore indica i rimorsi e gli inutili rammarichi dei
dannati.
S. Cirillo dice: «
I reprobi gemono continuamente e nessuno ha pietà di loro;
gridano dal fondo dell’abisso e nessuno lode; si lagnano e nessuno li
soccorre; piangono e nessuno li compassiona. O peccatori riprovati,
dove è ora la superbia del secolo? dove sono l’alterigia, le
delicatezze, gli ornamenti, la potenza, il fasto, le ricchezze, la
nobiltà, la forza, la seduttrice avvenenza, l’audacia altera
ed insolente, la gioia del misfatto?» (De
exitu animae
). Il medesimo linguaggio tiene S. Efrem: «I
dannati versano fiumi di amaro pianto e tra gemiti, singhiozzi e
strida vanno gridando: Noi infelici! come mai abbiamo potuto sciupare
in tanto torpore e negligenza il nostro tempo? perché
lasciarci cogliere così goffamente alle reti delle passioni? O
come lo scherno e il disprezzo che noi facevamo delle cose sante si è
riversato sul nostro capo! Dio ci parlava e noi ci turavamo le
orecchie! ora noi gridiamo ed egli è sordo. Che vantaggio
abbiamo ora delle grandezze del mondo? Dov’è il padre che ci
ha generati? dove la madre che ci mise alla luce? dove i figli, gli
amici, le ricchezze, i poteri? dove la turba dei clienti, lo sciame
dei parassiti e degli adulatori; dove i balli, i festini, le danze, i
divertimenti, i conviti, le geniali conversazioni?» (Serm.).
«In tre modi,
osserva Innocenzo III, il verme roditore della coscienza lacera i
dannati: col ricordo, col pentimento troppo tardo e con le ambasce. I
reprobi rammentano con un rammarico ed un rimorso ineffabile,
infinito, quel che fecero nel mondo con tanto diletto; il pungolo
della memoria punge tormentosamente coloro che lo stimolo del peccato
aveva spinto al male» (In lib. Sap.).
«Il verme
roditore, dice anche S. Bernardo, è la memoria del passato;
nato nell’anima insieme col peccato, così tenacemente vi si
aggrappa, che portato da lei con sé nell’inferno, più
non se ne distaccherà in eterno; ma incessantemente rodendola
e nutrendosi di questo alimento inconsumabile, prolungherà in
eterno la sua vita». E poco dopo fa esclamare al reprobo:
«Misero me! perché, o madre mia, hai tu dato alla luce
un figlio di dolore, di amarezza, di sdegno, di pianto e di rammarico
eterno!». Quindi conchiude tremante: « Ah! io inorridisco
al pensiero di questo verme roditore! (De
Consider
. lib. V)».
Il verme della coscienza, che rode
fino al midollo e roderà eternamente i dannati, farà
loro risonare del continuo agli orecchi queste lugubri, strazianti
parole: Come avete voi venduto a prezzo così vile l’anima
vostra così preziosa, l’anima unica ed immortale? Come, per
un, breve ed abbietto piacere, vi siete gettati in queste fiamme
spaventose ed inestinguibili? Voi potevate servirvi, secondo la
volontà del Signore, di quanto possedevate e farvene scala per
meritare la gloria eterna, per ascendere i seggi degli angeli e dei
beati; ma voi stolti voleste abusare di tutto, perciò la
vostra sorte sarà di abitare eternamente coi demoni. Poveri
pazzi! perché siete stati così crudeli verso di voi
medesimi? perché cambiare la beatitudine eterna contro un
sozzo alimento? perché comprarvi, per un istante di vile
piacere, un’eternità di sventura e di pianto? Che vi resta dei
vostri colpevoli diletti? Tutto svanì come ombra, come sogno,
come fumo.
I dannati vedono i loro
traviamenti e se li rimproverano essi medesimi dicendo gemebondi e
inveleniti: Ah! se almeno, vittime di un destino inesorabile, noi non
avessimo potuto evitare la fatale nostra sorte, sapremmo adattarci
alla forza della necessità e meno dolorosa ci riesci l’ebbe
l’infelice nostra condizione; ma il pensare che era in nostra facoltà
il salvarci e che ci siamo perduti per nostra colpa, questo ci
tormenta più di tutto! A noi soli dobbiamo l’orribile
nostra disgrazia. Noi siamo gli artefici della nostra sventura a noi
soli dobbiamo imputare l’infinita, irreparabile perdita che abbiamo
fatto di Dio. Da noi dipendeva il possederlo eternamente in cielo, il
regnare con i santi; a noi stava aperta non meno che agli altri la
porta di quel beato soggiorno; ma noi ci siamo rifiutati d’entrarci e
abbiamo abbandonato la strada che conduce lassù, per tenerci
alla via spaziosa che ci ha condotti a perdizione: «O Israele,
la tua perdita viene da te stesso» (OSE. XIII, 9). Ah! ciechi
ed insensati che fummo! valeva la spesa che per beni così
fragili e così fugaci, quali sono i terreni, per insipidi e
abbietti piaceri, dei quali non ci rimane che la memoria e l’onta,
facessimo getto dei beni eterni, delle ineffabili delizie di cui ora
godremmo nel regno della gloria? Conveniva che ci affezionassimo ad
un’indegna creatura anziché al Creatore il quale solo poteva
soddisfare i nostri immensi desideri?
Oh! che acutissima spina per i
reprobi la perdita volontaria di Dio, del cielo, della salvezza
eterna; che amaro cordoglio, che cocente rimorso strazierà
loro le viscere! In quell’inferno, dove l’anima ristretta in se
stessa, non avrà più modo di uscire né mezzo di
stordirsi, di distrarsi, ella sentirà tutta l’acerbità
e lo strazio di questi rimorsi; ne sarà come cinta, assediata,
punta da tutte le parti; su qualunque lato si volga, incespicherà
in queste spine la quali penetreranno così profondamente in
lei, che le sarà impossibile strapparle. Non passerà
momento ch’ella non si rappresenti, si rimproveri i peccati commessi
e quelli di cui fu cagione; l’abuso da lei fatto delle grazie
concessele dal suo Dio: né già confusamente, o le une
dietro le altre le si presenteranno innanzi le sue colpe, ma
distintamente, tutte a un tratto e in tutta la loro deformità
e le diranno: Ci riconosci? sei tu che ci hai fatte, noi siamo
l’opera delle tue mani. Questo crudele pensiero – lo ho perduto Dio
per mia colpa – non lascerà mai un istante il dannato che ne
sarà incessantemente travagliato, afflitto, tormentato. Me
disgraziato, andrà dicendo a se stesso, che ho mai fatto? Ho
sacrificato il mio Dio, la mia anima, la mia eternità; ho
attirato sopra di me supplizi eterni! ho abusato del sangue di Gesù
Cristo e calpestate le sue grazie! io mi vedo ai fianchi il Calvario,
vedo il sangue di Gesù gocciolarmi dalla croce sul capo e
alimentare la fiamma che mi divora!
O reprobi sciagurati, voi ora vedete i vostri
misfatti e ne avete orrore, ma è troppo tardi! Infelici!
nessuno vi sforzava a peccare; il mondo, il demonio, le passioni vi
invitavano e sollecitavano, ma non vi violentavano. Siete voi che
avete liberamente scelto la morte in cambio della vita, il demonio
invece di Dio, l’inferno in luogo del cielo!…
La
schiavitù
. – I dannati, sono legati e incatenati tutti
insieme, e ciascuno alla propria catena: ceppi particolari, ceppi
universali; ma tutti arroventati ad un medesimo fuoco, tutti temprati
nelle loro stesse lacrime, affinché non si spezzino e non si
logorino.
Il Savio vide i
disertori della divina Provvidenza giacere tutti legati ad una
medesima catena di tenebre (Sap. XVII, 17,2); li vide come
covoni di paglia, legati insieme, consumarsi nel fuoco (Eccli.
XXI, 10); la medesima similitudine fu adoperata da Gesù
Cristo, quando simboleggiando i cattivi nella zizzania, disse che
sarebbe stata falciata e, legata in covoni, gettata ad ardere
(MATTH. XIII, 30).
Nelle galere, i condannati erano legati
parecchi insieme, per modo che, quando un galeotto cammina, si ferma,
monta, discende, imprime agli altri i medesimi movimenti. Scolorita
immagine di quello che avviene nell’inferno! Tutti i reprobi, legati
gli uni agli altri, sono costretti a subire tutti i movimenti, le
agitazioni, i contorcimenti di ogni reprobo; e ciascun condannato gli
scotimenti e le agitazioni di tutti i dannati. In conseguenza di
questa furiosa e incessante scossa, tutti gli echi dell’inferno
rimbombano del continuo del confuso, assordante rumore prodotto dallo
strascico delle pesanti catene dell’innumerevole torma dei demoni e
dei reprobi.
Come leone incatenato e furibondo
si agita, addenta rabbioso la sua catena e la rode ruggendo, così
il dannato si travaglia continuamente a limare coi denti le sue
catene, cerca di romperle senza che gli venga mai raggiunto lo
scopo…
La
separazione da Dio
. – La privazione della vista di Dio forma la
principale e più acerba pena dei dannati. Un Dio perduto!
questo bene per eccellenza, l’autore, la sorgente di ogni bene; o
cielo, che perdita! Può mai l’uomo sentirne tutta l’amarezza,
misurarne tutta l’estensione! Non vi è mente che possa
comprenderla. Chi vuole farsene una qualche idea, ricordi
quell’invincibile brama di felicità di cui siamo tutti
assetati. Questa brama è un sentimento profondo che ci
signoreggia e ci segue dovunque; è il movente di tutti i
nostri disegni, di tutte le nostre imprese e azioni. Questo desiderio
è l’opera di Dio medesimo; è lui che l’ha inserito nel
cuore dell’uomo nell’atto medesimo che lo creava. Ora Dio solo può
soddisfarlo; egli ha fatto per sé il cuore dell’uomo ed egli
solo può contentarlo: perciò questo cuore chiama Iddio
suo unico e sommo bene. Ma intanto l’uomo, distratto dalle
inclinazioni e dal solletico dei sensi, si discosta da Dio e cerca
altrove la soddisfazione dei suoi desideri; siccome però è
fuori di strada, si sente agitato e conturbato per la mancanza di
quell’oggetto che solo può formare la sua fortuna. E chiunque
l’ha per poco provato ben può dire quanta inquietudine e
quanto affanno gliene venne nei giorni di tale sventura. Viaggiatore
su la terra, se invece di alzare lo sguardo al cielo, lo fissa su ciò
che lo circonda, se pone nelle ricchezze, negli onori, nei piaceri
l’oggetto della sua felicità, con quanta foga non si getta
dietro a queste chimere! Niente lo impedisce e lo trattiene; egli
corre al vagheggiato oggetto, i rischi e i pericoli, invece di
spegnere le sue voglie, le infiammano, gli ostacoli ne irritano
l’ardore. Vedete il guerriero che affronta mille volte la morte sui
campi, di battaglia, per cingere una corona di quercia! Il mercadante
si allontana dalla famiglia, dalla patria, dagli amici, valica monti,
passa mari sconosciuti, sfida tempeste e naufragi, in cerca di
fortuna. Chi può dire l’impeto violento delle brame di colui
che è dominato dall’amore delle creature? La passione
s’impadronisce di tutte le sue facoltà; il più breve
indugio lo impazienta; il bisogno di possedere quello che ama lo
assorbisce per tal modo, che qualche volta diventa più forte
che lo stesso amore della vita; non di rado si vedono di quelli che
si tolgono la vita per mania amorosa. I disgraziati si uccidono
perché non sono riusciti a raggiungere quel fantasma che essi
credevano dover formare la loro felicità.
O ciechi e stupidi mortali, non
vedete voi che niente di ciò che è in terra può
soddisfare i desideri del vostro cuore? Mettete pure insieme tutti
quanti i diletti, cambiateli, variateli a talento, moltiplicateli
senza fine, ma non tardate a sentirne l’insufficienza e il vuoto.
Incapaci a sbramare la fame del cuore, questi frutti della terra
incantano e seducono all’apparenza, ma appena gustati dànno
amarezza e putredine. I piaceri, le affezioni il mondo si consumano
ben presto e con dolore. Tutto passa e non si lascia dietro se non
disgusto, angoscia, ansietà, inquietudine e quella vaga,
indefinibile noia che forma, si può dire, la trama della vita
umana. No, no, niente può quaggiù riempire il cuore
umano; egli è troppo più grande che il mondo; dimanda
il suo Dio, vuole il suo Dio; cercava il suo Dio anche allora che un
oggetto ingannatore lo sedusse e l’illuse…
Quaggiù in
terra l’uomo distratto e ingannato da ciò che lo circonda, non
riflette su questa verità; agli occhi dei mondani poi passa
del tutto inavvertita; ma nell’inferno non vi saranno più
distrazioni, perché non vi saranno più illusioni.
L’anima del peccatore che su la terra dormiva, si sveglia
nell’inferno e vi si sveglia per non più addormentarsi. Ella
vede, non più accecata e illusa, il suo Dio; lo vede come suo
unico bene, come il solo oggetto che possa renderla felice. Ella vi
si slancia allora con la celerità del lampo; ma un invisibile
braccio la ferma, la respinge, un intervallo immenso la separa dal
suo Dio; secondo quel che rispose Abramo dal cielo al ricco malvagio,
che lo pregava di una goccia di acqua dall’inferno: «Figliuol
mio, un grande abisso sta scavato tra noi e voi: chi vuole passare di
qua a voi, non può, né da codesto luogo venire fin qua»
(Luc. VI, 26).
Tuttavia l’anima piombata
nell’inferno non cessa di volgere gli occhi al cielo; essa ci
vede sempre il suo Dio, ne conosce la grandezza, ne scorge le
perfezioni. Gran Dio, va gridando, non c’è dunque più
riparo, io vi ho perduto e perdendo voi ho perduto tutto! Bel
paradiso, per il quale io era fatta, mai, mai più non ti
vedrò! O beato soggiorno; o patria di delizie, le tue porte mi
stanno chiuse in faccia per sempre! Un trono di gloria mi stava in te
preparato ed ora ne sono sbalzato in eterno! Cari parenti, diletti
amici, che ne siete i fortunati abitatori, io vi ho dunque dato un
eterno addio! non godrò mai più con voi della vista e
della presenza del mio Dio! non gusterò mai di quel torrente
di delizie, dal quale voi siete inondati! non sarò mai a parte
con voi della vostra gloria! Sul vostro capo splende la corona
dell’immortalità e quella ch’era a me destinata l’ho
lasciata cader dal mio capo per sempre! Non vi è rimedio; io
ho perduto ogni cosa e la mia perdita è irreparabile!
E intanto quest’anima s’infiamma di nuovo
ardore, prende nuovo slancio, ma invano! ella si sente stringere e
inchiodare nell’inferno dalle catene che non può spezzare. Chi
può immaginarsi l’acerbità di questa tortura; sentirsi
attratta e spinta: senza posa verso il cielo e vedersi del continuo
risospinta e ricacciata nell’inferno! Essa tende a Dio come a suo
centro, si porta a lui con foga impetuosa; le onde d’un mare in
burrasca che si accavallano, si urtano, si sospingono e rompono senza
tregua contro gli scogli, sono una debole immagine dell’agitazione,
del turbamento di quell’anima. Dove vai tu, anima colpevole? Bada che
tu voli dinanzi al tuo giudice, tu ti getti nelle braccia del tuo
nemico, sotto colpi di un Dio onnipotente e punitore! Ma no; né
questi riflessi, né queste apprensioni, né i castighi
che si prepara possono frenare il violento impulso che la trascina.
Ella si slancia per necessità di se a natura e il peso della
sua iniquità la fa ricadere sopra se stessa; trova nei suoi
peccati un muro insuperabile ai suoi più impetuosi desideri.
Ella s’innalza portata dal bisogno immenso che ha del suo Dio e tutti
i divini attributi da lei oltraggiati la respingono; Dio la respinge
per l’odio necessario che porta al peccato, Ella tenta nuovamente la
prova di slanciarsi verso Dio e la rapidità e persistenza dei
suoi sforzi le fanno comprendere che era fatta per godere Dio; ne è
rigettata e il peso del colpo che la stritola, le fa meglio intendere
che ha obbligato Dio a respingerla. Tutto il suo essere, tutte le sue
tendenze la trascinano al seno della divinità e quella mano
medesima che imprime questi movimenti alla sua volontà, con
invincibile forza la respinge da sé. Ella s’innalza per
disperazione, Dio la respinge per giusta vendetta. Due terribili
movimenti la palleggiano continuamente; di qua è tratta
irresistibilmente verso Dio per possederlo, lontana dai demoni e dal
fuoco per schivarlo; di là è costretta a ricadere,
respinta da Dio e tirata dai demoni. Essa si spinge senza posa verso
Dio e Dio la respinge continuamente; essa fugge sempre dai diavoli e
i diavoli la tengono sempre incatenata in fondo all’abisso. Dio
al quale essa tende, la fugge; i demoni, ch’essa abomina,
l’abbracciano. Ella fugge se stessa senza potersi fuggire; sospesa
tra Dio e i demoni, tra il colmo della felicità e il sommo
della miseria; egualmente infelice e quando si sforza d’avvicinare la
sorgente di ogni bene e quando n’è violentemente strappata;
tanto tormentata quando esce di se stessa, come quando è
obbligata a rientrarvi, ella trova il suo Dio senza poterlo
possedere, lo desidera senza poter gustare la dolcezza dei suoi
desideri; l’odia, senza assaporare il triste conforto che dà
talora l’odio; passa dalle tenebre alla luce, dalla luce alle
tenebre; va di abisso in abisso, di orrore in orrore; porta l’inferno
verso il cielo e riporta l’immagine del cielo fin nell’inferno
medesimo. O crudele tormento!
Ogni sorta
di mali
. – Dice S: Cipriano: «Il reprobo, spoglio di ogni
vestimento, sarà bruciato da fiamme incorruttibili; il ricco,
oggi vestito di porpora, sarà abbandonato nudo all’attività
di un fuoco divoratore. Le passioni troveranno il loro supplizio e il
loro alimento eterno nei loro propri ardori; i miseri dannati saranno
consumati in caldaie roventi. Ahi! che luogo crudele è
l’inferno! luogo di pianto, di gemiti, di singhiozzi. Il reprobo
aspira e respira l’orribile incendio dell’abisso e delle fiamme che
si slanciano furiose come da un cratere, nell’orrenda notte delle
tenebre. Da monti di fuoco franano macigni ardenti su tutti e su
ciascuno dei dannati e li schiacciano. Lave bollenti ed infiammate di
zolfo e pece e bitume formano un torrente impetuoso che li trascina e
travolge in fondo all’abisso, dove restano annegati e
seppelliti, come Faraone e il suo esercito nei gorghi del Mar Rosso.
Le fiamme ardenti che riempiono l’inferno ne uscirebbero, se
trovassero uno spiraglio, ma siccome l’inferno è ermeticamente
chiuso col sigillo del Dio vendicatore, le fiamme che ne arroventano
la volta si curvano e ricadono su se stesse, avviluppando in mille
guise i dannati» (Serm. de Ascens. Domin.).
«Il ricco venne
a morte e fu sepolto nell’inferno», disse Gesù Cristo
(Luc. XVI, 22). Vivendo, aveva sepolto l’anima nella
gozzoviglia; eccolo ora morto, giacere nel sepolcro dell’inferno e
chiedere per grazia una goccia d’acqua. «O ricco miserabile!
esclama il Crisostomo, tu supplichi Abramo e tu t’inganni! Abramo non
può darti nulla, né concederti nulla, ma può
soltanto ricevere. Specchiamoci in questo ricco che abbisogna del
povero!» (Concio, I, de Lazaro). Io brucio in
quest’incendio, deh, mi sia data una sola goccia d’acqua! grida il
crapulone disgraziato. Ma se il fuoco dell’inferno ti accende tutto
intero, gli risponde S. Pier Crisologo, se le fiamme ti circondano,
perché non domandi altro sollievo se non refrigerio alla
lingua?… Ah, risponde il santo, perché è la sua
lingua, quella lingua che insultava il povero e negava l’elemosina,
che è troppo più atrocemente tormentata che tutte le
altre membra (Serm. CXXIV). «Egli implora, dice S.
Agostino, una goccia d’acqua da colui che lo aveva pregato di una
briciola di pane; la misericordia gli è negata a proporzione
della sua avarizia, Questo ricco, sempre duro, sempre spietato, vuole
ora venire in aiuto dei suoi fratelli; ma troppo tardi tenero e
pietoso, non otterrà nulla di quello che domanda. Il povero
Lazzaro si acquista la beatitudine con la stessa sua povertà;
il ricco malvagio si procura l’infelicità col suo oro. O
ricco! con che fronte implori tu una stilla d’acqua, tu che
rifiutasti una briciola di pane? Tu avresti quello che domandi, se
avessi donato quello che ti era chiesto» (Serm. CX,
de Temp.).
Nell’altra vita, il ricco malvagio
ha per palazzo l’inferno medesimo; per vivande il fuoco, lo zolfo, il
fiele e rettili di ogni sorta; per profumi la più nauseante e
insopportabile puzza; per amici, i demoni per adulatori; invece di
porpora è cinto di fiamme; zolfo e pece gli servono di
vestimenta; ha per luce le tenebre, per compagnia i demoni i quali
come cani arrabbiati, si mordono e lacerano tra di loro. Insomma
tutti i membri del corpo, tutte le facoltà, tutte le potenze
dell’anima, che furono strumento ai piaceri, sono tormentate da
castighi e flagelli propri a ciascun senso e a ciascuna facoltà…
«Il reprobo, dice l’Apocalisse, berrà
del vino dell’ira di Dio, mescolato col vino schietto nel calice
della sua vendetta e sarà tormentato con fuoco e zolfo»
(Apoc. XVI, 10). Meditino i peccatori su queste frasi e vi
troveranno i frutti e i castighi del peccato in queste pene: 1°
Il dannato berrà il fiele della collera del Signore… 2°
Questo fiele sarà senza goccia d’acqua, ossia di consolazione
e farà le veci di ogni genere di supplizio… 3° Il
reprobo si ciberà di fuoco e zolfo… 4° Sarà
oggetto di scherno e di vituperio agli angeli ed ai santi, in
presenza dell’Agnello… 5° Il fumo dei suoi tormenti esala per i
secoli del secoli… 6° Non godrà un istante di tregua…
Considerando queste cose, dicano a se stessi: vorremo noi essere cosi
pazzi, che per un sorso di miele ingannatore, per un piacere
passeggero, ci anneghiamo in un mare di fiele? saremo cosi storditi,
che per una soddisfazione vergognosa ci gettiamo a occhi chiusi per
sempre nell’inferno? Ah no! non sia mai! quello che quaggiù
diletta, passa in un attimo, quello che nell’inferno tormenta, dura
in eterno (AUG., Serm. XC).
«L’inferno,
scrive Ugo da S. Vittore, è un luogo che non si può
misurare, è un baratro senza fondo, pieno di ogni sorta di
dolori e di tutti i tormenti immaginabili» (Lib. IV, de
Anim
.), In esso è lo scolo di ogni feccia di ribaldi, di
assassini, di adulteri, di ladri, ecc… La vista è del
continuo funestata da orribili spettri, da spaventosi fantasmi; la
carne è assiderata dal più intenso freddo mentre
divampa accesa d’inestinguibile fuoco. Oltre ciò, ogni
passione vi trova il suo speciale castigo: il beone sarà arso
da una sete divorante, e avrà per bevanda il fiele;
l’orgoglioso sarà coperto di onta e di ignominia, di fango, di
marciume; l’impudico ingoierà fuoco; il vanitoso vestirà
sudici cenci; l’avaro sarà nella miseria; l’accidioso sarà
eternamente stimolato punzecchiato e senza riposo; la bellezza si
muterà in ributtante laidezza; la potenza in ischiavitù;
la gloria in vituperio…
Dio, secondo le
energiche allegorie del Salmista, pioverà lacci sui miseri
dannati, aSsegnerà per loro porzione il fuoco, lo zolfo e il
turbinio delle procelle, li abbevererà alla coppa di un’amara
mistura; e della feccia di quel calice, che andrà qua e là
spargendo, saranno costretti a bere tutti quanti i peccatori (Psalm.
X, 6), (Psalm. LXXIV, 7-8).
Ecco l’orrendo quadro
che dei terribili spettri infernali ci dà il Savio: «Là
sono animali di generi non più veduti, di sconosciute forme,
di inaudita ferocia; dalla bocca vomitano fuoco, dalle nari sbuffano
nubi di denso fumo, sprizzano dagli occhi fiamme ardenti; con i morsi
uccidono, col fiato appestano, la sola vista fa allibire di spavento»
(Sap. XI, 19-20). «Là tonfi di pietre che
rotolano, muggire di belve, scorrazzare di animali da cui rintrona
fra quei monti di fiamme, un’eco spaventosa » (Ib. XVII,
18).

Tutto si rivolta
contro i reprobi e muove loro accanitissima guerra…Nel mondo, il
peccatore abusava di ogni cosa, tutto insozzava, tutto profanava;
nell’inferno tutto gli si convertirà in istrumento di
supplizio e di tortura… Immaginate quanti generi di tormenti, di
strazi, di pene può inventare la più raffinata barbarie
e pensate che, messe a confronto del fuoco e dei patimenti
dell’inferno, non danno che una smorta immagine, un ombra leggera
della realtà. Là si avvera in tutta la sua crudezza ed
estensione quella minaccia del Signore: «Accumulerò
sopra di loro tutti i mali, lancerò contro di essi tutte le
mie saette» (Deuter. XXXII, 25). Li darò in cibo
alle belve, li getterò preda al furore dei serpenti; saranno
consunti dalla fame e serviranno di pasto agli uccelli di rapina (Ib.
24).
Nell’inferno è
un continuo piangere, gemere, urlare, tremare della persona e
digrignare i denti. E un oceano immenso di fuoco che si agita, si
innalza e si sprofonda; sono ondate di fiamme che s incalzano, si
accavallano, mugghiano e trascinano una turba di uomini e di demoni,
che si sfiatano senza posa in istrazianti e disperati lamenti.
Bruciare nel fuoco, gridando mercé senza speranza; non poter
né uscire, né muoversi di quella nera prigione, di quel
tenebroso caos; essere guardato da manigoldi feroci, carico di
catene, inseguito continuamente dai demoni con artigli da sparviero,
flagellati a colpi di frusta; tuffati nelle fiamme, annegati in un
torrente di pece e zolfo; distesi su letti di carboni ardenti,
inestinguibili; perseguitati dal verme roditore, da un giudice
inesorabile; non trovare scampo, non sperare difesa da nessuna
creatura, ma da tutte essere accusato: ecco la condizione dei
dannati, esclama S. Cirillo Alessandrino (Orat. de Animae
excessu
).
I reprobi
nell’inferno sono rosi dall’invidia, dalla gelosia, dalla collera,
dall’odio, dalla tristezza, dalle angosce, da rimorsi, dalla
disperazione… La pena dell’inferno è pena lunghissima
che si perde nell’eternità; è pena estesissima, che
affligge tutti i sensi, tutti i membri del corpo, tutte le potenze,
tutte le facoltà dell’anima; è pena altissima,
che priva di Dio, del cielo, della felicità degli eletti; è
pena profondissima, che crocifigge l’interno dell’anima, la
inchioda in fondo all’abisso infernale… «O quanto è
grande, esclama S. Prospero, la disgrazia di essere estraneo
dall’ineffabile gioia della divina contemplazione, venire escluso
dalla beata società dei santi, di non giungere mai alla
cittadinanza del paradiso, di essere morto alla vita del cielo, di
vivere per l’eterna morte; di essere cacciato per sempre, col dragone
e, con gli angeli suoi, nello stagno del fuoco, dove si trova la
seconda morte, l’esilio, la dannazione, il supplizio della vita; di
stare sepolto in mezzo a fiamme tenebrose, in un lago di fuoco che
arde e non consuma mai, che abbrucia e agghiaccia a un tempo; di non
vedere nulla e di soffrire tutti i tormenti immaginabili! Là
sono gemiti incessanti, crocifissione perpetua, dolore infinito!
Pensare a queste pene, vuol dire dare l’addio a tutti i vizi e
ripudiare tutte le seduzioni delle passioni» (De Vita
contemp.
1.b. III).
Nell’inferno, il fuoco punisce la
lussuria dei reprobi; una tempesta di pietre infiammate fiacca la
loro boria e il loro fasto; la fame castiga la loro golosità;
la morte colpisce la loro vita empia e scandalosa; le zanne delle
bestie feroci dilaniano la violenza e la tirannia con cui oppressero
i poveri e le anime pie. Il leone li sbrana; lo scorpione li strazia;
il serpente fa loro scontare la malignità e la gelosia che li
ha tra vagliati. Onta, confusione eterna! Là i più
ricchi non si distinguono dai pezzenti; i più alti giacciono
nell’infimo luogo; i più saggi sono convinti di essere stati i
più stolti; coloro che si stimarono di più sono i più
disprezzati; i più vanitosi della loro bellezza sono i più
schifosi; quelli che furono più profumati saranno i più
fetenti; quelli che amavano dominare su tutti sono calpestati da
tutti, ecc.

3. IL REPROBO È MALEDETTO
DA DIO, DAL DEMONIO E DAGLI ALTRI REPROBI. – Dall’istante in cui il
Giudice supremo avrà pronunziato contro i peccatori che
entrano nell’eternità macchiati anche di un solo peccato
mortale la terribile, irrevocabile sentenza: Partitevi da me, o
maledetti, e andate al fuoco eterno (MATTH. XXV, 41), la maledizione
di Dio non si allontanerà mai più da loro, ma li pigerà
e li travolgerà per tutti i secoli.
Della maledizione di
Dio leggiamo nella Scrittura: «Amò la maledizione e gli
pioverà sul capo; non volle la benedizione e si scosterà
da lui. La maledizione lo coprirà come vestimento, entrerà
come acqua nelle sue interiora, penetrerà come olio nelle sue
midolla. Diventerà per lui come abito che mai non si depone,
come fascia che gli cinge le reni» (Psalm. CVIII,
16-18). Ecco dunque designati quattro terribili effetti della
maledizione di Dio: 1° essa circonda all’esterno il reprobo…;
2° entra nell’interno e si appiglia alle potenze dell’anima…;
3° Li spinge ancora più innanzi e la ferisce fin dentro la
sua sostanza, come olio che penetra fino alle midolla…; 4°
questa maledizione non l’abbandonerà mai un momento… Tale è
l’infelice condizione del dannato sotto l’incubo della maledizione
divina!… Un’anima creata a immagine di Dio, redenta col sangue di
un Dio, essere maledetta dal suo Dio, dal suo Creatore, dal suo
Redentore, dal suo solo ed unico bene! Chi può comprendere,
chi può spiegare questo sommo indefinibile male?…
Mentre i peccatori
sono in questo mondo, i demoni non cessano di adularli, per sedurli e
precipitarli nell’inferno. Come già ai nostri progenitori,
essi offrono loro ad ogni ora dei frutti vietati, dicendo: «Non
morrete, ma diventerete come altrettanti dèi» (Gen.
III, 4-5). Ma nell’inferno invece di adularli, malediranno
senza fine quei ciechi che trangugiarono il veleno della seduzione…
Nell’orribile prigione dove si
scontano fra supplizi atroci le colpe della vita, si troveranno
radunati insieme i compagni di dissolutezza che gareggiavano a chi
più facesse onta al pudore. Là gli amici diventeranno
carnefici degli amici; si svillaneggeranno a vicenda, si
oltraggeranno, si caricheranno di amari rimproveri, si scaglieranno
sanguinose ingiurie e orrende maledizioni. Là il padre
negligente e scandaloso si troverà col figlio scapestrato che
griderà furioso: Padre maledetto, sei tu che mi mettesti nella
via del delitto; tu mi hai insegnato ad ingannare il semplice e
l’incauto, a frodare l’artigiano; tu mi hai seminato in cuore i
funesti germi dell’ambizione, tu mi hai insegnato a profanare la
domenica, a bestemmiare, ad ubriacarmi, a disprezzare i precetti
della Chiesa. Tu sei l’autore della mia disgrazia; io ti maledico e
ti maledirò in eterno!
La figlia si avventerà
quale furia contro sua madre, urlando: Madre disgraziata, perché
darmi alla luce, se volevi prepararmi un’eternità di supplizi?
Il tuo esempio mi fu continua scuola d’immodestia, di civetteria, di
libertinaggio; la tua colpevole e frivola noncuranza, la tua
rilassatezza mi ha perduta! Perché non mi hai strozzata di tua
mano, in culla? Sii maledetta per sempre! E tutti gli echi
dell’inferno ripeteranno: Sii maledetta per sempre!
Là, o libertini scandalosi,
vi troverete con le vittime delle vostre seduzioni; esse vi staranno
sempre ai fianchi per pungervi e dilaniarvi e ciascuno dei loro
rimproveri sarà acuta e ardente saetta che vi trafiggerà
il cuore. Corruttore abominevole, assassino crudele, seduttore
ipocrita, tu mi hai tolto la mia innocenza, rapito la mia verginità,
rubato l’onore, involato la corona; mi hai ucciso l’anima e fatto
perdere il mio Dio! Va’, diavolo incarnato! in che ti aveva
offeso l’anima mia immortale, destinata alla vita della eterna
gloria, da meritare che tu le vibrassi il colpo di eterna morte?
Soffri e disperati, o crudele, soffri per sempre! Nell’implacabile
odio mio, ti maledico in eterno!

4. MORTE
NELL’INFERNO. – Dice il profeta che i reprobi saranno stipati come
pecore nell’inferno e la morte ne farà suo pasto (Psalm.
XL VIII, 14). «Ottimo paragone è questo, scrive S.
Bernardo: perduto il vello delle ricchezze, i reprobi duramente e
interamente spogliati, sono gettati ad ardere nudi tra le fiamme
eterne. La morte ne farà suo alimento, perché moriranno
sempre alla vita e vivranno sempre per la morte; il loro corpo è
abbandonato ai vermi, l’anima al fuoco fino al giorno in cui
nuovamente congiunti in un’infelice unione, patiranno insieme i
supplizi, essi che furono compagni nei vizi (Serm. II
in Evang.
) ». « La
morte, soggiunge S. Gerolamo, commentando le citate parole del
Salmista, la morte sarà il mandriano dei dannati; è
giusto che siano guardati e pasciuti dalla morte coloro che non
vollero avere per buon pastore il Cristo (Comment.)».
«Il peccato
consumato genera la morte» (IACOB. I, 15). «E non vi è
morte, dice S. Agostino, tanto terribile e disgraziata, quanto la
morte che non muore mai (Lib. VI, De Civ. c. ult.)».
Quaggiù in terra, osserva anche S. Gregorio, il peccatore
muore alla vita, nell’inferno vivrà della morte. La morte vive
per voi, o reprobi sventurati, e la vostra fine è sempre sul
cominciare. Il dannato sconterà tutti i suoi delitti, ma non
sarà distrutto. La morte non lo annichila, perché se la
vita di questa morte fosse distrutta, egli cesserebbe di esistere; ma
affinché sia tormentato senza fine, è costretto a
vivere nei supplizi; è giusto che quegli la cui vita su la
terra fu una morte nel peccato, soffra nell’inferno una morte che sia
una vita nei castighi (Mor. 1, XV, c. XII). «Nell’inferno,
ripete altrove il medesimo santo, l’anima perde la vita della
felicità, ma non il suo essere di qui la dura necessità
per lei, di soffrire la morte senza morire, di perire senza perire,
di finire sempre senza finire mai; perché per essa la morte è
immortale; è una consunzione senza consumazione, un fine senza
termine. La morte è dunque per i dannati una morte immortale,
un fine infinito, una distruzione indistruttibile (Dialog. 1.
IV, 45)».
Come triste e terribile è
la sorte dei reprobi! Poiché, come i cadaveri servono di
pastura ai vermi, così le anime riprovate servono di alimento
alla morte per tutta l’eternità e la loro vita sarà un
nutrirsi della morte!… Nell’inferno la morte è sempre
vivente; là è il suo regno, il suo trono; là
trova una fecondità immancabile. Se dunque volete sapere che
cosa s a l’inferno, udite: l’inferno è la dimora, il regno
della morte; perché la morte eterna vi domina assoluta, regna
su tutti i dannati, uomini e demoni e il suo impero non vedrà
mai fine. Su la terra, i peccatori stanno nel vestibolo
dell’abitazione della morte, ma nell’inferno stanno nei più
segreti appartamenti, nelle stanze più interne del suo
palazzo. Il cielo è il regno della vita, perché ne è
il re Iddio; l’inferno è il regno della morte, perché
essa vi comanda e signoreggia sola padrona.
«Mi fa
spavento, esclama inorridito S. Bernardo, la morte sempre vivente;
rabbrividisco al pensiero di cadere preda di quella morte che sempre
vive, di quella vita che sempre muore; è questa la seconda
morte che mai non toglie i sentimenti, eppure sempre uccide. O Dio!
chi darà tal grazia ai peccatori, che muoiono una volta,
perché non muoiano in eterno! (De
consid
. 1. V, c. XII)». E poi a proposito di quelle
parole d’Osea: «Diranno ai monti, rovesciatevi addosso a noi ed
alle colline, seppelliteci» (OSE. X, 8), così continua:
«Che vogliono i dannati se non la morte della morte, perché
possano finalmente morire, o fuggire la morte? Ma per quanto essi
invochino la morte, la morte non verrà mai a liberarli (De
Consid
. 1. V)». «Poiché nell’inferno,
dice S. Gregorio, l’anima è immortalmente mortale, e
mortalmente immortale. E immortale in modo però che può
morire, ed è mortale in modo che non può morire: il
vizio ed il tormento le tolgono bensì la vita beata, ma le
lasciano la vita che dipende dalla sua essenza (Moral. lib.
IV, c. VII)».

5. COME I DEMONI
TRATTANO I REPROBI. – Udite come Isaia descrive l’accoglienza che si
fa al reprobo nell’inferno: «Al suo primo comparire su la
soglia dell’inferno, la casa della morte ne va sossopra; i
demoni che v’imperano, gli si slanciano incontro a dargli il
benvenuto e tutta la turba dei dannati, battendo a palma e levando
orrende, altissime strida, gli dice: Anche tu sei stato ferito come
noi! anche tu sei divenuto simile a noi! La tua alterigia è
caduta in fondo all’abisso, il tuo corpo giace in terra e i
vermi saranno il tuo vestimento» (ISAI. XIV,
9-11).
Tutti i demoni si attruppano alla
porta dell’abisso e al presentarsi di un dannato, gridano con gioia
infernale: Vieni, o reprobo, a dimorare con noi, in mezzo al fuoco,
tra fiamme eterne; vieni a bearti del fumo dei tormenti, che ascende
nei secoli. Vieni, che nulla tanto ci preme quanto premiarti
dell’obbedienza con cui accogliesti le nostre sollecitazioni. Tu ci
hai ascoltati e seguiti allorché ti andavamo sussurrando: Bevi
di questo liquore della voluttà, inebriati di collera, di
bestemmia, ecc… Tu ci porgevi orecchio su la terra, ascoltaci anche
adesso che ti diciamo: Bevi il calice del fuoco misto a zolfo;
tracanna la coppa della collera del Dio vivente; tuffa le labbra nel
vaso del nostro furore… Tutti i demoni sono accaniti nel
perseguitare e malmenare e straziare il reprobo. Vittima su la terra
delle loro suggestioni, diventa nell’inferno vittima del loro
incessante furore… Meditate, o peccatori, queste terribili, ma
salutari verità.

6. DISPERAZIONE NELL’INFERNO. – I
reprobi sono scomunicati e separati per sempre da Dio, dagli angeli,
dalla Chiesa. Essi né ricevono né possono ricevere
aiuto né da Dio, né dagli angeli, né dagli
uomini, né da altra creatura di sorta. Dimenticati e
abbandonati da Dio, dal cielo e dalla terra, ormai non hanno più
modo di fare penitenza; le loro preghiere non hanno più
valore, la redenzione non può più essere loro
applicata; esclusi per sempre dalla misericordia sono condannati, per
irrevocabile giudizio, a non vedere mai più Iddio a dimorare
eternamente con i demoni, in un fuoco che non sarà mai spento;
tutte le creature visibili ed invisibili, corporali e spirituali sono
loro nemiche; si odiano e si maltrattano a vicenda; sono privi di
ogni carità e di riconciliazione; chiarissima mente
comprendono e vivissimamente sentono quello che hanno perduto per
sempre e quello che si guadagnarono col peccato; si vedono stremati
di ogni mezzo, chiusa ogni via di giungere ad amare Dio…
In quest’orrendo
stato, il reprobo digrigna i denti e si abbandona alla più
desolante e crudele disperazione. Nella rabbia della sua
irrimediabile disgrazia, va ripetendo: Il mio fine è perduto,
non vi è più per me filo di speranza (Lament.
III. 18). Il mio smarrimento è senza uscita, non più
scampo, non più vita; vana, impossibile è ogni speranza
di vedere la fine delle mie disgrazie; esse non avranno più
termine; non ne sarò mai più liberato; non avrò
mai più minuto di riposo, di libertà, di gioia, di
consolazione! L’orribile carcere donde non uscirò mai più,
non ha porta! E non è questo, un argomento da invelenire la
loro rabbia, da costringerli a digrignare i denti?
«In braccio
all’orribile disperazione, essi fanno udire, dice S. Efrem, questo
doloroso addio: Addio, apostoli, profeti, martiri, giusti tutti
quanti! addio. senato dei patriarchi! addio esercito degli anacoreti!
addio, croce preziosa e vivificante! addio, eterno regno dei cieli,
bella Gerusalemme. madre degli eletti, paradiso di delizie! addio
anche a voi, Signora nostra, madre di Dio, genitrice di Colui che ha
tanto amato gli uomini! Addio, padri e madri, figli e figlie, sposi e
spose; addio, noi non ci rivedremo mai più!» (Tract.
de Abrenunt, et variis inferni poenis
).

7. GRADAZIONI DI
SUPPLIZI. – «Giudizio severissimo aspetta quelli che
sovrastano», dice la Sapienza, e quindi un castigo più
rigoroso sta preparato per costoro nell’inferno (VI. 6). I più
famosi nei delitti, i più astuti nelle seduzioni, i più
scandalosi nei costumi, i più furfanti negli impieghi, saranno
condannati a più duri tormenti, sottoposti a più atroci
supplizi, un fuoco più ardente, una notte più buia, un
freddo più intenso, strazi più orrendi, angosce più
cocenti, insomma un inferno più spaventoso dovranno provare
quelli che nel mondo ebbero più facoltà di fare il male
(Ib. 7-9).
«Molti appartamenti vi sono
nella casa del padre mio», disse Gesù Cristo (IOANNXIV,
2); poiché i giusti hanno una gloria adeguata ai loro meriti,
essendo da Dio premiati ciascuno secondo le sue opere. Or bene, il
medesimo avviene nell’inferno: vi sono colà molti e diversi
stalli; quanto più ree sono le anime che vi cadono, tanto più
in basso e vicina ai demoni è la loro dimora, tanto più
gravi sono i loro supplizi. La giustizia di Dio regna nell’inferno
come nel cielo. Gli apostoli tengono lassù un luogo distinto
dagli altri eletti, il loro seggio sta più vicino al trono
dell’Agnello; Giuda, l’apostolo traditore, occupa nell’inferno uno
stalla ben diverso da quelli della folla dei reprobi. Ogni peccato
mortale merita l’inferno; perciò chi vi precipita carico
di cento, di mille colpe gravi, deve incontrare tormenti cento, mille
volte più gravi di quelli che soffre il reprobo il quale fu
condannato per un solo peccato mortale; supposto che un peccato di
quel primo reprobo sia in gravità affatto uguale a quello di
questo secondo; perché vi sono peccati molto più gravi
gli uni degli altri, ed i più gravi vanno soggetti a pena più
grave…
Dio infinitamente saggio e giusto
pesa tutto scrupolosamente e dà a ciascuno quello che gli
tocca, sia premio o sia castigo… Come cieco ed infelice si mostra
l’uomo che non cerca di accrescere ogni istante il tesoro dei meriti,
lo splendore della sua corona; aumenta invece ogni momento i suoi
peccati e l’acerbità dei suoi supplizi!…

8. ETERNITÀ
DELLE PENE INFERNALI. – Per quanto gravi, orribili, insopportabili
siano i tormenti infernali, essi sarebbero ancora poca cosa se
dovessero finire, ma l’eternità loro è il peggiore dei
supplizi. Quel fine che sempre comincia, secondo l’espressione di S.
Agostino: – Finis semper incipiet, – è ciò che
propriamente forma l’inferno e dà alle pene che là si
soffrono, l’ineffabile, indefinibile qualità che le distingue
da tutte le altre pene, ancorché atrocissime. Tutti i reprobi
soffriranno tra l’orrore e l’affanno, sempre vivranno della morte,
sempre disperati di misericordia e di perdono. Ecco la disgrazia
delle disgrazie, l’inferno dell’inferno. Tormenti eterni!… Non
vedere mai più Iddio, né la Santa Vergine, né i
santi, né gli amici, né i fortunati parenti, né
il cielo; e quel che è più, non poter nemmeno figurarsi
una lontana ombra di speranza di vederli: ecco il sommo dei supplizi,
ecco la più atroce delle torture!
«Partitevi da me, o maledetti,
e andate al fuoco eterno, sentenzierà il giudice supremo, e a
quell’intimazione, andranno i reprobi nel supplizio eterno e gli
eletti nella vita eterna» (MATTH. XXV, 41, 46). Già
vediamo accennata questa sentenza in quelle parole di Daniele:
«Quelli che dormono nella polvere della terra si sveglieranno;
gli uni per la vita eterna, gli altri per l’ignominia la quale si
vedranno sempre dinanzi» (DAN. XII, 2).
Oh! se almeno a tutti
i mali dell’inferno vi fosse un termine! Ma no; non vi sarà
mai né termine, né fine, né sospensione, né
diminuzione di pena; o Dio! che disgrazia, che infelicità è
mai quella!… No, non vi è redenzione per il reprobo: «Il
sangue che Gesù Cristo ha sparso su la terra non penetra
nell’inferno, dice S. Cipriano, perché tutto lo bevvero
i peccatori (Serm.)» i quali pertanto, dice l’Apostolo,
sconteranno la pena di un’eterna dannazione (Thess. II, I, 9).
«La miseria
della pena, scrive Ugo da S. Vittore, cadrà su la miseria
della colpa, affinché restino insieme congiunte e fino a tanto
che rimarrà la colpa, durerà la pena; ora siccome
nell’inferno la colpa resta: in eterno, così in eterno ancora
restano la pena e il castigo» (Lib. de Anima). « E
non è forse giusto, dice S. Gregorio, che coloro i quali
avrebbero voluto sempre vivere per peccare sempre e dimostrarono
questo loro desiderio col peccare sempre, finché vissero e non
vollero mai separarsi dal peccato durante la vita, non siano mai dopo
morte separati dal supplizio? (De Poenitentia, can.
LX)». «Bene sta, ripiglia S. Agostino, che la volontà
la quale volle l’eterno godimento del peccato, sia punita con
un’eterna severità di vendetta (In Spec. Peccat.)».
Ogni peccato mortale importa di
sua natura una punizione eterna. L’uomo, cadendo in colpa grave, si
uccide per l’eternità e non può più risuscitare
senza l’onnipotenza di Dio. Ora questo miracolo di risurrezione, a
cui Dio punto non è tenuto, quando avviene, non avviene che
nel tempo; ma giunto che sia l’uomo nell’inferno, il miracolo non ha
più luogo: chi passa all’eternità macchiato di peccato
mortale, vede la sua colpa e la pena di questa colpa diventare
eterne… Dio è buono; ma appunto perché infinitamente
buono deve odiare il peccato finché ne rimane traccia; ma non
essendo mai distrutto il peccato nell’eternità, ne segue che
sarà eternamente punito in forza dell’odio eterno che gli
porta Iddio… La Scrittura ci dice che Dio ha viscere di
misericordia per gli uomini, ma si dichiara ancora nel medesimo tempo
che vi è un fuoco eterno, che Dio ha decretato eterne pene al
peccato non cancellato dalla penitenza. Oseremo dire che Dio non è
giusto?
È vero che
l’azione colpevole dura poco; ma il male più che nell’azione,
sta nella malizia, nella disobbedienza, nella volontà.
Accuserete voi d’ingiustizia la legge umana che punisce nel
malfattore il delitto di un momento con lunghi anni di pena
infamante?… «L’uomo peccatore, dice S. Gerolamo, deve
soddisfare eternamente a Dio, perché era sua volontà di
resistere eternamente a Dio» (In Psalm. XVIII), «In
una volontà perversa non si deve tanto guardare all’effetto,
dice S. Agostino, ma all’affetto del cuore; quantunque l’effetto
fallisca, perché non dipende dall’uomo, è giusto che la
volontà sia punita con pena proporzionata alla sua malvagia
disposizione (De Civ. Dei)». Ora che altro vorrebbe il
peccatore ostinato, se non che sempre vivere per burlarsi sempre di
Dio e della sua coscienza? L’atto del peccato non dura, ma l’affetto
al peccato dura sempre in fondo al cuore…
Inoltre nell’inferno il peccatore
è privo della grazia e senza di questa è impossibile
ottenere il perdono dei peccati… Il peccato è un
allontanamento volontario da Dio, è un disprezzo formale della
Maestà divina, è l’amore della creatura preferita al
Creatore, ossia un adulterio spirituale, è quindi la più
enorme ingiuria che si possa fare a Dio. Misurate la gravità
di una tale ingiuria con la grandezza del Dio ch’essa oltraggia e
vedrete che è infinita nel suo oggetto perché intacca
una grandezza infinita. Ma un essere finito nella sua essenza, non
può sopportare una pena infinita in intensità; ne segue
dunque la necessità di una pena infinita in durata.
Le parole di Geremia: «Il
peccato (dei reprobi) sta scritto con penna di ferro a punta di
diamante e scolpito su tutta l’ampiezza dei loro cuori» (XVII,
1), mentre denotano l’ostinata volontà, dei peccatori nel mal
fare, significano ancora che le loro colpe stanno scritte nel libro
della morte a lettere di fuoco e che né acqua, né
lagrima basteranno per tutte l’eternità a raderle o
cancellarle. Sono scolpite nella memoria e nella coscienza dei
reprobi e come verme roditore non cesseranno mai dal morderlo e
divorarlo.

Che disgrazia è mai questa
eternità dei tormenti! Che sventura, essere condannato a
vivere sepolto nelle fiamme eterne! O insensatezza degli uomini che
per un vile piacere di un istante si precipitano in torture senza
fine! O eternità di fuoco, di disperazione! O eternità,
tormento incomparabile! O morte che non si trova mai compita! O vita
che è un’eterna morte!… Si beve, si giuoca, si scherza un
momento; questo passa veloce ed ecco succedergli immantinente una
calamità eterna! Così si va ridendo all’inferno
all’eterna infelicità! Vi si va, ma più non se ne
torna; perché la fine della vita presente è il
principio dell’eternità e questo principio è la fine
delle cose di quaggiù. O fine che non termini, o morte che non
sei la morte, mentre chiudi il tempo apri l’eternità che non
ha mai più fine!… Viviamo dunque in questo mondo così,
che meritiamo di vivere eternamente…

9. L’INFERNO È
CONFORME ALLA GIUSTIZIA DI DIO. – Iddio non è autore del
peccato, ma giusto estimatore e conservatore dell’ordine; punisce il
disonore della colpa con l’onore della giustizia. «Tutte le
cose fatte da Dio sono ottime», dice la Sacra Scrittura (Gen.
I, 31), egli non ha dunque fatto quello che si trova di malvagio
nell’uomo. Quello che vi è di cattivo nell’uomo, è
un disordine; ora ogni disordine merita castigo; ma chi si deve
punire, domanda S. Agostino, se non l’autore? e chi è l’autore
del peccato nell’uomo, se non lo stesso uomo ribelle a Dio? Questa
punizione dell’uomo ribelle a Dio non è un disordine, anzi è
l’ordine: la pena è l’ordine del misfatto. Quando io dico
peccato, dico disordine, perché esprimo la ribellione; quando
poi dico punito, dico cosa ordinatissima, perché è
retto ordine che l’iniquità abbia castigo.
Il peccatore, come un
pazzo, si uccide per l’eternità; ammonito fa il sordo; vuole
giustizia che sia punito… Qui viene a proposito l’avviso di San
Paolo ai Galati: «Non illudetevi con Dio non si scherza. L’uomo
raccoglierà di quello che ha seminato: se carne, mieterà
dalla carne corruzione; se spirito, mieterà dallo spirito vita
eterna» (Gal. VI, 7-8).
La vera, la propria
causa dell’inferno è il peccato (Sap. XI. 21). Quello
che forma l’inferno, non è la pena, ma il peccato. Infatti, in
che cosa consiste essenzialmente l’inferno? Nella privazione della
vista e del godimento di Dio, ossia nell’essere separati da Dio, che
è la felicità suprema; ora solo il peccato è la
causa della separazione dell’uomo da Dio. Voi dunque, o peccatori
ostinati, voi vi portate l’inferno nelle viscere, perché
portate dentro di voi il peccato che vi fa discendere vivi
nell’inferno.
Dio non sarebbe Dio se non fosse
giusto; egli deve pagare ciascuno secondo i fatti propri… A chi
dunque oppone: perché un inferno, sotto un Dio buono? la
risposta viene chiara e facile: Appunto perché Dio è
buono, è necessario l’inferno, come perché è
infinitamente buono, vi dev’essere un inferno eterno; infatti dove
sarebbe la bontà, l’equità, la rettitudine sua, se il
disordine morale andasse impunito? Se i tribunali non punissero, non
ostante la evidenza delle prove, il parricidio, il furto, l’incendio,
che ne sarebbe della giustizia e della società? Se piace un
paradiso per ricompensare i buoni che patirono negli stenti e nelle
avversità, perché non ammettere un inferno dove siano
puniti i malvagi che vissero nell’empietà e nei delitti? Dio è
buono e giusto; ma ognun vede che molte virtù anche eroiche,
come il martirio, non hanno in questo mondo, o nessuna o certo una
inadeguata ricompensa: vi sono non pochi delitti che su questa terra
sfuggono ad ogni castigo; vuole dunque giustizia che vi sia un
paradiso e un inferno.

10. MEZZI PER
SCHIVARE L’INFERNO. – I mezzi che abbiamo per evitare l’inferno sono
: 1° La preghiera. Volgiamoci a Dio gridando col profeta: «Deh!
O Signore, non mi sommerga la tempesta delle onde, non m’inghiottisca
l’abisso, non si chiuda sopra di me la bocca della voragine»
(Psalm. LXVIII, 16).
2° Il pensiero ed
il timore dell’inferno. «Discendiamo nell’inferno mentre siamo
vivi, dice un santo padre, se non vogliamo andarvi dopo morte».
«Quanto si mostra sensato ed è felice, esclama S.
Agostino, colui che in vita si dà tanto pensiero del
supplizio, da scampare al pericolo di subirlo, dopo morte. Volesse
Iddio che intendeste e comprendeste quello che è il mondo e
quello che è l’inferno! Certamente voi allora temereste Iddio,
desiderereste le cose celesti, disprezzereste il mondo e avreste
orrore dell’inferno (In Spec. Peccat.)». Infatti chi di
voi può dimorare in mezzo a un fuoco divoratore, tra vampe
ardenti e sempiterne? domanda Isaia (XXXIII, 14).
3° Il pentimento
delle colpe, la detestazione e confessione dei peccati, la
conversione della vita. «Chi darà al mio capo, gemeva S.
Bernardo, un torrente di pioggia; ai miei occhi una fonte di lagrime;
affinché prevenga col mio pianto e coi miei gemiti, il pianto
unito allo stridore dei denti? (Serm. in XVI
Cantic.
)».