Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (15)

…CAPITOLO II. Della penitenza. Necessità e nozione della penitenza. Motivi di odiare e fuggire il peccato. Motivi e mezzi di riparare il peccato. Un dovere di giustizia rispetto a DIO. Un dovere risultante dalla nostra incorporazione a Cristo. Un dovere di carità….

PARTE SECONDA


LIBRO I: La purificazione dell’anima o la via purgativa


CAPITOLO II.


Della penitenza.


 


Indicata brevemente la necessità e la nozione della penitenza, esporremo: 1° i motivi che devono farci odiare e schivare il peccato; 2° i motivi e i mezzi di ripararlo.


 


Necessità e nozione.


 


Art. I. ‑ Odio del peccato mortale. { 1 veniale, 2 mortale.


 


Art. II. ‑ Riparazione del peccato { 1 motivi, 2 mezzi.


 


NECESSITA’ E NOZIONE DELLA PENITENZA.


 


705. Dopo la preghiera, la penitenza è il mezzo più efficace per purificar l’anima dalle colpe passate e anche per premunirla contro le future.


1° Quindi Nostro Signore, volendo dar principio al pubblico suo ministero, fa predicare dal precursore la necessità della penitenza: ” Fate penitenza perché il regno dei cieli è vicino:Paenitentiam agite, appropinquavit enim regnum caelorum[1]. Dichiara di essere egli pure venuto a chiamare i peccatori a penitenza: “Non veni vocare justos, sed peccatores ad paenitentiam”[2]. Tanto necessaria è questa virtù che, se non facciamo penitenza, periremo: “si paenitentiam non egeritis. omnes similiter peribitis[3]. Gli Apostoli compresero così bene questa dottrina che fin dalle prime prediche insistono sulla necessità della penitenza come condizione preparatoria al battesimo: ”


Paenitentiam agite, et baptizetur unusquisque vestrum[4].


La penitenza è infatti pel peccatore un atto di giustizia; avendo offeso Dio e violatine i diritti, è obbligato a riparare questo oltraggio: il che fa con la penitenza.


706. 2° La penitenza si definisce: una virtù soprannaturale, connessa con la giustizia, che inclina il peccatore a detestare il peccato perché offesa di Dio, e a prendere la ferma risoluzione di schivarlo per l’avvenire e di ripararlo.


Comprende quindi quattro atti principali, di cui è facile vedere la genesi e la connessione. 1) Alla luce della ragione e della fede, vediamo che il peccato è un male, il più grande di tutti i mali, a dir vero, l’unico vero male, perché offende Dio e ci priva dei più preziosi beni; questo male lo odiamo con “tutta, l’anima” iniquitatem odio habui “.


2) Considerando questo male è in noi, perché abbiamo peccato, e che, anche quando vien perdonato, ne resta nell’anima qualche traccia, ne concepiamo un vivo dolore, dolore che ci tortura e stritola l’anima, una sincera contrizione, una profonda umiliazione. 3) Per evitare nell’avvenire questo odioso male, prendiamo la ferma risoluzione o il saldo proponimento di schivarlo, sollecitamente fuggendo le occasioni che vi ci potrebbero condurre e rafforzando la volontà contro le lusinghe dei pericolosi diletti.


4) Finalmente, persuasi che il peccato è un’ingiustizia, risolviamo di ripararlo e di espiarlo con sentimenti ed opere di penitenza.


 


ART. I. MOTIVI DI ODIARE E FUGGIRE IL PECCATO.


 


Prima d’esporre questi motivi [5], diciamo che cosa è il peccato mortale e il veniale.


707 . Nozione e specie. Il peccato è una trasgressione volontaria della legge di Dio. È dunque una disobbedienza a Dio e quindi un’offesa di Dio, perché preferiamo la volontà nostra alla sua e violiamo così gl’imprescrittibili suoi diritti alla nostra sottomissione.


708 . a) Il peccato mortale. Quando con piena avvertenza e pieno consenso trasgrediamo una legge importante, necessaria al conseguimento del nostro fine, in materia grave, il peccato è mortale, perché priva l’anima della grazia abituale che ne costituisce la vita soprannaturale (n. 105). Ecco perché questo peccato è definito da S. Tommaso: un atto con cui ci distacchiamo da Dio, ultimo nostro fine, attaccandoci liberamente e disordinatamente a qualche bene creato. Perdendo infatti la grazia abituale che ci univa a Dio, ci distacchiamo da lui.


709. b ) Il peccato veniale. Quando la legge da noi violata non è necessaria al conseguimento del nostro fine, o quando la violiamo in materia leggiera, oppure, essendo la legge grave in sé, non la trasgrediamo con piena avvertenza o pieno consenso, il peccato è soltanto veniale, e non ci priva dello; stato di grazia. Rimaniamo uniti a Dio nel fondo dell’anima, perché vogliamo farne la volontà in tutto ciò che è necessario a conservarne l’amicizia e conseguire il nostro fine. È però sempre una trasgressione della legge di Dio e una offesa inflitta alla sua Maestà, come proveremo più avanti.


 


I. Del peccato mortale[6]


 


710 . Per pronunziare un retto giudizio sul peccato grave, bisogna Considerare: 1° che cosa ne pensa Dio; 2° che cosa è in sé stesso; 3° i funesti suoi effetti. Chi con la meditazione approfondisca queste considerazioni, avrà per il peccato un odio invincibile.


 


I. Che cosa pensa Dio del peccato mortale.


 


Per averne una qualche idea, vediamo come lo castighi e come lo condanni nella S. Scrittura.


711 . 1° Come lo castiga. A) Negli angeli ribelli: non commettono che un solo peccato, un peccato interno, un peccato di superbia, e Dio, loro Creatore e loro Padre, Dio che li amava non solo come opera delle sue mani ma anche come figli adottivi, si vede obbligato, per punirne la ribellione, a precipitarli nell’inferno,.‑ dove, per   tutta l’eternità, saranno separati da lui e privi quindi di ogni felicità. Eppure Dio è giusto e non punisce mai i colpevoli più di quanto meritino; è misericordioso perfino nei castighi temperandone il rigore colla bontà. Dev’essere dunque qualche cosa d’ abominevole il peccato per meritare d’essere punito tanto rigorosamente.


712. B ) Nei nostri progenitori: erano stati ricolmi d’ogni sorta di beni, naturali, preternaturali e soprannaturali, n. 52‑66.


Ma commettono essi pure un peccato di disubbidienza e di superbia, ed ecco che perdono subito, con la vita della grazia, i doni gratuiti che erano stati così liberalmente loro largiti, vengono cacciati dal paradiso terrestre, e trasmettono ai posteri quel peccato originale, di cui subiamo ancora le tristi conseguenze (n. 69‑75). Ora Dio amava i nostri progenitori come figli, permetteva loro di vivere nella sua intimità, e se il Dio della giustizia e della misericordia dovette castigarli tanto severamente, perfino nella posterità, vuol dunque dire che il peccato è un male orribile che non potremo mai detestare abbastanza.


713. C ) Nella persona del Figlio. Per non lasciar eternamente perire l’uomo e conciliar nello stesso tempo i diritti della giustizia e della misericordia, il Padre manda il Figlio sulla terra, lo costituisce capo del genere umano, commettendogli d’espiare e riparare il peccato in vece nostra. Or che gli chiede per questa redenzione?Trentatré anni di patimenti e di umiliazioni, coronati dalla fisica e morale agonia dell’orto degli Ulivi, del Sinedrio, del Pretorio del Calvario. Chi vuol sapere che cosa sia il peccato, segua passo passo il divin Salvatore, dal presepio alla Croce: nella vita nascosta, ove pratica l’umiltà, l’obbedienza, la povertà, il lavoro nella vita apostolica, tra le fatiche, le delusioni: gli affanni, le persecuzioni di cui è vittima; nella vita paziente, ove soffri tali torture fisiche e morali, da parte degli amici e dei nemici, da venire a ragione chiamato l’uomo dei dolori; e poi dica a sé stesso in tutta sincerità: ecco l’opera dei miei peccati, “vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra”. Così stenterà meno a comprendere che il peccato e il più grande dei mali.


714 . 2° Come Dio condanna il peccato. La S. Scrittura ci presenta il peccato come la cosa più abominevole e criminosa.


a ) E’ una disubbidienza a Dio, una trasgressione dei suoi ordini, che viene severamente e giustamente punita, come si vede nei nostri progenitori [7]. Nel popolo d’Israele, che appartiene in modo speciale a Dio, questa disobbedienza è considerata come: rivolta e ribellione[8]. b) è un’ingratitudine verso il più insigne dei benefattori, un’empietà verso il più amabile dei padri: “Filios enutrivi et exaltavi, ipsi autem spreverunt me”[9]. c) E’ una mancanza di fedeltà, una specie d’adulterio, perché Dio è lo sposo delle anime e giustamente esige inviolabile fedeltà: “Tu autem fornicata es cum amatoribus multis[10]”. d) è un’ingiustizia, perché violiamo apertamente i diritti di Dio sopra di noi: “Omnis qui facit peccatum et iniquitatem facit, et bercaíúwt est iniquitas[11]”.


 


II. Che cosa è il peccato mortale in sé stesso.


 


Il peccato mortale è il male, l’unico vero male, perché tutti gli altri mali non ne sono che la conseguenza o il castigo.


715 . 1° Riguardo a Dio, è un delitto di lesa maestà divina: infatti offende Dio in tutti i suoi attributi, ma soprattutto come primo nostro principio, ultimo nostro fine, Padre nostro e nostro benefattore.


A) Essendo Dio il Primo nostro principio, il nostro Creatore, da cui ci viene tutto ciò che siamo e tutto ciò che possediamo, è per ciò stesso il nostro supremo Padrone, a cui dobbiamo ubbidienza assoluta. Ora col peccato mortale,. noi lo disubbidiamo, facendogli l’ingiuria di preferire la volontà nostra alla sua, una creatura al Creatore! Facciamo anzi di peggio: ci rivoltiamo contro di lui noi che ‑per creazione siamo sudditi suoi assai più che non siano sudditi gli uomini. soggetti ad un principe. a) Rivolta tanto più grave in quanto che è Padrone infinitamente sapiente e infinitamente buono che nulla ci ordina che non sia nello stesso tempo utile alla nostra felicità come alla sua gloria, mentre la nostra volontà, ben lo sappiamo, è fiacca, fragile, soggetta all’errore . eppure la preferiamo a quella di Dio! b) Questa rivolta poi è tanto meno scusabile, perché, istruiti fin dall’infanzia da genitori cristiani, abbiamo conoscenza più chiara, più esatta dei diritti di Dio su di noi, e della malizia del peccato, cosicché operiamo sapendo bene quello che facciamo. c) E perché tradiamo così il nostro Padrone? Per un vile piacere che ci avvilisce e ci abbassa al livello dei bruti; per uno stolto orgoglio con cui ci appropriamo la gloria che appartiene solo a Dio; per un interesse, per un guadagno passeggero a cui sacrifichiamo un bene eterno!


716. B) Dio è Pure l’ultimo nostro fine: ci creò e non ci poté creare che per sé, non essendovi fuori di lui bene alcuno più grande in cui possiamo trovar la nostra perfezione e la nostra felicità; ma poi e giusto e necessario che, usciti da Dio, a lui ritorniamo; essendo cosa sua e sua proprietà, dobbiamo riverirlo, lodarlo, servirlo e glorificarlo[12]; teneramente amati da lui, dobbiamo anche noi riamarlo con tutta l’anima: nell’amarlo e nell’adorarlo troviamo la felicità e la perfezione. Ha quindi stretto diritto che l’intiera nostra vita con tutti i pensieri, tutti i desideri, tutte le azioni, sia rivolta a lui e lo glorifichi.


Ora, col peccato mortale, ci stacchiamo volontariamente da lui per dilettarci in un bene creato; gli facciamo l’ingiuria di preferirgli una sua creatura o meglio l’egoistica nostra soddisfazione; perché in fondo più che alla creatura ci attacchiamo al diletto che in lei troviamo. A una flagrante ingiustizia, perché si tende a privar Dio degli imprescrittibili suoi diritti su di noi e di quella gloria esterna che gli dobbiamo; è una specie d’idolatria, che erige, nel tempio del nostro cuore, un idolo a fianco del vero Dio; è un disprezzar la fonte d’acqua viva, che sola può dissetar le anime, e preferirgli quell’acqua fangosa che si trova in fondo alle cisterne scrostate, secondo l’energico linguaggio di Geremia[13]: Duo enim mala fecit populus meus: me dereliquerunt fontem aquae vivae, et foderunt sibi cisternas, cisternas dissipatas, quae continere non valent aquas “.


717. C ) Dio è pure per noi un Padre, che ci adottò per figli e ci tratta con sollecitudine tutta paterna (11. 94), colmandoci dei più preziosi suoi benefici, dotandoci di soprannaturale organismo onde farci vivere di vita simile alla sua, e largheggiando con noi di copiose grazie attuali onde porre in atto i suoi doni e accrescerci la vita soprannaturale. Ora, col peccato mortale, disprezziamo questi doni, ne abusiamo anzi per volgerli contro il nostro benefattore e il nostro Padre, profaniamo le sue grazie e l’offendiamo nel momento stesso in cui ci colma dei suoi beni. Non è ingratitudine tanto più colpevole quanto maggiori sono i doni ricevuti, che grida vendetta contro di noi?


718 . 2° Rispetto a Gesù Cristo, nostro redentore, il peccato è una specie di deicidio. a) E infatti il peccato che cagionò i patimenti e la morte del divin Salvatore: “Christus passus est pro nobis[14]Lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo”[15]. Perché questo pensiero ci faccia impressione dobbiamo richiamare la parte che abbiamo personalmente avuta nella dolorosa Passione del Salvatore. Son io che con un bacio ho tradito il mio maestro, e qualche volta anche per qualche cosa di meno di trenta denari; io che fui causa del suo arresto e della sua condanna a morte; io ero là col popolaccio a gridare: Non hunc, sed Barabbam… Crucifige eum[16]; io ero là coi soldati a flagellarlo con le mie immortificazioni, a coronarlo di spine con gl’interni miei peccati di sensualità e d’orgoglio, a porgli sulle spalle la pesante croce e a crocifiggerlo. Come bene spiega l’Olier [17], Il la nostra avarizia inchioda la sua carità, la nostra collera la sua dolcezza, la nostra impazienza la sua pazienza, il nostro orgoglio la sua umiltà; e così con i nostri vizi attanagliamo, stringiamo in catene e facciamo a brani Gesù Cristo abitante in noi”. Quanto dobbiamo odiare il peccato che ha così crudelmente inchiodato alla croce il nostro Salvatore!


b ) Ora non possiamo certamente infliggergli più nuove torture perché non può più patire; ma le presenti nostre colpe continuano ad offenderlo perché, commettendole volontariamente, disprezziamo il suo amore e i suoi benefici, rendiamo inutile per noi il sangue da lui così generosamente versato, lo priviamo di quell’amore, di quella riconoscenza, di quell’ubbidienza, a cui ha diritto. Non è un corrispondere al suo amore con la più nera ingratitudine e chiamar quindi sul nostro capo i più gravi castighi?


 


III. Gli effetti del peccato mortale.


 


Dio volle che la legge avesse una sanzione, che la felicità fosse, in fin dei conti, la ricompensa della virtù e il dolore castigo del peccato. Onde, considerando gli effetti del peccato, potremo in qualche modo arguirne la reità. Li possiamo studiare in questa vita o nell’altra.


719 . 1° Per renderci conto dei terribili effetti dei peccato mortale in questa vita, richiamiamo che cosa è un’ anima in istato di grazia: abita in lei la SS. Trinità che vi trova le sue compiacenze e la orna delle sue grazie, delle sue virtù e dei suoi doni; sotto l’influsso della grazia attuale i suoi atti buoni diventano meritorii della vita eterna; possiede la santa libertà dei figli di Dio, partecipa della forza e della virtù di Dio e gode, in certi momenti specialmente, tale felicità che è come un saggio della felicità celeste. Or che fa il peccato mortale?


a ) Caccia Dio dall’anima, e poiché il possesso di Dio e già un’ anticipazione della beatitudine celeste, la sua perdita è come il preludio della riprovazione eterna: chi perde Dio non perde forse tutti i beni di cui Dio è la fonte?


b ) Con lui perdiamo la grazia santificante, che ci faceva vivere d’una vita simile a quella di Dio, ond’è come una specie di suicidio spirituale; e perdiamo pure con lei il glorioso corteggio delle virtù e dei doni che l’accompagnavano. Se nell’infinita sua misericordia Dio ci lascia la fede e la speranza, queste virtù non sono più informate e avvivate dalla carità e non rimangono in noi che per ispirarci un timore salutare e un ardente desiderio di riparazione e di penitenza; intanto ci mostrano il triste stato dell’anima nostra eccitando in noi cocenti rimorsi.


720. c ) Perdiamo pure i meriti passati, accumulati con tanti sforzi, né li potremo più ricuperare che per mezzo di una laboriosa penitenza; e finché rimaniamo in peccato mortale, non possiamo meritar nulla pel cielo. Qual dissipazione di beni soprannaturali!


d ) Bisogna aggiungervi la tirannica schiavitù che il peccatore deve or mai subire: in cambio della santa libertà di cui godeva, eccolo diventato schiavo del peccato, delle passioni cattive che si trovano come scatenate per la perdita della grazia e delle male abitudini che non tardano a formarsi con le ricadute così difficili a schivare, perché colui che pecca diventa schiavo del peccato, omnis qui facit peccatum, servus est peccati”[18]. Infiacchiscono gradatamente le forze morali, le grazie attuali diminuiscono e sopraggiunge lo scoraggiamento e talvolta la disperazione; la è finita per questa povera anima se Dio, per un eccesso di misericordia, non viene a trarla con la sua grazia dal fondo dell’abisso.


721 . 2° Che se sventuratamente il peccatore si ostina sino alla fine nella resistenza alla grazia, ecco l’inferno con tutti i suoi orrori. A) Prima la pena del danno, pena giustamente meritata. La grazia non aveva cessato di inseguire il colpevole; ma ci volle volontariamente morire nel suo peccato, volle rimanere volontariamente separato da Dio. Finché era sulla terra, tutto assorto negli affari e nei piaceri, non aveva tempo di fermarsi sull’orrore del suo stato morale. Ma ora, che non vi sono più per lui né affari né piaceri, si trova costantemente in faccia alla terribile realtà. Dal fondo stesso della natura, dalle aspirazioni dell’anima e dei cuore, dall’intiero suo essere si sente irresistibilmente tratto verso Colui che è il primo suo principio e il suo ultimo fine, l’unica fonte della sua perfezione e della sua felicità, verso quel Padre così amabile e così amante che l’aveva adottato per figlio, verso quel Redentore che l’aveva amato fino a morir sulla croce per lui; ma intanto si sente inesorabilmente respinto da una forza invincibile, forza che non è altro che il suo peccato. La morte l’ha omai fissato, l’ha reso immobile nelle sue disposizioni, e avendo rigettato Dio nel momento stesso della morte, rimarrà da Dio eternamente separato. Non beatitudine, non perfezione: rimane affisso al suo peccato e in lui a tutto ciò che vi e di più ignobile e di più avvilitivo: “discedite a me maledicti“.


722. B ) Alla pena del danno, che è di molto la più terribile, viene ad aggiungersi la pena del senso. Complice dell’anima, il corpo ne parteciperà pure il supplizio; la disperazione eterna che tortura l’anima del dannato produce già nel corpo una febbre intensa, una sete inestinguibile che nulla può calmare. Ma vi sarà pure un fuoco reale, benché diverso dal fuoco materiale che vediamo sulla terra, che diverrà strumento della divina giustizia per castigare il nostro corpo e i nostri sensi; è giusto infatti che si sia puniti con ciò con cui si è peccato “per quae peccat quis per haec et torquetur”[19]; onde, ‘avendo il dannato voluto disordinatamente godere delle creature, in esse troverà strumenti di supplizio. Questo fuoco, ‑ acceso e diretto da mano intelligente, tormenterà tanto più le sue vittime quanto più intensamente avranno voluto godere i peccaminosi diletti.


723. C ) L’una e l’altra pena non finiranno mai ed è ciò che mette il colmo al castigo dei dannati. Perché, se i minimi patimenti, quando siano continui, diventano quasi intollerabili, che dire di queste pene, già così intense in se stesse, che dopo milioni di secoli non faranno che ricominciare?


Eppure Dio è giusto, Dio, è buono perfino nei castighi che e obbligato ad infliggere ai dannati! Bisogna dunque che il peccato sia male abominevole se viene punito in tal maniera, sia il solo vero ed unico male. Dunque piuttosto morire che macchiarsi di un solo peccato mortale “potius mori quam faedari”; e, per meglio schivarlo, abbiamo orrore anche del peccato veniale.


 


II. Del peccato veniale deliberato.


 


Rispetto alla perfezione vi è grandissima differenza tra i peccati veniali di sorpresa e quelli che si commettono di proposito deliberato, con piena avvertenza e con pieno consenso.


724 . Delle colpe di sorpresa. I Santi stessi commettono qualche volta colpe di sorpresa, lasciandosi andare un istante, per irriflessione e per debolezza di volontà, a negligenze negli esercizi spirituali, ad imprudenze, a giudizi o a parole contrarie alla carità, a piccole bugie per scusarsi. Sono colpe certamente biasimevoli e le anime fervorose amaramente le deplorano, ma non sono ostacolo alla perfezione; il Signore che conosce la nostra debolezza le scusa facilmente: “ipse cognovit figmentum nostrum”; del resto le ripariamo quasi subito con atti di contrizione, di umiltà, di amore, che sono più durevoli e più volontari che non i peccati di fragilità.


Quello che dobbiamo fare rispetto a queste colpe è di diminuirne il numero e schivare lo scoraggiamento. a) Si possono diminuire con la vigilanza: si cerca di rifarsi alla causa e di sopprimerla, ma senza fretta od affanno, confidando più sulla grazia divina che sui nostri sforzi; bisogna soprattutto sforzarsi di sopprimere ogni affetto al peccato veniale; perché, come osserva S. Francesco di Sales [20], “se il cuore vi si attacca, si perde tosto la soavità della devozione e tutta la devozione stessa”.


725. b ) Ma bisogna pure attentamente evitare lo scoraggiamento e il dispetto di coloro « che si irritano di essersi irritati, si rattristano di essersi rattristati” [21]; questi movimenti provengono in sostanza dall’amor proprio che si turba e s’inquieta al vederci tanto imperfetti. Per schivar questo difetto bisogna guardar le colpe nostre con quella benignità con cui guardiamo quelle degli altri, odiare, si, i nostri difetti e le nostre debolezze ma con odio tranquillo, con viva coscienza della nostra debolezza e della nostra miseria, e con ferma e calma volontà di far servire queste colpe alla gloria di Dio, adempiendo con maggior fedeltà ed amore il dovere presente.


Ma i peccati veniali deliberati sono grandissimo ostacolo al progresso spirituale e devono essere vigorosamente combattuti. A convincercene, vediamone la malizia e gli effetti.


 


I. Malizia del peccato veniale deliberato.


 


726 . Questo peccato è un male morale, il più gran male in sostanza dopo il peccato mortale; è vero che non ci fa deviar dal nostro fine ma ci ritarda il cammino, ci fa perdere un tempo prezioso e soprattutto è offesa di Dio; in ciò consiste principalmente la sua malizia.


727 . E’ infatti una disubbidienza a Dio, in materia leggiera, è vero, ma voluta dopo averci riflettuto, e che, agli occhi della fede, è veramente qualche cosa di odioso perché assale l’infinita maestà di Dio.


A ) A un’ingiuria, un insulto a Dio: mettiamo sulla bilancia da un lato la volontà di Dio e la sua gloria, e dall’altro il nostro capriccio, il nostro diletto, la nostra gloriuzza, e osiamo preferirci a Dio! Quale oltraggio! Una volontà, infinitamente sapiente e retta, sacrificata alla nostra che è così soggetta all’errore e al capriccio! ” è, dice S. Teresa [22], come se si dicesse: Signore, benché quest’azione vi dispiaccia, pure io la farò. So bene che voi la vedete, so molto bene che non la volete; ma preferisco seguire la mia fantasia e la mia inclinazione anziché la vostra volontà. E vi par poca cosa trattar così ? Per me, per quanto leggiera sia la colpa in se stessa, la giudico invece grave e gravissima”.


728. B ) Ne consegue, per colpa nostra, una diminuzione della gloria esterna di Dio: fummo creati per procurarne la gloria obbedendo perfettamente e amorosamente ai suoi ordini; ora, ricusando di ubbidirgli, sia pure in materia leggiera, gli sottraiamo parte di questa gloria; in cambio di proclamare, come Maria, che vogliamo. glorificarlo in tutte le nostre azioni “Magnificat anima mea Dominum”, ricusiamo positivamente di glorificarlo in questa o in quella cosa.


C ) Ed è quindi un’ ingratitudine; colmati di più numerosi benefici perché suoi amici, e sapendo che chiede in ricambio la nostra riconoscenza e il nostro amore, noi ricusiamo di fargli quel piccolo sacrificio; invece di studiarci di piacergli, non ci curiamo di dispiacergli. Onde un raffreddamento dell’amicizia di Dio verso di noi: egli ci ama senza riserva e chiede in ricambio che l’amiamo anche noi con tutta l’anima: “Diliges Dominum Deum tuum ex loto corde tuo et in tota anima tua et in tota mente tua” [23]. Ma noi non gli diamo che una parte di noi stessi, facciam delle riserve, e, pur volendo conservarne l’amicizia, gli mercanteggiamo la nostra e non gli diamo che un cuore diviso. C’è qui, com’è chiaro, indelicatezza, mancanza di slancio e di generosità, che non può che diminuire l’intimità con Dio.


 


II. Effetti del peccato veniale deliberato.


 


729 . 1° In questa vita, il peccato veniale commesso frequentemente e di proposito deliberato, priva l’anima di molte grazie, diminuisce gradatamente il fervore e predispone al peccato mortale.


A ) Il peccato veniale priva l’anima non della grazia santificante né dell’amor di Dio, ma la priva d’una nuova grazia che avrebbe ricevuto se avesse resistito alla tentazione e quindi pure d’un grado di gloria che con la sua fedeltà avrebbe potuto acquistare; la priva d’un grado d’amore che Dio voleva darle. Non è questa una perdita immensa, la perdita d’un tesoro più prezioso del mondo intiero?


730. B ) E’ una diminuzione di fervore, vale a dire di quella generosità con cui l’anima si dà interamente a Dio. Questa disposizione infatti suppone un alto ideale e lo sforzo costante per accostarvisi. Ora l’abitudine dei peccato veniale è incompatibile con queste due cose.


a ) Nulla tanto diminuisce il nostro ideale quanto l’affetto al peccato: in cambio d’essere pronti a far tutto per Dio e mirare alla   vetta, ci fermiamo deliberatamente lungo il cammino, a mezza costa, per godere di qualche piccolo piacere proibito; perdiamo così un tempo prezioso; cessiamo di guardare in alto per trastullarci a cogliere alcuni fiori che presto appassiranno; cominciamo allora a sentir la fatica, e la vetta della perfezione, anche quella a cui eravamo personalmente chiamati, ci sembra troppo lontana e troppo ripida: diciamo a noi stessi che non è poi necessario mirare si alto, e che uno può salvarsi a più buon mercato; e l’ideale che avevamo intravisto non ha più attrattive per noi. Uno dice a sé stesso: questi moti di compiacenza, queste piccole sensualità, queste amicizie sensibili, queste maldicenze sono poi cose inevitabili; bisogna rassegnarsi. b) Allora lo slancio verso le altezze è troncato; si camminava prima di passo allegro, sorretti dalla speranza di toccar la meta; ora invece si comincia a sentire il peso del giorno e della fatica, e, quando vogliamo riprendere le ascese, l’affetto al peccato veniale c’impedisce d’avanzare. L’uccello attaccato al suolo tenta invano di prendere lo slancio in alto: al suolo ricade spossato; così le anime nostre, rattenute da affetti a cui non vogliamo rinunziare, ricadono presto più o meno spossate dal vano sforzo che hanno tentato. Qualche volta, è vero, ci pare di poter riprendere l’antico slancio; ahimè i altri legami ci rattengono, e non abbiamo più la costanza necessaria per troncarli tutti uno dopo l’altro. Vi è dunque un raffreddamento di carità che dà da pensare.


731. C ) Il gran pericolo che allora ci minaccia è di scivolare a poco a poco giù fin nel peccato mortale. Crescono infatti le nostre inclinazioni al piacere proibito e d’altra parte le grazie di Dio diminuiscono, tanto che viene il momento in cui possiamo temere tutti i peggiori tracolli.


a ) Crescono le nostre inclinazioni al piacere cattivo: quanto più si concede a questo perfido nemico tanto più chiede, perché è insaziabile.


Oggi la pigrizia ci fa abbreviar la meditazione di cinque minuti, domani ne chiede dieci; oggi la sensualità si contenta di qualche piccola imprudenza, domani si fa più ardita ed esige qualche cosa di più. Dove fermarsi su questo pericoloso pendio? Uno tenta di tranquillarsi pensando che son colpe solo veniali; ma ahimè! a poco a poco s’accostano alle colpe gravi, le imprudenze si rinnovano e turbano più profondamente l’immaginazione e i sensi. È il fuoco che cova sotto la cenere e che può diventar focolare d’incendio; è il serpente che uno si riscalda in seno e che si prepara a mordere e avvelenare la vittima. ‑ Il pericolo è tanto più prossimo per questo che, a furia di esporvisi, è meno temuto: vi si prende dimestichezza, si lasciano cadere, l’un dopo l’altro, i baluardi che difendevano la cittadella del cuore, e viene il momento in cui, con un assalto più furioso, il nemico penetra nella piazzaforte.


732. b ) Il che è tanto più da temere in quanto che le grazie di Dio generalmente diminuiscono a proporzione delle nostre infedeltà. 1) è infatti legge di Provvidenza che le grazie ci sono date secondo la nostra cooperazione “secundum cujusque dispositionem et cooperationem”. È questo in sostanza il senso della parola evangelica: A chi ha, si dà di più e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha, qui enim habet dabitur ei et abundabit; qui autem non habet et quod habet auferetur ab eo”[24]. Ora, con l’affetto al peccato veniale, noi resistiamo alla grazia e ne ostacoliamo l’azione nell’anima, onde ne riceviamo assai meno. Ora, se con più copiose grazie non abbiamo saputo resistere alle cattive inclinazioni della natura, vi resisteremo con grazie e con forze diminuite? 2) D’altra parte, quando un’anima manca di raccoglimento e di generosità, non riesce a cogliere quegli interni movimenti della grazia che la sollecitano al bene, perché vengono presto soffocati dallo strepito delle rideste passioni. 3) Del resto la grazia non può santificarci se non chiedendoci sacrifici, ma le abitudini del piacere acquistate con l’affetto alle colpe veniali rendono questi sacrifici assai più difficili.


733 . Si può dunque conchiudere col P. L. Lallemand [25]: la rovina delle anime viene dal moltiplicarsi dei peccati veniali che cagionano la diminuzione dei lumi e delle ispirazioni divine, delle grazie e delle consolazioni interiori, del fervore e del coraggio per resistere agli assalti del nemico. Ne segue l’acciecamento, la debolezza, le cadute frequenti, l’abitudine, l’insensibilità, perché, guadagnato che sia l’affetto, si pecca quasi senza aver sentimento del peccato”.


734. 2° Gli effetti del peccato veniale nell’altra vita [26], ci mostrano quanto dobbiamo temerlo: infatti molte anime passano i lunghi anni nel Purgatorio per espiarlo. E che cosa soffrono in quel luogo d’espiazione?


A ) Vi soffrono il più intollerabile dei mali, la privazione di Dio. Non è certamente una pena eterna ed e appunto questo che la distingue dalle pene dell’inferno. Ma, per un tempo più o meno lungo, proporzionato al numero e alla gravità delle colpe, queste anime che amano Dio, che, separate da tutte le gioie e distrazioni della terra, pensano costantemente a lui e bramano ardentemente di vederne la faccia, vengono private della sua vista e del suo possesso e patiscono ineffabili strazi. Capiscono ora che fuori di Lui non possono essere felici; ma ecco rizzarsi innanzi a loro, come insormontabile ostacolo, quella moltitudine di peccati veniali che non hanno sufficientemente espiati. Del resto sono tanto comprese della necessità della mondezza richiesta a contemplare la faccia di Dio che si vergognerebbero di comparire davanti a lui senza questa mondezza e non consentirebbero mai ad entrare in cielo finché resta in loro qualche traccia del peccato veniale [27]. Sono quindi in uno stato violento, che ben riconoscono d’aver meritato ma che non lascia per questo di torturarle.


735. B ) Inoltre, secondo la dottrina di S. Tommaso, un sottil fuoco le penetra, ne molesta l’attività, e fa loro provare fisici patimenti per espiare i colpevoli diletti a cui acconsentirono. Accettano certo di grati cuore questa prova, perché intendono bene che è necessaria per unirsi a Dio. “Vedendo, dice S. Caterina da Genova [28], il purgatorio ordinato a levar via le sue macchie, l’anima vi si getta dentro e le par trovare una grande misericordia per potersi levare quell’impedimento”. Ma tale accettazione non toglie che queste anime soffrano molto: “L’amore di Dio, il quale ridonda nell’anima, le dà una contentezza sì grande che non si può. esprimere, ma questa contentezza alle anime che sono in purgatorio non toglie scintilla di pena, anzi quell’amore, il quale si trova ritardato, è quello che fa la loro pena, e tanto fa pena maggiore quant’è la perfezione dell’amore del quale Dio e ha fatte capaci” [29].


Eppure Dio non è soltanto giusto ma anche misericordioso! Ama queste anime con amore sincero, tenero, paterno; desidera ardentemente di darsi ad esse per tutta l’eternità; è se non lo fa, e perché vi è incompatibilità assoluta tra la infinita sua santità e la minima macchia, il minimo peccato veniale. Non potremo dunque mai troppo abbominarlo, mai troppo schivarlo e mai troppo ripararlo con la penitenza.


 


 


ART. II. MOTIVI E MEZZI DI RIPARARE IL PECCATO.


 


I. Motivi di penitenza.


 


Tre motivi principali ci obbligano a far penitenza dei nostri peccati: un dovere di giustizia rispetto a Dio; un dovere risultante dalla nostra incorporazione a Gesù Cristo; un dovere di proprio interesse e, di carità.


 


I° UN DOVERE DI GIUSTIZIA RISPETTO A DIO.


 


736 . Il peccato infatti è una vera ingiustizia, perché toglie a Dio una parte di quella gloria esterna a cui ha diritto; richiede quindi per giustizia una riparazione, che consisterà nel restituire a Dio, per quanto possiamo, l’onore e la gloria di cui l’abbiamo colpevolmente privato. Or quest’offesa, essendo, almeno oggettivamente, infinita, non sarà mai intieramente riparata. Dobbiamo quindi espiare per tutta la vita; obbligo tanto più esteso quanto maggiori furono i benefici di cui siamo stati colmati, e più gravi e più numerose le colpe.


È quanto osserva Bossuet [30]: “Non dobbiamo giustamente temere che la bontà di Dio, così indegnamente disprezzata, si cambi in implacabile furore? Che se la giusta sua vendetta è così grande contro i gentili…. non sarà la sua collera tanto più terribile per noi quanto più doloroso è per un padre l’aver perfidi figli e servi cattivi? ” Dobbiamo quindi, egli dice, prendere le parti di Dio contro di noi: “Prendendo così contro di noi le parti della divina giustizia, obblighiamo la sua misericordia a prendere le parti nostre contro la sua giustizia. Quanto più deploreremo la miseria in cui siamo caduti, tanto più ci avvicineremo al bene che abbiamo perduto: Dio riceverà pietosamente il sacrificio del cuore contrito che noi gli offriremo in soddisfazione dei nostri delitti; e senza considerare che le pene che c’imponiamo non sono proporzionata vendetta, questo buon padre terrà conto soltanto che è volontaria”. Renderemo del resto più efficace la nostra penitenza unendola a quella di Gesù Cristo.


 


2° UN DOVERE RISULTANTE DALLA NOSTRA INCORPORAZIONE A CRISTO.


 


737. Fummo col battesimo incorporati a Cristo (n. 143), onde dobbiamo, partecipandone la: vita, parteciparne pure le disposizioni. Ora Gesù, benché impeccabile, prese sopra di sé, come capo d’un corpo mistico, il peso e, per così dire, la responsabilità dei nostri peccati, “posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum [31]. Ecco perché condusse vita penitente dal primo istante della sua concezione sino al Calvario. “Ben sapendo che il Padre non poteva essere placato.dagli olocausti dell’Antica Legge, offre sé stesso come ostia per sostituir tutte le vittime; tutte le sue azioni saranno immolate con la spada dell’ubbidienza, e dopo una lunga vita, che altro non è se non continuo martirio, muore sulla croce, vittima dell’ubbidienza e dell’amore “factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis“. Ma vuole che i suoi membri, per essere mondati dai loro peccati, s’uniscano al suo sacrifizio e siano vittime espiatrici insieme con lui: “Per essere il Salvatore del genere umano, ne volle essere la vittima. Ma l’unità del suo corpo mistico richiede che, essendosi immolato il capo, tutte le membra debbano pur essere ostie viventi [32]“. È infatti evidente che se Gesù, benché innocente, espiò i nostri peccati con così rigorosa penitenza, noi, che siamo colpevoli, dobbiamo associarci al suo sacrifizio con tanto maggior generosità quanto maggiori furono i nostri peccati.


738. Ad agevolarci questo dovere, Gesù penitente viene a vivere in noi per mezzo del divino suo Spirito con le sue disposizioni di vittima.


“Così dice l’Olier [33], leggendo i Salmi bisogna onorare in David lo spirito di penitenza e ammirare con grande religione e posatezza le disposizioni dello Spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di penitenza, diffuso in questo Santo. Bisogna chiedere di parteciparvi con umiltà di cuore, con insistenza, fervore e perseveranza, ma soprattutto con P umile fiducia che questo Spirito ci sarà comunicato. Certo non sentiremo sempre l’azione di questo Spirito divino, perché opera spesso insensibilmente; ma se umilmente lo chiediamo, lo riceviamo, e opera in noi per renderci conformi a Gesù penitente, farci detestare ed espiare con lui i nostri peccati.


La nostra penitenza è allora assai più efficace, perché partecipa della virtù stessa del Salvatore: non siamo più noi soli a riparare, è Gesù che espia in noi e con noi. “Ogni penitenza esterna che non esce dallo Spirito di Gesù Cristo, dice l’Olier [34], non è vera e reale penitenza. Si possono esercitare su di sé rigori anche molto violenti; ma se non emanano da Nostro Signore penitente in noi, non possono essere penitenze cristiane. Solo per mezzo di lui si fa penitenza.; ei la cominciò quaggiù sulla terra nella sua persona è la continua in noi… animando l’anima nostra delle interne disposizioni d’annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro noi stessi e di fortezza per compir su di noi la pena e la misura della soddisfazione che Dio Padre vuol ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne”. Questa unione con Gesù penitente non ci dispensa dunque dai sentimenti e dalle opere di penitenza ma vi dà un maggior valore.


 


3° UN DOVERE DI CARITÀ.


 


La penitenza è un dovere di carità verso di noi e verso il prossimo.


739. A ) Verso di noi: il peccato infatti lascia nell’anima funeste conseguenze, contro cui e necessario reagire. a) Anche quando la colpa o il fallo è perdonato, ci resta generalmente da subire una pena più o meno lunga secondo la gravità e il numero dei peccati e secondo il fervore della contrizione nel momento del nostro ritorno a Dio. Questa pena dev’essere subita in questo mondo o nell’altro. Ora è assai più utile espiarla in questa vita, perché, quanto più prontamente e perfettamente paghiamo questo debito, tanto più l’anima diviene atta all’unione divina; d’altra parte più facile è questa espiazione sulla terra, perché la vita presente e tempo di misericordia; è anche più feconda, perché gli atti sodisfattorii sono nello stesso tempo meritorii (n. 209). Ama quindi l’anima propria chi fa pronta e generosa penitenza.


b ) Ma il peccato lascia pure in noi una deplorevole facilità a commettere nuove colpe, appunto perché accresce in noi l’amore disordinato del piacere. Ora nulla corregge meglio questo disordine quanto la virtù della penitenza; facendoci valorosamente tollerare le pene che la Provvidenza ci manda, stimolando il nostro ardore per le privazioni e le austerità compatibili con la salute, essa smorza gradatamente l’amor del piacere e ci fa paventare il peccato che esige tali riparazioni; facendoci praticar atti di virtù contrari alle cattive nostre abitudini, ci aiuta a correggercene e ci dà maggior sicurezza per l’avvenire [35]. è dunque atto di carità verso sé stesso il far penitenza.


740. B ) è pure atto di carità verso il prossimo. a) In virtù della nostra incorporazione a Cristo, siamo tutti fratelli, tutti solidari gli uni degli altri (n. 148). Potendo dunque le nostre opere sodisfattorie essere utili agli altri, perché la carità non ci indurrà a far penitenza non solo per noi ma anche per i fratelli? Non è questo il mezzo migliore d’ottenerne la conversione, o, se sono già convertiti, la perseveranza? Non è questo il miglior servizio che possiamo loro prestare, servizio mille volte più utile di tutti i beni temporali che potremmo lor dare? Non è un corrispondere alla divina volontà che, avendoci adottati tutti per figli, ci chiede di amare il prossimo come noi stessi e di espiarne le colpe come espiamo le nostre?


741. b ) Questo dovere di riparazione spetta più specialmente ai sacerdoti: è dovere del loro stato l’offrir vittime non solo per se stessi ma anche per le anime di cui sono incaricati: “prius pro suis delictis, deinde pro populi”[36]. Ma ci sono, fuori del sacerdozio, anime generose che, così nel chiostro come nel mondo, si sentono attirate a offrirsi vittime per espiare i peccati altrui. Vocazione nobilissima che le associa all’opera redentrice di Cristo, e a cui è bene animosamente corrispondere procurando di consultare un savio direttore per fissar con lui le opere di riparazione a cui dedicarsi [37].


742 . Diremo terminando che lo spirito di penitenza non è dovere imposto soltanto agl’incipienti e per brevissimo tempo. Quando si è ben capito che cos’è il peccato e quale offesa infinita infligge alla maestà divina, uno si crede obbligato a far penitenza per tutta la vita, perché la vita stessa è troppo breve per riparare un’offesa infinita. Non bisogna quindi stancarsi mai di far penitenza.


Questo punto è così importante che il P. Faber, dopo aver lungamente riflettuto sulla causa per cui tante anime fanno così poco progresso, venne alla conclusione che questa causa sta “nella mancanza di costante dolore eccitato dal ricordo del peccato [38]”. Se ne ha del resto la conferma negli esempi dei Santi, che non cessarono mai di espiar le colpe, talora assai leggiere, commesse in passato. Anche la condotta di Dio verso le anime che vuole innalzare alla contemplazione lo dimostra assai bene. Faticato che hanno per lungo tempo a purificarsi con gli esercizi attivi della penitenza, Dio, a dar l’ultima mano alla loro purificazione, invia quelle prove passive che d