Di Adolfo Tanquerey. CAPITOLO II. Natura della vita cristiana. La concupiscenza degli occhi (curiosità e avarizia). L’orgoglio della vita.
199. A) Il male. — La concupiscenza degli occhi abbraccia due cose: la vana curiosità e l’amore disordinato dei beni della terra.
a) La curiosità di cui si tratta, è lo smodato desiderio di vedere, d’udire, di conoscere ciò che avviene nel mondo, come i secreti intrighi che vi si annodano, [sic] non per trarne spirituale vantaggio ma per dilettarsi di una tal frivola cognizione. Si estende pure ai secoli passati, quando frughiamo la storia, non per trarne esempi utili alla vita umana, ma per pascere la nostra immaginazione di tutte le cose che dilettano. Abbraccia principalmente tutte le false scienze divinatorie, con cui si pretende di conoscere le cose segrete o future delle quali Dio s’è riservata la conoscenza: “è questo un usurpare i diritti di Dio, è un distruggere la confidenza con cui dobbiamo abbandonarci alla sua volontà” 199-1. Questa curiosità riguarda pure le scienze vere ed utili, quando uno ci si applica con eccesso o intempestivamente e ci fa sacrificare doveri assai maggiori, come avviene a quelli che leggono ogni specie di romanzi, di commedie e di poesie. “Orbene, tutto ciò non è altro che intemperanza, malattia, disordine della mente, inaridimente del cuore, miseranda schiavitù che non ci lascia agio di pensare a noi, e fonte d’errori” 199-2.
200. b) La seconda forma di questa concupiscenza è l’amore disordinato del denaro; talora si considera il danaro come mezzo per acquistare altri beni, per esempio, piaceri od onori; talora uno si attacca al denaro per se stesso, per contemplarlo, per palparlo, e per trovare nel suo possesso una certa sicurezza per l’avvenire: questa è l’avarizia propriamente detta. Nell’uno e nell’altro caso uno si espone a commettere molti peccati; perchè questo disordinato desisiderio è fonte di molte frodi ed ingiustizie.
201. B) Il rimedio. a) Per combattere la vana curiosità bisogna ricordarsi che tutto ciò che non è eterno è indegno di fissare e ritenere l’attenzione di esseri immortali come noi. La figura di questo mondo passa, una sola cosa rimane: Dio e il cielo che è eterno possesso di Dio. Non diamoci quindi pensiero che delle cose eterne; perchè ciò che non è eterno è un nulla, quod æternum non est, nihil est. Gli avvenimenti presenti, come quelli dei secoli passati, possono e devono certamente premerci, ma solo nella misura in cui contribuiscono alla gloria di Dio o alla salvezza degli uomini. Quando Dio creò il mondo e tutto ciò che esiste, non ebbe che uno scopo solo: comunicare la sua vita divina alle creature intelligenti, agli Angeli, agli uomini, e raccogliere degli eletti. Tutto il resto è accessorio e non dev’essere studiato che come mezzo per andare a Dio o al cielo.
202. b) Per ciò che riguarda l’amore disordinto dei beni della terra, bisogna ricordare che le ricchezze non sono un fine ma un mezzo che la Provvidenza ci dà per sovvenire ai nostri bisogni; che Dio ne resta il supremo Padrone, che noi in fondo non ne siamo che amministratori, e che dovremo rendere conto del loro uso: redde rationem villicationis tuæ” 202-1. È quindi savia cosa dare larga parte del proprio superfluo in elemosine e in buone opere; a questo modo si asseconda i disegni di Dio, il quale vuole che i ricchi siano, a così dire, gli economi dei poveri; e si fa un deposito sulla Banca del cielo, dove la ruggine e la tignuola non corrodono; e dove i ladri non forano muri nè rubano: thesaurizate autem vobis thesauros in cælo, ubi nec ærugo, neque tinea demolitur, et ubi fures non effodiunt nec furantur” 202-2. È il mezzo sicuro per distaccare i nostri cuori dai beni della terra ed elevarli a Dio: “perchè, aggiunge Nostro Signore, dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore: “Ubi enim est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum” 202-3. Cerchiamo dunque innanzitutto il regno di Dio, la santità, ed il resto ci sarà dato per giunta.
A diventar perfetti, occorre ancora qualche cosa di più, praticare la povertà evangelica: “Beati, infatti, sono i poveri di spirito: Beati pauperes spiritu” 202-4. In che può farsi in tre modi secondo l’inclinazione e la possibilità di ciascuno: 1) vendendo i propri beni e dandoli ai poveri: “Vendite quæ possidetis et date eleemosynam” 202-5; 2) mettendo ogni cosa in comune, come si pratica in certe congregazioni; 3) serbando il capitale e privandosene dell’uso, col non spendere nulla se non col consiglio d’un savio direttore 202-6.
203. In ogni caso il cuore dev’essere distaccato dalle ricchezze per volarsene a Dio. È pur quanto ci raccomanda Bossuet: “Beati coloro, egli dice, che, ritirati umilmente nella casa del Signore, si dilettano della nudità delle loro cellette e di tutto il misero corredo di cui hanno bisogno in questa vita, che non è che un’ombra di morte, per non considerare altro che la loro infermità e il giogo pesante di cui il peccato li ha oppressi. Beate le sacre Vergini, che non vogliono essere più lo spettacolo del mondo e che bramerebbero nascondersi perfino a se stesse sotto il sacro velo che le circonda! Beata la dolce violenza che si fa ai propri occhi per non vedere le vanità e dire con David: 203-1 Distogliete i miei occhi perch’io non le veda. Beati coloro che, stando secondo il loro stato in mezzo al mondo, non ne sono tocchi e vi passano senza attaccarvisi… che dicono con Ester sotto il diadema: “Voi sapete, o Signore, quanto disprezzo questo segno d’orgoglio e tutto ciò che può servire alla gloria degli empi; e come la vostra serva non si è mai rallegrata che in voi solo, o Dio d’Israele” 203-2.
3° L’ORGOGLIO DELLA VITA.
204. A) Il male. “L’orgoglio, dice Bossuet 204-1, è una depravazione più profonda; per esso l’uomo, abbandonato a se stesso, nell’eccesso dell’amor proprio considera sè come proprio Dio”. Dimenticando che Dio è il suo primo principio e il suo ultimo fine, stima eccessivamente se stesso, e le proprie doti vere o pretese riguarda come fossero sue senza riferirle a Dio. Di qui quello spirito d’indipendenza o d’autonomia che lo spinge a sottrarsi all’autorità di Dio i dei suoi rappresentanti; quell’egoismo che lo inclina ad operare per sè come se fosse fine a se stesso; quella vana compiacenza che si diletta nella propria eccellenza, come se Dio non ne fosse l’autore, che si compiace nelle proprie buone opere, come se esse non fossero prima di tutto e principalmente il risultato dell’azione divina in noi; quella tendenza ad esagerare le proprie doti, ad attribuirsene di quelle che non si posseggono, a preferirsi agli altri, e talvolta anche a disprezzarli, come faceva il Fariseo.
205. A quest’orgoglio s’aggiunge la vanità, che ci fa cercare in modo disordinato la stima altrui, la vana gloria. Perchè, come fa notare Bossuet 205-1, “se queste lodi sono false o ingiuste, qual errore di compiacermene tanto! Se poi sono vere, perchè mi diletto io meno della verità che della stima che le rendono gli uomini?” Strana cosa davvero! ci diamo più pensiero della stima degli uomini che della stessa virtù, e si rimane più umiliati d’un granchio preso in pubblico che d’una colpa segreta. Quando uno si abbandona a questo difetto, non tarda a commetterne altri: la millanteria, che inclina a parlar di sè e dei propri trionfi; l’ostentazione, che cerca d’attirare l’attenzione pubblica col lusso e col fasto; l’ipocrisia, che simula le apparenze della virtù senza darsi pensiero d’acquistarla.
206. Gli effetti dell’orgoglio sono deplorevoli: è il gran nemico della perfezione: 1) perchè ruba a Dio la sua gloria e ci priva quindi di molte grazie e di molti meriti, non volendo Dio esser complice della nostra superbia: “Deus superbis resistit” 206-1; 2) è fonte di numerosi peccati, peccati di presunzione puniti con lagrimevoli cadute, come vizi odiosi; di scoraggiamento quando si vede d’essere caduti così in basso; di dissimulazione, perchè rincresce confessare i proprii disordini; di resistenza ai superiori, d’invidia e di gelosia verso il prossimo, ecc.
207. B) Il rimedio è: a) riferire tutto a Dio, riconoscendo che egli è l’autore di ogni bene e che, essendo il primo principio delle nostre azioni, ne deve pur essere l’ultimo fine. È ciò che suggerisce S. Paolo 207-1: “Quid habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? Che hai tu che non abbi ricevuto? e se l’hai ricevuto, perchè te ne glorii come se non l’avessi in dono?”. Onde conchiude che tutte le nostre azioni devono tendere alla gloria di Dio: “Sive manducatis, sive bibitis, sive aliud quid facitis, omnia in gloriam Dei facite” 207-2. E per dar loro maggior valore, procuriamo di farle in nome, nella virtù di Gesù Cristo: “Omne quodcumque facitis in verbo aut in opere, omnia in nomine Domini Jesu Cristi, gratias agentes Deo et Patri per ipsum 207-3; qualunque cosa da voi si faccia in parola o in opera, fate tutto nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo suo”.
208. b) E poichè la natura costantemente ci porta a cercar noi stessi, per reagire contro questa tendenza, bisogna ricordarci che da noi non siamo che nulla e peccato. È vero che ci sono in noi delle buone qualità naturali e soprannaturali che bisogna altamente stimare e coltivare; ma, venendoci queste qualità da Dio, non ne dobbiamo forse glorificar lui? Quando un artista ha fatto un capolavoro, non è forse lui, e non la tela, che si deve lodare?
Or da noi stessi non abbiamo che il nulla: “questo noi eravamo da tutta l’eternità; e l’essere di cui Dio ci ha rivestiti, non da noi viene ma da Dio; e benchè ci sia stato dato, non cessa d’essere pur sempre anche cosa sua, di cui vuol essere onorato” 208-1.
Da noi stessi siamo pure peccato, nel senso che per ragione della concupiscenza tendiamo al peccato, per modo, dice S. Agostino 208-2, che, se noi non commettiamo certi peccati, lo dobbiamo alla grazia di Dio: “Gratiæ tuæ deputo et quæcumque non feci mala. Quid enim non facere potui, qui etiam gratuitum facinus amavi?” Pensiero che l’Olier 208-3 spiega così: “Quel che posso dire è che non vi è specie immaginabile di peccati, non vi è imperfezione o disordine, non vi è errore nè confusione di cui la carne non sia piena; talmente che non vi è sorta di leggerezza, non vi è follia o sciocchezza che la carne non sia capace di commettere ad ogni istante”. La nostra natura non è certo intieramente corrotta, come pretendeva Lutero; e col concorso naturale o soprannaturale 208-4 di Dio, può fare qualche bene, e ne fa anche molto, come vediamo nei Santi; ma poichè Dio ne è causa prima e principale, a lui dobbiamo renderne grazie.
209. Concludiamo dunque con Bossuet 209-1: “Non presumere di te; perchè nella presunzione sta il principio di ogni peccato… Non desiderar la gloria degli uomini; perchè, ottenutala, avresti ricevuta la tua ricompensa e non dovresti poi aspettarti altro che veri supplizi. Non ti gloriare; perchè tutto ciò che ti attribuisci nelle tue opere buone, lo togli a Dio che ne è l’autore e ti metti al suo posto. Non scuotere il giogo della disciplina del Signore; non dire dentro di te, come un superbo orgoglioso: Non servirò; perchè, se non servi alla giustizia, sarai schiavo del peccato e figlio della morte. Non dire: Io sono senza macchia; e non credere che Dio abbia dimenticato i tuoi peccati perchè li hai dimenticati tu; perchè il Signore ti desterà dicendoti: Vedi le tue vie in quella segreta vallicella; io ti seguii dappertutto e contai tutti i tuoi passi. Non resistere ai savi consigli e non ti adirare quando sei ripreso, perchè è il colmo dell’orgoglio ribellarsi alla verità stessa quando ti avverte, e ricalcitrare contro lo sprone”.
Regolandoci in questo modo, saremo più forti per lottare contro il mondo, che è il secondo dei nostri nemici spirituali.
II. Lotta contro il mondo.
210. Il mondo di cui parliamo non è il complesso delle persone che vivono nel mondo, fra cui si trovano anime elette ed increduli. È il complesso di coloro che si oppongono a Gesù Cristo e sono schiavi della triplice concupiscenza. Sono dunque: 1) gli increduli, ostili alla religione appunto perchè condanna il loro orgoglio, la loro sensualità, la loro sete smodata di ricchezza; 2) gl’indifferenti, che non si curano d’una religione che li obbligherebbe ad uscire dalla loro indolenza; 3) i peccatori impenitenti, che amano il loro peccato, perchè amano il piacere e non vogliono distaccarsene; 4) i mondani che credono ed anche praticano la religione, ma associandola all’amore del piacere, del lusso, delle lautezze, e che talvolta scandalizzano i fratelli, credenti o increduli, facendo lor dire che la religione ha ben poco influsso sulla vita morale. È questo il mondo che Gesù maledisse per i suoi scandali: “Vae mundo a scandalis!” 210-1 e che S. Giovanni dice immerso tutto nel male: “Mundus totus in maligno positus est” 210-2.
211. 1° I Pericoli del mondo. Il mondo che penetra anche nelle famiglie cristiane e perfino nelle comunità, con le visite fatte o ricevute, con le corrispondenze, con la lettura di libri o di giornali mondani, è un grande ostacolo alla salvezza e alla perfezione; risveglia e attizza in noi il fuoco della concupiscenza; ci seduce e ci atterrisce.
212. A) Ci seduce con le sue massime, con la pompa delle sue vanità, coi perversi suoi esempi.
a) Con le sue massime, che sono in opposizione diretta con le massime del Vangelo. Il mondo infatti vanta la felicità dei ricchi, dei forti o anche dei violenti, degli arricchiti, degli ambiziosi, di quelli che sanno godersi la vita; predica volentieri l’amor dei piaceri: “Coroniamoci di rose prima che avvizziscano, Coronemus nos rosis antequam marcescant” 212-1. Non bisogna forse, si dice, godersi la gioventù? Non si deve godere un poco la vita? Quanti vivono così, e il Signore non vorrà poi mandar tutti all’inferno. Bisogna pur campare la vita. A essere scrupolosi negli affari, non si riuscirà mai ad arricchire.
b) Con la pompa delle sue vanità e dei suoi piaceri; la maggior parte delle riunioni mondane non hanno altro scopo che di sollecitare la curiosità, la sensualità ed anche la voluttà. Per rendere il vizio attraente, si dissimula sotto forma di divertimenti che si dicono onesti ma che non lasciano di essere pericolosi, come le vesti scollacciate, le danze, alcune specialmente che sembra non abbiano altro scopo che favorire sguardi lascivi e sensuali abbracciamenti. E che dire della maggior parte delle rappresentazioni teatrali, degli spettacoli offerti al pubblico, dei libri licenziosi che vengono esposti dappertutto?
c) I cattivi esempi vengono, ahimè! ad aumentare il pericolo; quando si vedono tanti giovani divertirsi, tanti sposi diventare infedeli ai loro doveri, tanto commercianti e uomini d’affari arrichirsi con mezzi poco scrupolosi, si è fortemente tentati di lasciarsi trascinare a simili disordini. — Del resto il mondo è così indulgente verso le umane debolezze che pare che le incoraggi: il seduttore è una persona galante; il finanziere, il commerciante che si arricchisce con mezzi disonesti, è un uomo svelto; il libero pensatore è uno spregiudicato che segue i lumi della sua coscienza. Quanti si sentono incoraggiati al vizio da giudizi così benigni!
213. B) Quando non può sedurci, il mondo tenta di atterrirci.
a) Talora è una vera persecuzione ordita contro i credenti: in certe amministrazioni, si nega l’avanzamento a quelli che compiono pubblicamente i doveri religiosi o a quelli che mandano i figli alle scuole cattoliche.
b) Talora si cerca di distogliere dalle pratiche religiose i timidi col burlarsi piacevolmente dei devoti, dei Tartufi, dei semplicioni che prestano ancor fede a vieti dommi, canzonando le madri di famiglia che continuano a vestire modestamente le figlie, con ironiche interrogazioni se è così che sperano di maritarle. E quante infatti, per rispetto umano e non ostante le proteste della coscienza, si fanno schiave di quelle mode tiranniche che non hanno più rispetto alcuno al pudore!
c) In altre circostanze si usano minacce: se fate tanta mostra della vostra religione, non c’è più posto per voi nei nostri uffici; se siete così schifiltoso, è inutile che veniate nei nostri saloni; se siete scrupoloso, non posso prendervi al mio servizio; bisogna fare come fanno tutti e ingannare il pubblico per guadagnare di più.
È molto facile lasciarsi così sedurre o atterrire, perchè il mondo trova un complice nel nostro cuore e nel naturale desiderio che tutti abbiamo dei buoni posti, degli onori e delle ricchezze.
214. 2° Il rimedio 214-1. Per resistere a questa pericolosa corrente, bisogna porsi animosamente in faccia dell’eternità e considerare il mondo alla luce della fede. Allora ci apparirà come il nemico di Gesù Cristo che bisogna combattere energicamente per salvarci l’anima, e come il teatro del nostro zelo ove dobbiamo portare le massime del Vangelo.
215. A) Essendo il mondo il nemico di Gesù Cristo, noi dobbiamo far tutto il rovescio delle massime e degli esempi del mondo, ripetendo il dilemma di S. Bernard 215-1: “O Cristo s’inganna o il mondo è in errore; ma è impossibile che la sapienza divina s’inganni: Aut iste (Christus) fallitur aut mundus errat: sed divinam falli impossibile est sapientiam“. Essendovi opposizione aperta tra il mondo e Gesù Cristo, bisogna assolutamente far la scelta, perchè non si può servire nello stesso tempo due padroni. Ora Gesù è sapienza infallibile; chi dunque ha le parole di vita eterna è Lui, ed è il mondo che s’inganna. La nostra scelta sarà quindi presto fatta; perchè, dice San Paolo, noi abbiamo ricevuto non lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che viene da Dio: “Non spiritum huius mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est” 215-2. Voler piacere al mondo, aggiunge, è voler spiacere a Gesù Cristo: “Si hominibus placerem, servus Christi non essem” 215-3. E S. Giacomo afferma che “chi vuol essere amico del mondo si fa nemico di Dio: Quicumque ergo voluerit amicus esse sæculi huius, inimicus Dei constituitur” 215-4. Dunque in pratica:
a) Leggiamo e rileggiamo il Vangelo, ripensando dentro di noi che qui ci parla l’eterna verità, e pregando colui che l’ha ispirato di farcene ben intendere, gustare e praticare le massime; solo a questa condizione si è veramente cristiani ossia discepoli di Cristo. Quindi, leggendo o ascoltando massime contrarie a quelle del Vangelo, diciamo coraggiosamente; questo è falso perchè opposto alla infallibile verità.
b) Evitiamo le occasioni pericolose che così spesso s’incontrano nel mondo. Certamente coloro che non vivono in clausura, sono fino a un certo punto obbligati a mescolarsi col mondo, ma devono preservarsi dallo spirito del mondo, vivendo nel mondo come se non fossero del mondo; perchè Gesù chiese al Padre di non togliere i suoi discepoli dal mondo ma di preservarli dal male: “Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo” 215-5. E San Paolo vuole che usiamo del mondo come se non ne usassimo: “Qui utuntur hoc mundo tanquam non utantur” 215-6.
c) Questo debbono fare specialmente gli ecclesiastici; debbono, come S. Paolo, poter dire che sono crocifissi al mondo e il mondo ad essi: “Mihi mundus cruxifixus est et ego mundo” 215-7. Il mondo, sede della concupiscenza, non può avere attrattive per noi; non può ispirarci che ripugnanza, come noi siamo a nostra carattere e il nostro abito una condanna dei suoi vizi. Dobbiamo quindi evitare le relazioni puramente mondane, dove noi ci troveremmo fuori posto. Abbiamo, è vero, visite di cortesia, d’affari e specialmente d’apostolato da fare e da ricevere; ma queste visite dovranno essere brevi, e non dobbiamo dimenticare ciò che è detto di Nostro Signore dopo la sua risurrezione, cioè che non faceva più ai suoi discepoli che rare apparizioni e soltanto per dare l’ultima mano alla loro formazione e parlar loro del regno di Dio: “Apparens eis et loquens de regno Dei” 215-8.
216. B) Non andremo quindi nel mondo se non per praticarvi direttamente o indirettamente l’apostolato, vale a dire per portarvi le massime e gli esempi del Vangelo. a) Non dimenticheremo che siamo la luce del mondo: “Vos estis lux mundi” 216-1; invece di proclamare beati i ricchi e i forti, faremo notare con tutta semplicità che ci sono altre sorgenti di felicità fuori della ricchezza e della fortuna; che la virtù trova già la sua ricompensa fin di questa terra; che le gioie pure gustate in seno alla famiglia sono le più dolci; che la soddisfazione di aver fatto il proprio dovere consola molti sventurati e che una buona coscienza vale anche meglio dell’ebbrezza del piacere. E potremo citare qualche fatto particolare per far meglio intendere queste osservazioni. Ma specialmente con l’esempio un prete edifica nella conversazione; quando tutto, nel suo contegno e nelle sue parole, rispecchia la semplicità, la bonarietà, una schietta allegria, la carità, in una parola la santità, produce su quanti lo vedono e lo sentono una impressione profonda; non si finisce mai di ammirare quelli che vivono secondo le proprie convinzioni, e si stima una religione che sa ispirare così sode virtù. Mettiamo dunque in pratica quanto dice Nostro Signore: “Splenda la vostra luce dinanzi agli uomini, affinchè vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che sta nei cieli: Sic luceat lux vestra coram hominibus ut videant opera vestra bona et glorificent Patrem vestrum qui in cælis est” 216-2. Ma non sono solo i preti che praticano questo genere d’apostolato, i laici convinti vi riescono anche meglio in quanto che si è meno diffidenti contro l’efficacia del loro esempio.
217. b) Spetta a questi uomini scelti e ai sacerdoti di ispirare ai cristiani più timidi il coraggio di lottare contro la tirannia del rispetto umano, della moda o della persecuzione legale. Uno dei mezzi migliori è la formazione di leghe o società composte di cristiani autorevoli e coraggiosi che non temono di parlare e d’operare secondo le proprie convinzioni. A questo modo i Santi riformarono i costumi dei loro tempi 217-1. E a questo modo si fondarono nelle nostre Scuole superiori e persino in Parlamento dei gruppi compatti che sanno far rispettare le loro pratiche religiose e trascinare gli esitanti. Il giorno in cui questi gruppi si saranno moltiplicati non solo nelle città ma anche nelle campagne, il rispetto umano sarà presto ucciso e la vera pietà, se non sarà praticata da tutti, sarà per lo meno rispettata.
218. In pratica dunque nessun compromesso col mondo nel senso che l’abbiamo definito, nessuna concessione per piacergli o attirarsene la stima. A ragione dice S. Francesco di Sales 218-1: “Comunque da noi si operi, il mondo ci farà sempre guerra… Lasciamo questo cieco, o Filotea; strida pure come il gufo per molestare gli uccelli diurni. Stiamo saldi nei nostri disegni, invariabili nei nostri propositi; la perseveranza mostrerà se davvero e di buona voglia ci siamo consacrati a Dio e dati alla vita devota”.
NOTE
199-1 Bossuet, l. c., cap. VIII.
199-2 Bossuet, l. c.
202-1 Luca, XVI, 2.
202-2 Matth., VI, 20.
202-3 Matth., VI, 21.
202-4 Matth., V, 3.
202-5 Luc., XII, 33; cfr. XVIII, 22; Matth., XIX, 21.
202-6 J.-J. Olier, Introd., cap. XI; A. Chevier, Le véritable disciple, 1922, p. 248-267.
203-1 Ps. CXVII, 37.
203-2 Esth., XIV, 15-18.
204-1 L. c., cap. XXXIII.
205-1 Della concupiscenza, c. XVII.
206-1 Jac., IV, 6.
207-1 I Cor., IV, 7.
207-2 I Cor., X, 31: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualunque altra cosa, fate tutto a gloria di Dio”.
207-3 Colos., III, 17.
208-1 J.-J. Olier, Cat. chrétien, I. P., leç. XVII.
208-2 Confess., l. II, c. 7.
208-3 Cat. chrétien, leç. XVII.
208-4 La Teologia insegna (Syn. theol. dogm., t. III, n. 72-91) che l’uomo decaduto può fare qualche bene d’ordine naturale col solo concorso naturale di Dio; ma che occorre un aiuto preternaturale per osservare tutta la legge naturale e respingere tutte le tentazioni gravi.
209-1 Op. cit., cap. XXXI.
210-1 Matth., XVIII, 7.
210-2 I Joan., V., 19.
212-1 Sap., II., 8.
214-1 Cfr. Tronson, Examens particuliers, XCIV-XCVI.
215-1 Sermo III de Nativitate Domini, n. 1.
215-2 I Cor., II, 12.
215-3 Galat., I, 10.
215-4 Jac., IV, 4.
215-5 Joann., XVII, 15.
215-6 I Cor., VII, 31.
215-7 Galat., VI, 14.
215-8 Act., I, 3.
216-1 Matth., V, 14.
216-2 Matth., V, 16.
217-1 Così, nel secolo XVII, S. Vincenzo de’ Paoli e l’Olier ottennero frutti meravigliosi fondando delle società e delle leghe.
218-1 La Filotea, P. IV, c. I. (Salesiana, Torino).
Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.
Ultima revisione del testo: 30 dicembre 2005.
Ultima revisione dell’HTML: 28 dicembre 2005.