Fra Giovanni, per non esporre le cristianità del Shen-Si a troppo gravi pericoli, si rifugiò nell’Hou-Pé, in attesa di ordini da parte di Mons. Salvetti. Anche là egli diede indubbia prova del suo disprezzo per qualsiasi pericolo, quando si trattava di guadagnare anime a Cristo. L’intera cristianità di Huo-Panh, spaventata dalle pene minacciate, aveva apostato. Appena il Beato ne venne a conoscenza, sprezzante della vita, decise di raggiungerla per ricondurla alla fede benché tutti coloro che vennero a conoscenza del suo disegno lo avessero sconsigliato. Il suo solito catechista si rifiutò di accompagnarlo, ma Fra Giovanni, anziché scoraggiarsi, vi andò in compagnia di un altro. Sul posto tanto fece e tanto esortò gli sventurati apostati da ricondurli in seno alla Chiesa.
La figura di questo francescano si inserisce con onore nell’epopea missionaria del secolo XIX. Nel 1966 è stato ricordato il 150° anniversario del suo martirio e il primo centenario della traslazione delle sue reliquie dalla cattedrale di Macao alla chiesa dell’Ara Coeli.
Molini di Triora, un modesto paesello allora della diocesi di Albenga, oggi di Ventimiglia, il 15-3-1760 diede i natali al Beato. Il giorno dopo fu battezzato con il nome di Francesco nell’antica chiesa di S. Lorenzo. Gli umili genitori ne coltivarono lo spirito con particolare predilezione. Ogni giorno i valligiani più mattinieri che si recavano frettolosi ai numerosi molini costruiti sulle rive del Capriolo e dell’Argentina, erano soliti vedere un fanciullo volenteroso e fervente che si recava nella vicina chiesa per servire la Messa. Era Francesco, il predestinato al martirio. Insieme ad altri coetanei, si inerpicava poi sulla costa esposta ai venti per raggiungere la scuola di Triora, distante cinque chilometri da casa sua. Al termine delle elementari i genitori mandarono il figlio a continuare gli studi a Porto Maurizio, dove i Barnabiti dirigevano un collegio per adolescenti. I frutti non si fecero attendere: i Padri Bruchieri e Sanguinetti dichiararono di non avere avuto tra i loro allievi un giovanotto migliore di Francesco per profitto, pietà e morigeratezza.
Nella cittadina ligure tutti parlavano ancora di San Lorenzo da Porto Maurizio (+1751 ), che con l’infuocata parola e l’austerità della vita aveva stupito ed edificato molte città d’Italia. E’ molto probabile che, all’ombra del grande apostolo francescano, il Beato abbia sentito nascere nel proprio cuore il primo germe della vocazione religiosa. Sta di fatto che, a 17 anni, egli lasciò la famiglia per raggiungere Roma, dove fu accolto dal suo conterraneo Padre Luigi da Porto Maurizio, superiore della provincia dell’Ara Coeli.
Il 15-5-1777, nella chiesetta di San Bernardino di Orte, il Beato vestì il ruvido saio francescano e prese il nome di Fra Giovanni. Compiuto lodevolmente l’anno di noviziato ed emessa la professione religiosa, percorse con alacrità il corso che lo portò giovanissimo al sacerdozio. Per le sue qualità speculative ottenne subito dai superiori la cattedra di filosofia nel convento di Tivoli e poi quella di teologia a Tarquinia, armonizzando mirabilmente le esigenze della scuola con una vita d’intenso apostolato. Successivamente riscoperse la carica di Guardiano nei conventi di Tarquinia, di Velletri e di Montecelio (Roma).
Nel 1798 chiese ed ottenne di partire missionario per la Cina. A Lisbona dovette però attendere un anno prima che una nave drizzasse la sua prua verso Macao. Il viaggio fu lunghissimo e fortunoso: due volte l’imbarcazione corse il pericolo di colare a picco: nei pressi di Giava i viaggiatori furono assaliti e depredati da audaci corsari. Il capitano di una nave svedese ancorata nell’isola, sebbene protestante, s’impegnò di condurre il missionario a Macao, mentre gli olandesi della Compagnia delle Indie lo ospitarono durante il mese di sosta e lo rifornirono di denaro sufficiente per le eventuali necessità del viaggio. Sette mesi era durata la drammatica odissea; ancora un anno il Beato dovette sostare nei conventi di Macao, prima che si presentasse l’occasione di poter varcare le frontiere dell’Impero Celeste. Quando l’ora desiderata giunse, per disposizione del Vicario Apostolico, Mons. Gioacchino Salvetti, gli fu assegnata la provincia dell’Hu-Nan, dove rimase due anni e mezzo visitando quasi tutte le cristianità del luogo. Dovunque si sforzò di ravvivare la fede assopita. Amava soffermarsi sovente con i cristiani sul tema della Passione del Signore; per primo fece conoscere in quella terra la pia pratica della Via Crucis.
Il numero dei neofiti era impari al fervore del Beato perché le leggi contrarie ai missionari, specialmente a causa della misconoscenza dei riti cinesi, impedivano qualsiasi manifesta propaganda. Perciò, quanto non gli era concesso di fare direttamente. Fra Giovanni si studiava di ottenere raddoppiando lo zelo nella santificazione dei fedeli, moltiplicando le preghiere, aumentando le aspre penitenze e le sanguinose flagellazioni.
Mentre evangelizzava l’Hu-Nan. il Vicario Apostolico lo inviò (1804) nel distretto di Han-Chung, nella provincia di Shen-Si, dove vivevano circa seimila cristiani. Anche colà diede prova di grande zelo e fervore. Nel 1811 i mandarini cominciarono ad applicare con molta energia gli editti emanati contro il cristianesimo dall’imperatore Kia-King perché, a torto, sospettava che i missionari ed i loro fedeli nutrissero simpatia verso i gruppi di ribelli alla sua autorità. La persecuzione da lui scatenata tentò di estinguere fino agli ultimi resti del cristianesimo e mise al bando del paese tutti i missionari.
Fra Giovanni, per non esporre le cristianità del Shen-Si a troppo gravi pericoli, si rifugiò nell’Hou-Pé, in attesa di ordini da parte di Mons. Salvetti. Anche là egli diede indubbia prova del suo disprezzo per qualsiasi pericolo, quando si trattava di guadagnare anime a Cristo. L’intera cristianità di Huo-Panh, spaventata dalle pene minacciate, aveva apostato. Appena il Beato ne venne a conoscenza, sprezzante della vita, decise di raggiungerla per ricondurla alla fede benché tutti coloro che vennero a conoscenza del suo disegno lo avessero sconsigliato. Il suo solito catechista si rifiutò di accompagnarlo, ma Fra Giovanni, anziché scoraggiarsi, vi andò in compagnia di un altro. Sul posto tanto fece e tanto esortò gli sventurati apostati da ricondurli in seno alla Chiesa. Dopo aver sradicato molte superstizioni, assai comuni in Cina, e nominato i nuovi catechisti, ritornò a Vu-Shanh-Fu, capoluogo dell’Hou-Pé, con grande sorpresa di quanti gli avevano sconsigliato l’impresa.
Nel 1812 un catechista, avido di denaro, lo tradì denunciandolo al mandarino come europeo e missionario cattolico. Fu invasa la sua abitazione in Van-Kia-Vang, ma egli riuscì a passare travestito da contadino in mezzo ai soldati e a rifugiarsi nella diletta provincia di Hu-Nan. Per vendicarsi di colui che lo aveva tradito, moltiplicò le preghiere e Dio concesse al perfido la grazia del ravvedimento.
Il Beato, prima esitante se rimanere nell’Hu-Nan o ritirarsi a Macao, appena fu nominato Pro-Amministratore di quella provincia, proseguì il suo apostolato senza esitazione. La sua opera fu resa efficace da particolari carismi concessigli dal Signore. Un giorno, mentre passeggiava recitando il breviario, un idolatra ebbe l’ardire di dargli una guanciata. “Infelice! Lo riprese Fra Giovanni. Fai il sordo alla voce divina e insulti i sacerdoti. Bada bene che, se non ti emendi, morirai vittima d’un serpente”. La profezia si avverò alla lettera alcuni anni dopo. Una fonte del villaggio Ho-Tai si era inaridita e gli abitanti dovevano andare ad attingere acqua molto lontano e attraverso vie scomode. Mosso a compassione di quei poveri contadini, il Beato si recò alla fontana arida, l’asperse con l’acqua benedetta e subito ne sgorgò una vena limpida e fresca. Un giorno Fra Giovanni e i suoi compagni si trovavano presso una rupe riarsi dalla sete. La campagna attorno appariva bruciata dal sole. Il Beato toccò allora con una mano la rupe e all’improvviso ne uscì un rivo limpidissimo che gorgoglia ancor oggi tra i massi.
Nel 1815 nuovi editti furono pubblicati contro i cristiani, ma non tutti i prefetti delle provincie dimostrarono la medesima premura nel farli osservare. L’Hu-Nan in quei giorni era invaso da orde ribelli all’imperatore e i magistrati, intenti a dare loro la caccia, lasciavano in pace i cristiani. Gl’idolatri, però, che avevano giurato di rovinare il missionario, lo accusarono di aver propagato una religione proscritta dalle leggi dell’impero e di aver nascosto in casa il capo dei ribelli. Il beato, avuto sentore della spudorata calunnia, avrebbe potuto facilmente mettersi in salvo ma, da buon pastore, preferì rimanere con il gregge, dato che non c’erano altri sacerdoti nella provincia.
Del resto egli aveva sempre desiderato il martirio. La sera dell’arresto, ai cristiani radunati domandò se temessero le sevizie e i tormenti dei persecutori. Quanto a sé, dichiarava di non avere alcun timore se fosse stato arrestato. Fatti arditi dal discorso del missionario, quei fedeli risposero: “Se il Padre non teme, neppure noi temiamo”. Così rassicurati li benedisse e, rimandatili alle loro case, rimase solo per trascorrere la notte in orazione. Verso il tramonto del giorno dopo giunsero i soldati, invasero il presbiterio, saccheggiarono gli arredi sacri, diedero fuoco alla chiesa e condussero il missionario incatenato dal mandarino. Costui lo invitò a rinnegare la propria fede, ma il Beato protestò: “Dovessi anche morire, non rinnegherò mai la mia religione”.
Insieme con molti cristiani Fra Giovanni fu inviato in portantina, ma carico di catene, al prefetto del tribunale supremo, residente in Heu-Kou-Fu. Ad una oscena domanda rivoltagli dal giudice, impudente, egli rispose con parole di fuoco. Torture ancora più atroci erano preparate ai martiri nelle prigioni di Cian-Sa, capoluogo della provincia, dove furono condotti il 29-8-1815. La prigione era stretta e lurida ed i cristiani, oppressi da catene al collo, alle mani e ai piedi, vi si potevano muovere a stento. Chiamati più volte davanti ai tribunali, mentre i giudici li interrogavano, le guardie li esortavano a nascondere le loro qualità di cristiani, ma le vittime perseveravano intrepide nella confessione della propria fede. Allora il mandarino li fece trascinare sopra una croce affinchè la calpestassero, ma Fra Giovanni li redarguì: “Questo è indegno in magistrati che devono essere custodi sinceri delle leggi”. I cristiani forzati a quell’azione sacrilega, a loro volta dicevano ai giudici: “Siete voi che commettete il sacrilegio”.
Sette mesi durarono per quei martiri le privazioni e gli orrori del carcere. Fra Giovanni, per colmo di barbarie, era costretto a starsene con il collo e la mano destra legati con anelli di ferro a una spranga spessa circa 30 centimetri. Egli attendeva quindi la morte come una liberazione.
L’imperatore il 7-2-1816 condannò a morte Fra Giovanni e gli indigeni all’esilio. Il Beato sul luogo del martirio fece una breve preghiera, poi si prostrò cinque volte per adorare il Signore secondo l’uso cinese e dare agli astanti una nuova testimonianza della sua fede. Regalò al carnefice le poche monete che gli erano rimaste affinchè, dopo lo strangolamento, non fosse spogliato completamente delle sue vesti, quindi gli disse: “Ora eseguite il comando ricevuto”. Leone XIII beatificò il martire il 7-5-1900.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 121-125.
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