Di Adolfo Tanquerey PARTE PRIMA I principii. Capitolo IV. Dell’obbligo di tendere alla perfezione. III. La natura degli uffici sacerdotali esige la santità. 1° Il sacerdote religioso di DIO, dev’essere santo. 2° Il sacerdote non può salvare le anime senza mirare alla santità. Conclusione.
392. Secondo l’affermazione
dell’Apostolo S. Paolo, il sacerdote è mediatore tra l’uomo e Dio,
tra la terra e il cielo: scelto di tra gli uomini per esserne il
rappresentante, dev’essere gradito a Dio, chiamato da Lui, per
avere il diritto di comparirgli innanzi, di offrirgli gli ossequi degli uomini e
ottenerne benefici: “Omnis namque Pontifex, ex hominibus assumptus,
pro hominibus constituitur in iis quæ sunt ad Deum, ut offerat dona et
sacrificia pro peccatis… Nec quisquam sumit sibi honorem, sed qui vocatur a
Deo tanquam Aaron” 392-1. I suoi uffici si possono ridurre a due
principali: è il Religioso di Dio 392-2, incaricato di glorificarlo a nome
dell’intiero popolo cristiano; è un salvatore, un santificatore
d’anime, che ha la missione di collaborare con Gesù Cristo alla loro
santificazione e salute. Per questa doppia ragione dev’essere un santo 392-3, e quindi tendere incessantemente alla
perfezione, perchè non potrà mai conseguir perfettamente quella pienezza di
santità che è richiesta dai suoi uffici.
1° IL
SACERDOTE RELIGIOSO DI DIO, DEV’ESSERE SANTO.
393. In virtù della sua missione, il
sacerdote deve glorificar Dio in nome di tutte le creature e più
specialmente del popolo cristiano. È dunque veramente, in virtù del sacerdozio
quale fu istituito da Nostro Signore, il religioso di Dio “pro hominibus
constituitur in iis quæ sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia”. Questo
dovere egli adempie principalmente col santo sacrifizio della messa e con
la recita del Divino Officio; ma tutte le sue azioni, anche le più
comuni, possono contribuirvi, come già abbiamo detto, se sono fatte per piacere
a Dio. Or questa missione non può essere adempita che da un prete santo o
almeno disposto a diventarlo.
394. A) Quale santità si
richiede pel Santo Sacrificio? i sacerdoti dell’Antica Legge che volevano
accostarsi a Dio, dovevano essere santi (si tratta principalmente di
santità legale) sotto pena di venir puniti: “Sacerdotes, qui accedunt ad
Dominum, sanctificentur, ne percutiat eos” 394-1. Santi dovevano essere per poter offrire
l’incenso e i pani destinati all’altare: “Incensum enim Domini et panes Dei
sui offerunt, et ideo sancti erunt” 394-2.
Or quanto più santi, di interna santità, non devono essere coloro che
offrono non più ombre e figure ma il sacrificio per eccellenza, la vittima
infinitamente santa? Tutto è santo in questo divino sacrifizio: santi la vittima e il
sacerdote principale, che altri non è che Gesù, il
quale, come dice S. Paolo, “è santo, innocente, immacolato, segregato dai
peccatori, elevato al di sopra dei cieli: Talis decebat ut nobis esset
pontifex, sanctus, innocens, impollutus, segregatus a peccatoribus et excelsior
cælis factus” 394-3; santa la Chiesa, in cui
nome il sacerdote offre la santa mess, santificata da Cristo, a prezzo del suo
sangue “seipsum tradidit pro eâ ut illam sanctificaret… ut sit sancta et
immaculata” 394-4; santo il fine, che è di
glorificare Dio e di produrre nelle anime frutti di santità; sante le
preghiere e le cerimonie, che richiamano il sacrifizio del Calvario e gli
effetti di santità da lui meritati; santa specialmente la comunione,
che ci unisce alla fonte di ogni santità. — Non è dunque necessario che il sacerdote, il quale, come rappresentante di Gesù Cristo e della Chiesa,
offre questo augusto sacrifizio, sia egli pure rivestito di santità? Come
potrebbe rappresentar degnamente Gesù Cristo, così da essere alter
Christus, se mediocre ne fosse la vita e senza aspirazioni alla perfezione?
Come potrebbe essere ministro della Chiesa immacolata, se l’anima sua, attaccata
al peccato veniale, non si desse pensiero di spirituale progresso? Come potrebbe
glorificar Dio, se il suo cuore fosse vuoto d’amore e di sacrificio? Come
potrebbe santificar le anime, se non avesse egli stesso sincero desiderio di
santificarsi?
395. Come oserebbe salire il santo
altare e recitare le preghiere della messa, che spirano i più puri sentimenti di
penitenza, di fede, di religione, di amore, d’abnegazione, se l’anima sua ne
fosse aliena? Come potrebbe offrirsi con la vittima divina “in spiritu
humilitatis, et in animo contrito suscipiamur a te,
Domine” 395-1, se questi sentimenti fossero in
contraddizione con la sua vita? Con che coraggio chiedere di partecipare alla
divinità di Gesù “ejus divinitatis esse consortes”, se la nostra vita è
tutta umana? Come ripetere quella protesta d’innocenza: “Ego autem in
innocentia mea ingressus sum”, se non si fa sforzo alcuno per scuotere la
polvere di mille peccati veniali deliberati? Con che animo recitare il
Sanctus, in cui si proclama la santità di Dio, e consacrare
identificandosi con Gesù, autore d’ogni santità, se non c’è studio di
santificarsi con lui e per lui? Come recitare il Pater senza rammentare
che dobbiamo essere perfetti come il Padre celeste? E l’Agnus Dei, senza
avere un cuore contrito ed umiliato? E le belle preghiere preparatorie alla
comunione: “Fac me tuis semper inhærere mandatis et a te numquam separari
permittas”, se il cuore è lontano da Dio, lontano da Gesù? E come
sumere ogni giorno il Dio di ogni santità, senza il desiderio sincero di
partecipare a questa santità, di avvicinarvisi almeno ogni giorni con
progressivo sforzo? Non sarebbe questa un’aperta contraddizione, una mancanza di
lealtà, una provocazione, un abuso della grazia, un’infedeltà alla propria
vocazione? Si mediti dunque e si applichi a se stesso tutto il Capitolo V del 4°
Libro dell’Imitazione: DE DIGNITATE SACRAMENTI ET STATU
SACERDOTALI: “Si haberes angelicam puritatem et
S. J. Baptistæ sanctitatem, non esses dignus hoc sacramentum accipere
nec tractare… Non alleviasti onus tuum, sed arctiori jam alligatus es vinculo
disciplinæ, et ad majorem teneris perfectionem sanctitatis”.
396. B) Quanto abbiamo detto
della santa messa può applicarsi, in un certo senso, alla recita del divino
Ufficio. In nome della Chiesa, in unione con Gesù il grande
religioso di Dio, e per l’intiero popolo cristiano, compariamo sette volte al
giorno davanti a Dio, per adorarlo, ringraziarlo, e ottenerne le numerose grazie
di cui le anime hanno bisogno. Se preghiamo con la punta delle labbra e non col
cuore, non meriteremo forse il rimprovero che Dio fa ai Giudei: “Questo popolo
mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me: populus hic labiis
me honorat, cor autem eorum longe est a me” 396-1? E le grazie che, allo stesso modo,
sollecitiamo dalla divina misericordia, ci saranno forse copiosamente largite?
397. Così pure, per trasformare le
nostre azioni ordinarie in vittime accette a Dio, non occorre forse
compirle con le già indicate disposizioni d’amore e di sacrificio? (n. 309).
— Da qualunque lato si consideri la cosa, sorge sempre la stessa conclusione:
come Religioso di Dio, il sacerdote deve mirare alla santità. Ciò che è pure
necessario se vuole salvar le anime.
2° IL
SACERDOTE NON PUÒ SALVAR LE ANIME SENZA MIRARE ALLA SANTITÀ 398-1.
398. A) Santificare e salvare
le anime, tal è il dovere del proprio stato per un sacerdote. Quando Gesù
sceglie gli apostoli, li sceglie per farne pescatori d’uomini “faciam vos
fieri piscatores hominum” 398-2; perchè producano in sè e negli
altri copiosi frutti di salute: “Non vos me elegistis, sed ego elegi vos ut
eatis et fructum afferatis et fructus vester maneat” 398-3. A questo fine devono predicare il
Vangelo, amministrare i sacramenti, dar buon esempio e pregar con fervore.
Ora è di fede che ciò che converte e santifica le anime è la grazia di
Dio; noi non siamo che strumenti di cui Dio si degna servirsi ma che
non producono frutto se non in proporzione della loro unione colla causa
principale, instrumentum Deo conjunctum. Tal è la dottrina di
S. Paolo: “Io piantai, Apollo irrigò, ma Dio fece crescere. Quindi nè chi
pianta è qualchecosa, nè chi irriga, ma chi fa crescere, Dio: Ego plantavi,
Apollo rigavit, sed Deus incrementum dedit; itaque neque qui plantat est aliquid
neque qui rigat; sed qui incrementum dat, Deus” 398-4. D’altra parte è certo che questa grazia
s’ottiene principalmente con due mezzi, con la preghiera e col
merito. Nell’uno e nell’altro caso noi otteniamo tanto maggiori grazie
quanto più siamo santi, più ferventi, più uniti a Nostro Signore
(n. 237).
Se dunque il dovere del nostro stato è di santificar le anime, vuol dire che
dobbiamo prima santificar noi stessi: “Pro eis ego sanctifico meipsum ut sint
et ipsi sanctificati in veritate” 398-5.
399. B) Arriviamo del resto
alla stessa conclusione, facendo passare i principali mezzi di zelo, cioè
la parola, l’azione, l’esempio e la preghiera.
a) La parola non produce salutari effetti se non quando
parliamo in nome e nella virtù di Dio, “tamquam Deo exhortante per
nos” 399-1. Così fa il sacerdote fervoroso:
prima di parlare, prega affinchè la grazia avvivi la sua parola;
parlando, non mira a piacere ma a istruire, a far del bene, a convincere, a
persuadere; e perchè il suo cuore è intimamente unito a quello di Gesù, fa
vibrar nella voce un’emozione, una forza di persuasione, che scuote gli uditori;
e perchè, dimenticando sè stesso, attira lo Spirito Santo, le anime
restano tocche dalla grazia e convertite o santificate. Un sacerdote mediocre
invece non prega che a fior di labbra, e perchè cerca sè stesso, per quanto si
venga sbracciando, non è spesso che un bronzo sonoro o un cembalo fragoroso,
“æs sonans aut cymbalum tinniens” 399-2.
400. b) Il buon
esempio non può essere dato che da un sacerdote sollecito del suo
progresso spirituale. Allora può con tutta fiducia invitare, come S. Paolo,
i fedeli a imitar lui come egli si studia d’imitar Cristo: “Imitatores mei
estote sicut et ego Christi” 400-1. Vedendone la pietà, la bontà, la
povertà, la mortificazione, i fedeli dicono: è un sacerdote convinto, un
Santo; lo rispettano e si sentono tratti ad imitarlo: verba movent,
exempla trahunt. Un sacerdote mediocre potrà essere stimato come un
brav’uomo; ma si dirà: fa il suo mestiere come noi facciamo il nostro; e il
ministero ne sarà poco o punto fruttuoso.
401. c) Quanto alla
preghiera, che è e sarà sempre il più efficace mezzo dello zelo, qual
differenza tra il sacerdote santo e il sacerdote ordinario? Il primo prega
abitualmente, costantemente, perchè le sue azioni, fatte per Dio, sono in
sostanza una preghiera; non fa nulla, nè dà consiglio, senza riconoscere la
propria incapacità e pregar Dio di supplirvi con la sua grazia. Dio copiosamente
gliela concede “humilibus autem dat gratiam” 401-1, e il suo ministero è fruttuoso. Il
sacerdote ordinario prega poco e prega male; quindi anche il ministero ne è
sterile.
Chi dunque vuol efficacemente lavorare alla salute delle anime, deve
sforzarsi di quotidianamente progredire: la santità è l’anima
dell’apostolato.
CONCLUSIONE.
402. Da tutti questi documenti
risulta che il sacerdote deve, prima d’entrare nel sacerdozio, avere acquistato
un certo grado di santità, e che, divenuto sacerdote, deve continuare a
progredire verso perfezione sempre maggiore.
1° Per entrare nel sacerdozio, bisogna aver già acquistato un certo grado di
perfezione. È quanto si ricava da tutti i testi del Pontificale da noi
citati. Infatti si richiede già dal tonsurato il distacco dal mondo e da sè
stesso per attaccarsi a Dio e a Gesù Cristo; e se la Chiesa prescrive degli
interstizi tra i vari ordini, è perchè il giovane chierico abbia il tempo
d’acquistare a mano a mano le varie virtù che corrispondono a ognun di essi. Lo
dice chiaramente il Pontificale: 402-1 “Atque ita de gradu in gradum
ascendant, ut in eis, cum ætate, vitæ meritum et doctrina major accrescat”.
Ecco perchè si vuole da lui una virtù provata “quorum probata virtus
senectus sit” 402-2. Or questa virtù provata non si acquista
che con la assidua pratica dei doveri del proprio stato, delle virtù che il
Pontefice viene premurosamente indicando all’Ordinando in ogni ordine che gli
conferisce. Dev’essere virtù talmente solida da rassomigliare a quella
dei vecchi (senectus sit), i quali con lunghi e penosi sforzi hanno
acquistato la maturità e la costanza propria della loro età.
403. Non è dunque una virtù quale
che sia, dice S. Tommaso 403-1, quella che è richiesta per l’esercizio
del ministero ecclesiastico, ma virtù eccellente: “Ad idoneam executionem
ordinum non sufficit bonitas qualiscumque, sed requiritur bonitas
excellens”. Abbiamo visto infatti che il Pontificale esige dagli
Ordinandi la pratica d’una fede robusta ed operosa, d’una grande confidenza in
Dio, d’un’amor di Dio e del prossimo che giunga fino al sacrifizio, senza
parlare delle virtù morali della prudenza, della giustizia, della religione,
dell’umiltà, delle temperanza, della fortezza, della costanza; le quali virtù
devono pur essere praticate in alto grado, poichè il Pontefice invoca sopra gli
ordinandi i doni dello Spirito Santo, che, compiendo le virtù, ce lo fanno
praticare in tutta la loro perfezione. Non basta quindi essere uno di quegli
incipienti che sono ancora esposti a ricadere in colpe gravi; ma è
necessario, purificata l’anima dalle colpe e dagli attacchi, essersi rassodati
nelle virtù che costituiscono la via illuminativa e tendere a sempre più
intima unione con Dio.
404. 2° Fatti sacerdoti, non
è il momento di fermersi ma anzi di progredire ogni giorno di virtù in virtù,
come nota l’Imitazione: 404-1 “Non alleviasti onus tuum, sed
arctiori jam alligatus es vinculo disciplinæ, et ad majorem teneris perfectionem
sanctitatis: il vostro carico non si è alleggerito ma siete invece legati da
più strette obbligazioni e tenuti a maggiore santità. Il sacerdote dev’essere
ornato di tutte le virtù e deve dare agli altri l’esempio d’una vita pura”.
Oltre che il non progredire è retrocedere (n. 358-359),
vi è, come abbiamo dimostrato parlando del ministero sacerdotale (n. 392 ss.),
tale obbligo di conformarsi a Gesù Cristo e di edificare il prossimo, che,
nonostante tutti i nostri sforzi, restiamo sempre al di sotto dell’ideale
tracciato dal Vangelo e dal Pontificale. Dobbiamo quindi quotidianamente pensare
che ci rimane ancora molto da fare per conseguirlo: “Grandis enim tibi restat
via” 404-2.
405. D’altra parte noi viviamo in
mezzo al mondo e ai suoi pericoli, mentre i religiosi sono protetti dalle regole
e da tutti i vantaggi della vita di comunità. Se dunque essi sono obbligati a
tendere incessantemente alla perfezione, non lo saremo anche noi e più di loro?
E se noi non abbiamo, per proteggere la nostra virtù, gli esterni baluardi che
difendono la loro, non dobbiamo forse supplirvi con una maggior forza interiore,
che non può evidentemente acquistarsi che con sforzi spesso rinnovati verso una
vita migliore? Il mondo con cui siamo obbligati a trattare tende continuamente
ad abbassare il nostro ideale; è quindi necessario costantemente rialzarlo con
un ritorno frequente allo spirito sacerdotale.
Questo progresso è dovere tanto più urgente in quanto che dal nostro grado di
santità dipende la salute e la santificazione delle anima che ci sono affidate:
secondo le leggi ordinarie della provvidenza soprannaturale, un sacerdote fa
tanto maggior bene quanto più è santo, come abbiamo dimostrato, (n. 398 ss.).
Potrebbe dunque essere conforme alla nostra missione di santificatori di
anime, il fermarci a mezzo o anche al principio della via della perfezione,
mentre tante anime in pericolo di perdersi ci gridano da tutte le parti di
correre in loro aiuto “transiens… adjuva nos?” 405-1. È chiaro che a questo grido di soccorso
non vi è che una sola risposta degna d’un sacerdote, quella di Nostro Signore
stesso: “Io mi santifico e mi sacrifico perch’essi siano santificati in tutta
verità” 405-2.
406. Non esamineremo qui la
questione se il sacerdote, obbligato a maggior perfezione interiore del semplice
religioso, sia nello stato di perfezione. È questa, a dir vero, una
questione di Diritto canonico, che viene comunemente risolta
negativamente, perchè il sacerdote, anche se pastore di anime, non ha quella
stabilità che è canonicamente richiesta dallo stato di perfezione.
Il sacerdote poi che è nello stesso tempo religioso, ha, com’è chiaro, tutti
gli obblighi del sacerdozio, e per di più quelli dei voti, e trova nella regola
più copiosi aiuti per essere santo. Ma non deve dimenticare che il suo
sacerdozio l’obbliga a perfezione maggiore di quella dello stato
religioso.
Così il clero secolare e il clero regolare, senza ombra di gelosia, si
stimeranno e si aiuteranno a vicenda, non avendo che un solo e medesimo scopo,
di glorificar Dio guadagnandogli quante più anime è possibile, e giovandosi
delle virtù e dei buoni successi che noteranno nei confratelli per eccitarsi a
nobile emulazione: “Consideremus invicem in provocationem caritatis et
bonorum operum” 406-1.
NOTE
392-1 Hebr., V, 1-4.
392-2 Non intendiamo dire che sia
religioso come quelli che entrano in un Ordine e fanno i tre voti, ma nel senso
che è ufficialmente incaricato di rendere a Dio i doveri di
religione.
392-3 Lo dice pure
S. Tommaso, (IV Sent., dist. 24, q. 2): “Qui
divinis mysteriis applicantur regiam dignitatem assequuntur et perfecti in
virtute esse debent”.
394-1 Exod., XIX, 22.
394-2 Levit., XXI, 6.
394-3 Hebr., VII, 26.
394-4 Ephes., V, 25-27.
395-1 Preghiera dell’Offertorio.
396-1 Matth., XV, 8;
Isa., XXIX, 13.
398-1 Si legga a questo proposito
l’ottimo libro di Dom Chautard, L’anima dell’apostolato.
398-2 Matth., IV, 19.
398-3 Joan., XV, 16.
398-4 I Cor., III, 6-7.
398-5 Joan., XVII, 19.
399-1 II Cor., V, 20.
399-2 I Cor., XIII, 1.
400-1 I Cor., IV, 16.
401-1 Jac., IV, 6.
402-1 De ordinibus
conferendis.
402-2 Loc. cit.
403-1 Supplem., q. 35,
a. 1, ad 3.
404-1 Libro IV, c. 5.
404-2 III Reg., XIX, 7.
405-1 Act., XVI, 9.
405-2 Joan., XVII, 19.
406-1 Hebr., X, 54.
Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.
Ultima revisione: 3 marzo 2006.