Eugenio IV rimase tanto soddisfatto del lavoro pittorico dell’Angelico che, per dimostrargli la sua riconoscenza, avrebbe voluto nominarlo vescovo di Firenze al posto del defunto Mons. Zabardella (+1446), ma l’umile figlio di San Domenico, che si sentiva chiamato da Dio a glorificare il suo nome con le splendide scene delle sue pitture, declinò il compito al quale non si sentiva preparato. Propose tuttavia al sommo pontefice di destinare a quella carica il P. Antonino Pierozzi che tutti chiamavano “Antonino dei consigli” per la saggezza di cui dava continuamente prova nelle relazioni con i confratelli e nei contatti con i penitenti. Il papa accolse il suggerimento del beato. S. Antonino per Firenze fu una vera benedizione.
E’ il primo grande artista, gloria dei
Frati Predicatori, che la Chiesa abbia elevato all’onore degli altari, ed è
l’unico discepolo di S. Domenico che, con il pennello, abbia predicato tanto al
popolo di Dio quanto S. Tommaso e S. Alberto Magno con il loro insegnamento e i
loro scritti. Per la fama di santità che sempre lo accompagnò nel corso dei
secoli, il 3-10-1982 Giovanni Paolo II gli decretò il titolo di
“Beato” con l’obbligo della memoria da parte dei Domenicani residenti
nel convento di Santa Maria sopra Minerva, dove sono venerate le sue reliquie,
nel giorno della sua morte. È facoltativa la memoria per i Domenicani sparsi
negli altri conventi.
Il Beato nacque circa il 1395 a Vicchio di Mugolio (Firenze) da poveri contadini. Al fonte battesimale gli fu
imposto dal padre, Pietro, il nome di Giudo o Giudolino. Dopo di lui nacque il
fratello Benedetto e, a qualche anno di distanza, anche la sorella Francesca.
Entrambi i fratelli crebbero con una spiccata tendenza alla pittura e alla
miniatura, cosicché i genitori ne favorirono l’inclinazione permettendo loro di
scendere a Firenze, la città del giglio, e di sistemarsi quali garzoni
apprendisti presso Lorenzo Monaco, artista camaldolese che aveva bottega presso
il convento domenicano che sorgeva vicino alla cosiddetta Rotonda di Santa
Maria degli Angeli, e nella quale i due fratelli praticavano le loro devozioni.
Ogni tanto mettevano a profitto il tempo di cui disponevano per frequentare
pure la bottega di Lorenzo Ghiberti (+1455) che stava eseguendo i meravigliosi
pannelli per le porte del battistero e per andare ad ammirare tanto la Madonna
di Cimabue (+1302) quanto quella del Giotto (+1337).
Guido e Benedetto, mentre imparavano
l’arte dei colori e del disegno non cessavano di preoccuparsi della salvezza
della propria anima. Anzi, per meglio assicurarla, un giorno decisero di
aggregarsi a un convento di Domenicani che seguisse la riforma introdotta
nell’Ordine dal discepolo di Santa Caterina da Siena (+1380), il B. Giovanni Dominici (+1419), maestro di S. Scrittura a Firenze e più tardi cardinale. I
due volenterosi fratelli furono mandati prima a impratichirsi della vita
domenicana nel convento di Fiesole, dove vestirono l’abito religioso
rispettivamente con il nome di Fra Giovanni da Fiesole e di Fra Benedetto, poi
a fare il noviziato nel convento di Cortona (1408), e quindi di nuovo in quello
di Fiesole, in compagnia di un futuro santo. Antonino Pierozzi (+1459), dove si
prepararono al sacerdozio nella preghiera, nello studio e nell’osservanza della
regola.
In quel tempo la Chiesa era perturbata
dal grande Scisma d’Occidente, provocato dall’elezione avvenuta a Fondi nel
1378 dell’antipapa Clemente VII da parte di tredici cardinali ribelli a Urbano
VI (+1389). La Chiesa cattolica venne a trovarsi con doppio papato, uno romano
e uno avignonese, e con doppia obbedienza, una urbanista e una clementina. Per
fare cessare la confusione babelica, nel 1409 dai cardinali fu radunato a Pisa
un concilio allo scopo di indurre i due pontefici a mettersi d’accordo. Essendo
riusciti vani i loro sforzi dessero un terzo papa: Alessandro V. I Domenicani
della riforma del B. Dominici, per rimanere fedeli a Gregorio XII, papa romano,
si trasferirono a Foligno (Perugia), sua roccaforte, nel convento di San
Domenico.
Fra Giovanni da Fiesole si preparò a
diventare sacerdote e predicatore non tanto con la parola, come avrebbe fatto
S. Antonino, quanto con il pennello. Nel 1414, a causa di una pestilenza, la
comunità del beato fu costretta ad emigrare a Cortona. Fu nel convento di questa
cittadina che Fra Giovanni, salito al sacerdozio, diede inizio alla sua
prodigiosa attività artistica, che sarà interrotta soltanto dalla morte. Il
quadro dell’Annunciazione che vi dipinse in quel tempo per il battistero della
cattedrale, è considerato una delle più belle creazioni artistiche di lui,
mistico pittore, che i suoi estimatori chiameranno con ragione Beato Angelico.
Nel 1418 alla sua comunità fu dato il permesso dal vescovo di Firenze di fare
ritorno al convento fiesolano, centro della riforma domenicana. La Chiesa aveva
ormai ritrovato la sua unità nella persona di Martino V (+1431), eletto papa
nel concilio radunato a Costanza nel 1417 dall’imperatore e re di Germania
Sigismondo di Lussemburgo (+1437).
Il Beato Angelico a Fiesole sostò per
circa diciott’anni. Ebbe così modo di perfezionarsi nell’arte del governo – fu
difatti eletto prima vicario e poi priore del suo convento – ma soprattutto
nell’arte della pittura, nello studio della natura, nella selezione delle terre
da impastare per la coloritura dei quadri e nella tempera. Benché vivesse in un
periodo di transizione tra la scuola di derivazione giottesca e i realisti del
quattrocento, egli, senza lasciarsi distrarre da altre tendenze artistiche,
seguì la sua via nell’intento di porre le basi di una forma moderna di arte
sacra d’impianto rinascimentale. E benché rivelasse attitudine a trattare anche
argomenti profani, si dedicherà sempre alla composizione di celestiali figure
di Madonne, di angeli e di santi o di personaggi in relazione con la religione
o il mondo trascendentale. Poiché tendeva seriamente alla santità, esercitava
la pittura come un apostolato. Secondo la sua indole pia e mite, amorevole e
casta, egli era incapace di rappresentare il male e persino di ritrarre i personaggi
dall’aspetto truce, malvagio e violento. Le sue tavole, i suoi trittici più
espressivi saranno quelli che dipingerà senza corposi plasticismi per suscitare
nei credenti sentimenti di fede, di pietà e di amore. Il Card. Celso Costantini
(+1958) definì i suoi quadri “estasi serene di un’anima santa”.
Durante la lontananza del beato dalla
Toscana, l’arte si era evoluta da forme gotiche a forme più realistiche sotto
la spinta specialmente del Masaccio (+1428), pittore, del Brunelleschi (+1446),
architetto e scultore, e del Donatello (+1466), scultore. Fra Giovanni da
Fiesole seppe trarre profitto dagli intenti di tanti artisti tutti protesi alla
ricerca della prospettiva, del rilievo e dell’espressione.
Nel 1436 Cosimo il Vecchio de’ Medici
(+1464) concesse la chiesa e il convento di San Marco in Firenze ai Domenicani
che, come quelli di Fiesole, seguivano la riforma del B. Dominici. I locali
caduti in abbandono furono in gran parte dati da rifare all’architetto
Michelozzo Michelozzi (+1472) e da affrescare al Beato Angelico e ai suoi
aiutanti, tra i quali emergevano Zenobi Strozzi (+1471) e Benozzo Gozzoli
(+1497). Benché gli fosse affidata la carica di economo del convento, egli,
fino al 1445, lavorò con alacrità per adornare le celle dei confratelli in uno
stile molto semplificato con una stupenda serie di affreschi riproducenti le
più belle scene della vita del Signore. Chiude il ciclo pittorico con la grande
Crocifissione della sala del capitolo che rappresenta una delle più alte
vette alle quali sia mai giunta la pittura cristiana. Aveva quindi ragione
Giorgio Vasari (+1574), pittore e architetto, di scrivere nelle sue Vite de’
più eccellenti architetti, scultori e pittori: “L’Angelico superò se
stesso e mostrò la somma virtù sua e l’intelligenza dell’arte; tutta l’opera
sembra di mano di un santo”. E ancora: “L’Angelico non fece mai
Crocifissi senza bagnarsi di lacrime le gote, onde si conosce dai volti e dagli
atteggiamenti delle sue figure la bontà del sincero e grande animo suo nella
religione cristiana”.
Quando Eugenio IV, presente a Firenze
dalla fine del 1438 per presiedere il 17° Concilio che doveva trattare
dell’unione dei greci con la Chiesa Cattolica, andò a consacrare la nuova
chiesa dei Domenicani di San Marco, nell’ammirare i primi affreschi del geniale
Angelico, pensò all’opportunità di chiamarlo a Roma per fargli dipingere
un’edicola nella basilica di San Pietro e decorare in Vaticano la cappella del
SS. Sacramento. La volontà del Sommo Pontefice gli fu comunicata dal suo santo
priore, il P. Antonino Pierozzi. Da buon religioso Fra Giovanni accolse
l’invito con prontezza, felice anche di potere contribuire alle necessità del
suo Ordine con i proventi della sua arte. Il Vasari rimase edificato del suo
spirito di povertà. Di lui affermò che “poteva essere ricco e non se ne
curò perché, diceva, che la vera ricchezza è contentarsi del poco”. A Roma
si stabilì nel convento di Santa Maria sopra Minerva in cui risiedevano i
confratelli suoi che lavoravano già in Vaticano. La Cappella del SS.
Sacramento, fatta abbattere in seguito da Paolo III, al dire di un anonimo, era
stata trasformata “in un Paradiso” per la grazia somma e la modestia
delle persone da lui raffigurate.
Eugenio IV rimase tanto soddisfatto
del lavoro pittorico dell’Angelico che, per dimostrargli la sua riconoscenza,
avrebbe voluto nominarlo vescovo di Firenze al posto del defunto Mons.
Zabardella (+1446), ma l’umile figlio di San Domenico, che si sentiva chiamato da Dio a glorificare
il suo nome con le splendide scene delle sue pitture, declinò il compito al
quale non si sentiva preparato. Propose tuttavia al sommo pontefice di
destinare a quella carica il P. Antonino Pierozzi che tutti chiamavano
“Antonino dei consigli” per la saggezza di cui dava continuamente
prova nelle relazioni con i confratelli e nei contatti con i penitenti. Il papa
accolse il suggerimento del beato. S. Antonino per Firenze fu una vera
benedizione.
Alla morte di Eugenio IV (+1447), i
cardinali, radunati nel convento di Santa Maria sopra Minerva, elessero come
suo successore il dotto domenicano Tommaso Parentucelli da Sarzana,
bibliotecario di San Marco prima di essere elevato alla porpora. Assunse il
nome di Niccolò V (+1455). Pochi mesi dopo la sua elezione al sommo pontificato
il Beato Angelico, dal signore guelfo di Orvieto (Perugia), Monaldeschi,
tramite l’Opera del Duomo, fu chiamato ad affrescarvi con l’aiuto di B.
Gozzoli, la volta della cappella Nuova o della Madonna di San Brizio al prezzo
di 200 ducati d’oro. Il lavoro, lasciato interrotto, fu compiuto più tardi da
Luca Signorelli (+1523) il quale, con stile possente, raffigurò nella cappella
il dramma dei Novissimi (1499-1504).
Tornato a Roma, il papa affidò al suo
celebre confratello il compito di affrescare il suo studio con le storie del
martirio dei santi Stefano e Lorenzo. Con questo suo ultimo capolavoro il beato
raggiunse una somma epicità nel calmo svolgersi dell’azione entro quinte
architettoniche sobriamente classicheggianti, tra cui campeggiano persone
rivestite di splendidi abiti e preziosi ornamenti. L’artista acquistò così,
secondo Roberto Papini, storico dell’arte, una profondità e vastità di scenari
che prima gli era ignota, e i suoi personaggi terreni, che si muovono nella
vita dei due santi martiri, si nutrono di una sensibile e commossa umanità che
le sue creature, prima prese tutte nell’estasi dei cieli, non avevano ancora
raggiunto.
Il 20-4-1955 Pio XII, a distanza di
cinque secoli dalla scomparsa del grande pittore domenicano, gli tributò un
solenne elogio in occasione della speciale mostra di mirabili opere di lui,
nelle stanze di Raffaello, presso la cappella Niccolina. “Accogliendo
nella nostra dimora, in numero così cospicuo, i capolavori di Fra Giovanni da
Fiesole, non abbiamo soltanto inteso di tributare singolare testimonianza di
ammirazione al genio di chi seppe assurgere alle somme vette dell’arte, traendo
le ispirazioni dai misteri della fede, ma di ravvisare altresì il messaggio
profondamente religioso ed umano che egli ha predicato col suo pennello alle
generazioni coeve e alle future, non stanche mai di contemplare le sue mistiche
visioni, ove bellezza e armonia quasi trascendono i vertici dell’umano per
aprire come uno spiraglio nei cieli”.
Di questo artefice della cultura
pittorica occidentale il papa disse che “nessun uomo retto ha posto mai in
dubbio gli attributi essenziali che universalmente gli sono riconosciuti :
essere l’Angelico un sommo pittore, di alta spiritualità, innovatore e geniale,
efficace, sincero e perfetto… Per l’Angelico, come per i veri e grandi geni,
non s’è mai data età in cui fosse sminuita l’alta ammirazione da lui riscossa
sia presso i dotti che in mezzo al popolo… Egli fu pronto e aperto
nell’assimilare le nuove correnti rinnovatrici dell’arte, adoperandosi affinchè
a questa fosse conservato il tradizionale carattere religioso nelle sue
finalità didattiche ed etiche”.
“Parimenti è stata collocata nel
vero la sua persona, sottraendola alla popolare e pia leggenda, secondo cui il
fervoroso Frate avrebbe dipinto i suoi santi, come assorto in inconsce estasi,
abbandonata la mano alla guida di esseri ultraterreni. Ciò però non significa
che la sua profonda religiosità, la sua serena e austera ascesi, nutrita da virtù
solide, da contemplazioni e da preghiere, non abbia esercitato un determinato
influsso nel dare all’espressione artistica quel potere di linguaggio, con cui
egli raggiunge immediatamente gli spiriti e, come più volte è stato notato nel
trasformare in preghiera la sua arte, essendo solito ripetere “che chi fa
cose di Cristo, con Cristo deve star sempre” (G. Vasari, Vite etc.,
Firenze 1878, t. II. p. 520).
“La schietta pietà dell’Angelico è
considerata a ragione una base essenziale della efficacia di lui; ma un secondo
fondamento deve ricercarsi nella sua cultura, cioè, nella dottrina
dell’universo appreso alla scuola della filosofia perenne e alla quale egli
aderiva con chiara e tranquilla certezza. Non pochi critici hanno giustamente
osservato come la dottrina tomistica si rispecchi nei suoi quadri, non solo per
il contenuto, ma anche per il metodo stilistico e tecnico”.
“Certamente la pittura
dell’Angelico è sempre religiosa: per i soggetti prescelti, ma altresì per il
modo e il metodo con cui le tratta. Assuefatto alla tranquilla disciplina
monastica e ognora sollecito delle perfezioni nelle intenzioni, nelle parole,
negli atti, cercherà di raggiungere anche nella tecnica dell’arte, che sarà
pertanto nitida e serena. Nella sua vita, come nei suoi dipinti, non vi saranno
momenti drammatici esteriori, bensì lotte inferiori in piena rassegnazione al
volere divino e in calma fiducia nella vittoria del bene. La luce stessa, che
sparge nello spazio e sui personaggi, non è misurabile tanto dalla quantità,
quanto dalla qualità di purezza; luce, per quanto è possibile, celeste”.
“Ma a che cosa, in sostanza, mira
il linguaggio pittorico che l’Angelico rivolge ai figli del suo secolo e dei
seguenti? Da un lato egli intende inculcare le verità della fede, persuadendo
gli animi con la forza della sua bellezza; dall’altro, si propone d’indurre i
fedeli alla pratica delle virtù cristiane, proponendo amabili ed attraenti
esempi. Per questo secondo scopo la sua opera diventa un messaggio perenne di cristianesimo
vivo e, sotto un certo aspetto, altresì un messaggio altamente umano, fondato
sul principio del potere transumanante della religione, in virtù del quale ogni
uomo, che viene a diretto contatto con Dio e i suoi misteri, torna ad essere
simile a Lui nella santità, nella bellezza, nella beatitudine: un uomo, cioè,
secondo i disegni primigenii del suo Creatore”.
“Una bontà positiva, inoltre,
avvolge ogni figura, siano angeli o santi religiosi o gente del popolo. Una
bontà materna traspare dalle sue Madonne, anche se assise nella maestà
monumentale del trono… Si direbbe anzi che egli stesso si dichiari incapace
di dar vita al torbido e alla malvagità. Costretto talvolta a far posto nel suo
mondo a questo elemento tenebroso della umana realtà, ne evita il più possibile
la diretta visione, come può riscontrarsi nel “Martirio dei Santi Cosma e
Damiano” e nel “Giudizio finale”, in cui la schiera dei dannati
è da taluni attribuita ad altre mani della sua scuola”.
Ultimati i lavori che gli erano stati
commissionati a Roma, il Beato Angelico fu trasferito dai superiori al
conventino di Fiesole all’inizio del 1452 in qualità di Priore. Dovendo
provvedere alle necessità dei confratelli riprese in mano i pennelli per
dipingere scene del Nuovo Testamento sugli sportelli dell’armadio in cui
venivano conservate le argenterie dell’Annunziata. Il Beato sperava di
concludere a Fiesole la sua giornata terrena, invece, Niccolò V, vinto dalla
nostalgia di averlo vicino, nel 1454 lo mandò a chiamare perché dipingesse un
bel “Giudizio finale” con uno stuolo di eletti che, scortati dagli
angeli, salissero giubilanti alla Gerusalemme celeste. Il santo religioso
obbedì, ma il 18 febbraio dell’anno successivo a Roma morì prostrato da una
grave forma di artrosi. Le sue reliquie sono custodite in Santa Maria sopra
Minerva accanto a quelle di S. Caterina da Siena.
Il modesto sepolcro del Beato Angelico
è chiuso da una lastra, sulla quale si vede scolpita la figura di lui,
“venerabile pittore Fra Giovanni”, “vero servo di Dio… e sommo
maestro”, secondo l’epigrafe attribuita a Fra Domenico da Corella, degno
di essere lodato, secondo l’epitaffio attribuito a Niccolò V, “non per
essere stato come Apelle, ma per aver donato ai tuoi poveri, a Cristo, quanto
guadagnò”.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 206-212.
http://www.edizionisegno.it/