Di Adolfo Tanquerey PARTE PRIMA I principii. Capitolo V. Dei mezzi generali di perfezione. § II. Della conoscenza di Dio e di sè stesso. 1° Ciò che dobbiamo conoscere di DIO. 2° Mezzi per acquistare questa conoscenza di DIO. Conclusione: l’esercizio della presenza di DIO. Necessità della conoscenza di noi stessi.
§ II. Della conoscenza di Dio e di sè
stesso.
432. Poichè la perfezione consiste
nell’unione dell’anima con Dio, è chiaro che, per arrivarvi, bisogna anzitutto
conoscere i due termini dell’unione, Dio e l’anima: la conoscenza di Dio
ci condurrà direttamente all’amore: noverim te ut amem te! la conoscenza
di noi stessi, facendoci stimare quel tanto di bene che Dio ha posto in
noi, ci ecciterà alla riconoscenza; e la vista delle nostre miserie e dei nostri
difetti, facendoci concepire un giusto disprezzo di noi stessi, produrrà
direttamente l’umiltà, noverim me, ut despiciam me, e quindi pure l’amor
si Dio, perchè l’unione con Dio non si opera se non nel vuoto di noi
medesimi.
I. Della conoscenza di
Dio 433-1.
433. Per amar Dio, bisogna prima di
tutto conoscerlo: nil volitum quin præcognitum. Quanto più dunque ci
applichiamo a studiarne le perfezioni, tanto più il nostro cuore s’infiamma
d’amore per lui, perchè tutto in lui è amabile: egli è la pienezza dell’essere,
pienezza di bellezza, di bontà e d’amore: Deus caritas est. È cosa
evidente. Resta quindi a determinare:
-
1° cio
che di Dio dobbiamo conoscere per amarlo;
-
2° come
giungere a questa affettuosa conoscenza.
1° CIÒ
CHE DOBBIAMO CONOSCERE DI DIO.
Di Dio dobbiamo conoscere tutti ciò che può farcelo ammirare ed amare, e
quindi la sua esistenza, la sua natura, i suoi attributi, le sue opere,
specialmente la sua vita intima e le sue relazioni con noi. Nulla
di ciò che riguarda la divinità è estraneo alla devozione: anche le stesse
verità più astratte hanno un lato affettivo che aiuta singolarmente la pietà.
Dimostriamolo con alcuni esempi tratti dalla filosofiz e dalla teologia.
434. A) Verità
filosofiche. a) Le prove metafisiche
dell’esistenza di Dio sono certo molto astratte, pure sono una miniera di
preziose riflessioni che conducono all’amor di Dio. Dio, primo motore
immobile, atto puro, è la fonte d’ogni movimenti; dunque io non posso muovermi
che in Lui e per Lui; dunque deve essere il primo principio, ne deve pur essere
l’ultimo fine: Ego sum principium et finis. Dio è la causa prima
di tutti gli esseri, di tutto ciò che v’è di buono in me, delle nostre facoltà,
dei nostri atti: a Lui solo dunque ogni onore e ogni gloria! Dio è l’Essere
necessario, ikl solo necessario “unum necessarium”; e quindi il solo
bene da cercare; tutto il resto è cosa contingente, accessoria, passeggiera, e
non può essere utile che in quanto ci conduce a quest’unico necessario. Dio è
l’infinita perfezione e le creature non sono che un pallido riflesso
della sua bellezza, è quindi Lui l’ideale a cui mirare: “Estote
perfecti sicut et Pater vester cælestis perfectus est” 434-1; onde noi non dobiamo mettere alcun
limite alla nostra perfezione: “Io che sono infinito, diceva Dio a
S. Caterina da Siena, vado cercando opere infinite, vale a dire un infinito
sentimento d’amore” 434-2.
435. b) Se passiamo poi alla
natura divina, il poco che ne conosciamo ci distacca dalle creature e da
noi stessi per innalzarci a Dio. Dio è la pienezza dell’essere: “Ego sum qui
sum”; il mio essere non è dunque che un essere mutuato, incapace di
sussistere da sè, e che deve riconoscere la sua assoluta dipendenza
dall’Essere divino. Questo egli voleva inculcare a S. Caterina da Siena,
quando le diceva: “Sai, o figlia mia, ciò che sei tu e ciò che sono io?… Tu
sei quella che non è e Io sono Colui che è”. Qual lezione d’umiltà e d’amore!
436. c) Lo nesso è degli
attributi divini; non ve n’è alcuno che, ben meditato, non serva a
stimolare il nostro amore sotto una forma o sotto un’altra: la divina
semplicità ci eccita a praticare quella semplicità o purità d’intenzione che
ci fa tendere direttamente a Dio, senza alcun egoistico riguardo a noi stessi;
la sua immensità che ci avvolge e compenetra, è il fondamento di
quell’esercizio della presenza di Dio che è così caro e così proficuo alle anime
pie; la sua eternità ci distacca da tutto ciò che passa, rammentandoci
che ciò che non è eterno è nulla: “quod æternum non est nihil est”; la
sua immutabilità ci aiuta a praticare, in mezzo alle umane vicissitudini,
quella calma tanto necessaria all’intima e durevole unione con Dio; la sua
infinita attività stimola la nostra e c’impedisce di cadere nella
noncuranza o in una specie di pericoloso quietismo; la sua onnipotenza,
posta a servizio della infinita sua sapienza e della
misericordiosa sua bontà, ci ispira una filiale confidenza che
agevola in modo singolare la preghiera e il santo abbandono; la sua
santità ci fa odiare il peccato e amare quella purità di cuore che
conduce all’unione intima con Dio: “Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum
videbunt”; la infallibile sua verità è il più saldo fondamento
della nostra fede; la sua bellezza, la sua bontà, il suo
amore ci rapiscono il cuore e vi destano palpiti d’amore e di
riconoscenza. E quindi le anime sante si dilettano di inabissarsi nella
contemplazione dei divini attributi: ammirando e adorando le perfezioni di Dio,
ne attraggono qualche cosa nell’anima loro.
437. B) Si dilettano
principalmente di contemplare le verità rivelate, che riguardano tutte la
storia della vita divina: la sua fonte nella SS. Trinità; le
sue prime comunicazioni con la creazione e la santificazione dell’uomo;
la sua restaurazione con l’Incarnazione; la attuale sua
diffusione con la Chiesa e coi Sacramenti; il suo compimento
finale nella gloria. Ognuno di questi misteri le rapisce e le infiamma d’amore
per Dio, per Gesù, per le anime, per tutte le cose divine.
438. a) La vita divina nella
sua fonte è la SS. Trinità: Dio, che è la pienezza dell’essere e
della carità, contempla se stesso da tutta l’eternità; contemplandosi produce il
Verbo, e questo Verbo è suo Figlio, distinto da Lui ma a Lui perfettamente
uguale, vivente e sostanziale sua immagine. Dio Padre ama questo Figlio e ne è
riamato; e da questo mutuo amore scaturisce lo Spirito Santo, distinto dal Padre
e dal Figlio dai quali procede, e perfettamente uguale all’uno e all’altro. A
questa vita noi partecipiamo!
439. b) Essendo infinitamente
buono, Dio vuole comunicarsi ad altri esseri: il che fa con la creazione
e principalmente con la santificazione. Per la creazione noi siamo servi
di Dio, ciò che è per noi già un grande onore; che Dio infatti abbia pensato a
me da tutta l’eternità e m’abbia scelto tra miliardi di esseri possibili per
darmi l’esistenza, la vita, l’intelligenza, qual motivo d’ammirazione, di
riconoscenza e d’amore! Ma che m’abbia poi chiamato a partecipare alla sua vita
divina, che m’abbia adottato in figlio, che mi destini alla chiara visione della
sua essenza e a un amore infinito, o non è questo il colmo della carità? E non
sarà un potente motivo d’amarlo senza riserva?
440. c) Per colpa del primo
padre avevamo perduto i diritti alla vita divina ed eravamo incapaci di
ricuperarli da noi stessi. Ma ecco che il Figlio di Dio, vedendo la
nostra miseria, si fa uomo come noi, e diventando il capo di un corpo
mistico di cui noi siamo le membra, espia i nostri peccati con la dolorosa sua
passione e morte di Croce, ci riconcilia con Dio, e fa di nuovo scorrere nelle
anime nostre una partecipazione di quella vita da lui attinta nel seno del
Padre. Vi è qualche cosa di più atto a farci amare il Verbo Incarnato, a unirci
strettamente a Lui, e per Lui al Padre?
441. d) Ad agevolare questa
unione, Gesù continua a restare con noi; vi resta per mezzo della Chiesa
che ce ne trasmette e ce ne spiega gli insegnamenti. Vi resta per mezzo dei
Sacramenti, misteriosi canali della grazia che ci comunicano la vita
divina. Vi resta principalmente per mezzo dell’Eucaristia, in cui Gesù
perpetua nello stesso tempo la sua presenza, la benefica sua azione e il suo
sacrifizio: il suo sacrifizio nella Santa Messa, ove rinnova in modo
misterioso la sua immolazione; la benefica sua azione nella
Comunione, in cui viene con tutti i suoi tesori di grazia a perfezionare l’anima
nostra e a comunicarle le sue virtù; la permanente sua presenza,
imprigionandosi volontariamente, giorno e notte, nel tabernacolo, ove possiamo
visitarlo, conversare con lui, glorificare con lui l’adorabile Trinità, trovare
in lui la guarigione delle nostre spirituali ferite e il conforto nelle nostre
tristezze e nei nostri abbattimenti: “Venite ad me omnes qui laboratis et
onerati estis, et ego reficiam vos” 441-1.
442. e) E questo non è che il
preludio della vita consumata in Dio che godremo per tutta l’eternità; lo
vedremo un di a faccia a faccia, come egli vede se stesso, e l’ameremo con
perfetto amore; e vedremo e ameremo in lui tutto ciò che vi è di grande e di
nobile. Usciti da Dio con la creazione, a lui ritorniamo con la glorificazione,
e glorificandolo troviamo la perfetta felicità.
Il domma è dunque la fonte della vera devozione e l’alimento; ci rìmane ora a
dire che modo dobbiamo giovarcene sotto questo rispetto.
2°
MEZZI PER ACQUISTARE QUESTA CONOSCENZA DI DIO.
443. Tre mezzi principali ci sì
presentano per acquistare questa affettuosa conoscenza di Dio:
-
1° Il
pio studio della filosofia e della teologia;
-
2° la
meditazione o l’orazione;
-
3° L’abitudine
di veder Dio in tutte le cose.
A) Il pio studio della teologia. Si può
studiare la filosofia e la teologia in due modi: con la mente soltanto,
come si studia ogni altra scienza, oppure con la mente e insieme col
cuore. Quest’ultimo modo è quello che genera la pietà. Quando
S. Tommaso s’immergeva nello studio profondo delle grandi questioni
filosofiche e teologiche, non lo faceva come uno dei savi della Grecia, ma come
discepolo e amante di Cristo; a questo modo, secondo la sua espressione, la
teologia tratta delle cose divine e degli atti umani in quanto ci conducono alla
perfetta conoscenza di Dio e quindi all’amore: “de quibus agit secundum quod
per eos ordinatur homo ad perfectam Dei cognitionem, in quâ æterna
beatitudo consistit” 443-1. Ecco perchè la sua pietà superava anche
la sua scienza. Lo stesso avveniva di S. Bonaventura e dei grandi
teologi. È vero che la maggior parte di essi non lasciarono pie riflessioni sui
grandi misteri della fede, tenendosi paghi di esporli e di provarli; ma la pietà
scaturisce dal fondo stesso di queste verità: e chiunque studi con spirito di
fede, non può fare che non ammiri ed ami Colui la cui grandezza e bontà ci
viene rivelata dalla teologia. La qual cosa è specialmente vera per coloro che
sanno giovarsi dei doni della scienza e dell’intelletto;
dei quali il primo ci fa risalire dalle creature a Dio, svelandocene le
relazioni con la divinità; e il secondo ci fa penetrare nelle verità rivelate,
per coglierne le mirabili armonie.
Con l’aiuto di questi lumi, il pio teologo saprà elevarsi dalle verità più
speculative ad atti di adorazione, di ammirazione, di riconoscenza e di amore
che sgorgano spontaneamente dallo studio dei dommi cristiani. Questi atti non
solo non ne intorpidiranno l’attività intellettuale, ma anzi la affineranno e la
stimoleranno: si studia meglio, con maggior attività e costanza, ciò che si ama;
vi si scoprono profondità che l’intelligenza sola non riuscirebbe a penetrare; e
se ne deducono conseguenze che allargano il campo della teologia, alimentando la
pietà.
444. B) Allo studio però bisogna
aggiungere la meditazione. Non si meditano abbastanza i dommi cristiani,
o almeno non se ne meditano spesso se non gli aspetti accessori. Non bisogna
paventare di affrontarli direttamente e nel loro fondo come soggetto
principale delle nostre meditazioni 444-1. Avviene allora che l’anima, alla luce
della fede, sotto l’azione dello Spirito Santo, tocca altezze e scopre
profondità che l’intelligenza sola non coglierebbe. Ne abbiamo la prova negli
scritti di anime semplici, elevate alla contemplazione, che ci lasciarono su
Dio, su Gesù Cristo, sulla sua dottrina, sui suoi sacramenti, osservazioni tali
da gareggiare con quelle dei migliori teologi. Del resto non disse
S. Tommaso di aver imparato più alla scuola del Crocifisso che nei
libri dei dottori? La ragione è che, nel silenzio e nella calma dell’orazione,
Dio parla più facilmente al cuore, e che la sua parola, meglio intesa, illumina
l’intelligenza, riscalda il cuore e scuote la volontà. In tali momenti lo
Spirito Santo si degna di comunicare, oltre i doni della scienza e
dell’intelletto, anche quello della sapienza, che fa assaporare le
verità della fede, le fa amare e praticare, formando così una strettissima
unione tra l’anima e Dio. È quello che venne sì bene descritto dall’autore
dell’Imitazione 444-2: “Beata l’anima che ascolta il Signore
parlargli interiormente e riceve dalla sua bocca parole di consolazione:
Beata anima quæ Dominus in se loquentem audit, et de ore ejus verbum
consolationis accipit…”
Il frequente e affettuoso pensiero di Dio durante il giorno continua e compie
i felici effetti dell’orazione: pensando a Dio lo amiamo di più e l’amore affina
la nostra conoscenza.
445. C) Allora si contrae più
facilmente l’abitudine di innalzarsi dalle creature al Creatore, e di veder Dio
in tutte le sue opere: le cose, le persone, gli
avvenimenti.
Il fondamento di questa pratica è l’esemplarismo divino, insegnato da
Platone, perfezionato da S. Agostino e da S. Tommaso, posto in luce
dalla Scuola di S. Vittore e ripreso poi dalla Scuola francese di
spiritualità del secolo XVII 445-1. Tutte le cose esistono nel pensiero di
Dio prima di essere create: Dio le concepì nella sua intelligenza prima di
produrle al di fuori e volle che fossero, in gradi diversi, un riflesso delle
divine sue perfezioni. Se contempliamo quindi le cose create non solo con gli
occhi del corpo ma anche con gli occhi dell’anima, al lume della fede vedremo:
a) che tutte le creature, secondo il grado di perfezione, sono o un
vestigio o un’immagine o una somiglianza di Dio; che tutte ci dicono di aver Dio
per autore e c’invitano a lodarlo, non essendo tutto l’essere che è in loro,
tutta la loro bellezza e tutta la loro bontà, che una creata e finita
partecipazione dell’essere divino;
b) che specialmente le creature intelligenti, elevate
all’ordine soprannaturale, sono immagini, sono viventi somiglianze di Dio, che
ne partecipano, benchè in modo finito, la vita intellettuale; che essendo tutti
i battezzati membri di Cristo, Lui dobbiamo vedere in loro: in omnibus
Christus;
c) che tutti gli avvenimenti, lieti o tristi, sono nel pensiero
divino destinati a perfezionare la vita soprannaturale da lui comunicataci e a
facilitare la raccolta degli eletti, così che di tutto possiamo giovarci per
santificarci.
Aggiungiamo tuttavia che, nell’ordine cronologico, le anime vanno
prima a Gesù Cristo, e solamente per lui vanno al Padre, e che, arrivate a Dio,
non lasciano di tenersi strettamente unite a Gesù.
CONCLUSIONE:
L’ESERCIZIO DELLA PRESENZA DI
DIO 446-1.
446. L’affettuosa conoscenza di Dio
ci conduce al santo esercizio della presenza di Dio, di cui indicheremo
brevemente il fondamento,
la pratica
e i vantaggi.
A) Il fondamento è la dottrina
dell’onnipresenza di Dio. Dio è da per tutto non solo con lo sguardo e
con l’operazione ma anche con la sostanza. Come diceva S. Paolo agli
Ateniesi, “in lui noi abbiamo la vita, il movimento e l’essere: in ipso enim
vivimus, movemur et sumus;” 446-2 il che è vero così sotto l’aspetto
naturale come sotto il soprannaturale. Come Creatore, dopo averci dato
l’essere e la vita, ce li conserva, e col suo concorso mette in moto le nostre
facoltà; come Padre, ci genera alla vita soprannaturale, che è una
partecipazione della stessa sua vita, e lavora con noi, come causa
principale, alla sua conservazione e al suo incremento, onde sì trova
intimamente presente in noi, fin nel centro dell’anima, senza però lasciare di
essere distinto da noi. È come già dicemmo al n. 92,
il Dio della Trinità che vive in noi, il Padre che ci ama come figli, il
Figlio che ci tratta come fratelli, e lo Spirito Santo che ci dà e
i suoi doni e la sua persona.
B) La pratica. Per trovar dunque Dio
non occorre che andiamo a cercarlo in cielo, perchè lo troviamo:
a) vicinissimo a noi nelle creature che ci circondano; in
queste andiamo da principio a cercarlo: tutte infatti ci richiamano qualcuna
delle divine perfezioni, massime le creature che, dotate d’intelligenza,
possiedono in sè il Dio vivente (n. 92);
tutte ci servono come di scalini per giungere a lui; b) rammentiamo
poi ch’egli è vicinissimo a coloro che lo pregano con fiducia: “Prope est
Dominus omnibus invocantibus eum” 446-3; e l’anima nostra si diletta di
invocarlo ora con semplici giaculatorie ora con preghiere più lunghe.
c) Ma soprattutto rammentiamo che le tre divine persone abitano in noi
e che il nostro cuore è un tabernacolo vivente, un cielo ove esse già si danno a
noi. Ci basta quindi rientrare in noi stessi, nella cella interiore, come
dice S. Caterina da Siena, e fissare con l’occhio della fede l’ospite
divino che si degna abitarvi. Allora vivremo sotto il suo sguardo, sotto la sua
azione, l’adoreremo e lavoreremo con lui alla santificazione dell’anima nostra.
447. C) È facile scorgere
quali siano i vantaggi di questa pratica rispetto alla nostra
santificazione.
a) Ci fa diligentemente schivare il peccato. Chi mai oserebbe
offendere la divina maestà nel momento stesso che sa che Dio abita in lui con la
infinita sua santità che non può soffrire la minima macchia, con la sua
giustizia che l’obbliga a punire anche le più piccole colpe, con la sua
potenza che arma il braccio contro il colpevole, e principalmente con la
sua bontà che sollecita il nostro amore e la nostra fedeltà?
b) Stimola il nostro ardore per la perfezione. Se un soldato
che combatte sotto gli occhi del generale si sente spinto a moltiplicar le
prodezze, come non sentirci pronti alle più dure fatiche, agli sforzi più
generosi, quando sappiamo di combattere non solo sotto lo sguardo di Dio ma con
la sua sempre vittoriosa collaborazione? come non sentirci animati dalla corona
immortale che ci promette e principalmente dall’aumento d’amore che ci dà come
ricompensa?
c) Quale confidenza non ci dà questo pensiero! Quali che siano
le prove, le tentazioni, le fatiche, le debolezze, non siam forse sicuri della
vittoria finale, quando rammentiamo che Colui che è la stessa onnipotenza e a
cui nulla resiste, vive in noi e mette a nostro servizio la divina stia virtù?
Possiamo certamente toccar parziali sconfitte, passar per dolorose angosce, ma
siamo sicuri che, appoggiati su di lui, trionferemo e che le stesse nostre croci
non servono che a farci maggiormente amar Dio e a moltiplicarci i meriti.
d) Finalmente qual gioia per noi il pensare che Colui che forma
la felicità degli eletti e che un dì contempleremo nel cielo, è già in nostro
possesso, e che possiamo goderne la presenza e conversar con lui nel corso di
tutto il giorno?
La conoscenza e il frequente pensiero di Dio sono dunque grandemente
santificanti; e lo stesso è della conoscenza di noi stessi.
II. Della conoscenza di noi stessi.
La conoscenza di Dio ci porta direttamente ad amarlo, perchè è
infinitamente amabile; la conoscenza di noi stessi vi ci porta
indirettamente, mostrandoci il bisogno assoluto che abbiamo di lui a
perfezionare le doti da lui largiteci e a rimediare alle profonde nostre
miserie. Esporremo dunque di questa conoscenza
-
1° la
necessità;
-
2° l’oggetto;
-
3° i
mezzi d’arrivarvi.
NECESSITÀ DELLA CONOSCENZA DI NOI STESSI.
Poche parole basteranno a convincercene.
448. A) Chi non conosce sè
stesso è nella morale impossibilità di perfezionarsi. Perchè allora uno
s’illude sul proprio stato, cadendo, secondo il proprio carattere o
l’ispirazione del momento, ora in un presuntuoso ottimismo che ci fa
credere di essere già perfetti, ora nello scoraggiamento che ci fa
esagerare i nostri difetti e le nostre colpe; nell’uno e nell’altro caso quasi
identico è il risultato, cioè l’inazione o almeno la mancanza di sforzi energici
e perseveranti, vale a dire il rilassamento. — D’altra parte come correggere
difetti che punto non si conoscono o si conoscono male, e come coltivare virtù e
doti di cui non si ha che una nozione vaga e confusa?
449. B) Invece la chiara e
sincera conoscenza dell’anima nostra ci sprona alla perfezione: le nostre
doti c’inducono a ringraziarne Dio, corrispondendo più
generosamente alla grazia; i nostri difetti e la coscienza della nostra
impotenza ci mostrano che abbiamo ancora molto da lavorare e che non convien
perdere occasione alcuna di progredire. Allora uno si giova di tutte le
occasioni per estirpare o almeno svigorire, mortificare, dominare i propri vizi,
per coltivare e svolgere le proprie doti. E avendo coscienza della propria
incapacità, si chiede umilmente a Dio la grazia di progredire ogni giorno, e,
sorretti dalla fiducia in Dio, si ha la speranza e il desiderio della buona
riuscita; il che dà slancio e costanza nello sforzo.
NOTE
433-1 Bossuet, Della
conoscenza di Dio e di sè stesso; Elevazioni sui Misteri; Meditazioni sul
Vangelo; L. Bail, Thèologie affective; Lessius, De perfectionibus moribusque divinis;
P. d’Argentan, Les
Grandeurs de Dieu; Contenson, Theologia mentis et cordis; Faber,
Il Creatore e la creatura, Il Prezioso Sangue (Salesiana,
Torino); Sauvé, Dieu intime, Jésus intime, L’homme intime, etc.;
P. Saudreau, O. P., Le Divine Parole; M. d’Herbigny,
La Théologie du révélé, c. VIII-XI;
P. R. Garrigou-Lagrange, Le Divine Perfezioni (Ferrari,
Roma).
434-1 Matth., V, 48. Parole
così commentate dal 4° Concilio Lat.: “Estote perfecti perfectione gratiæ
sicut Pater vester cælestis perfectus est perfectione naturæ” (Denzing.
432).
434-2 Dialog., I, p. 40.
trad. Hurtaud.
441-1 Matth., XI, 28.
443-1 Sum. Theol., I,
q. I, a. 4.
444-1 È appunto quello che fa la
scuola francese del secolo XVII, con Bérulle, Condren, Olier,
S. Giovanni Eudès e gli altri, come si può vedere in
H. Bremond, t. III.
444-2 Imit., l. III,
c. 1.
445-1 Si veda in particolare La
Journée chrétienne dell’Olier, ove questa dottrina è mirabilmente
applicata.
446-1 S. Tommaso, I,
q. 8, a. 3; Lessus, De Perfectionibus moribusque
divinis, l. II; Rodriguez, Pratica, P. I,
Tr. 6; P. Piny, O. P., La presenza di Dio. I tre
diversi modi per rendersi Dio presente, etc. (Marietti, Torino);
P. Plus, S. J., Dio in noi (Mariettl, Torino).
446-2 Atti, XVII, 28.
446-3 Ps., CXLIV, 18.