Un notevole interesse scientifico e clinico, non disgiunto da un ampio dibattito pubblico sulle sue implicazioni etiche, sociali e giuridiche, continua a circondare lo studio delle cellule staminali. Queste cellule, capaci di autorinnovarsi in coltura e non specializzate per svolgere un’unica e definitiva funzione all’interno dell’organismo, ma ancora relativamente indeterminate e potenziali rispetto ad essa, rappresentano la naturale sorgente citologica dalla quale si formano tutti i tessuti del corpo durante lo sviluppo e attraverso la quale gli stessi tessuti possono rinnovarsi ove richiesto in alcune condizioni fisiologiche o patologiche, sostituendo le cellule non più funzionali.
Aspetti scientifici ed etici
Pontificia Academia pro Vita
L’Osservatore Romano – 5 GENNAIO 2001
Un notevole interesse scientifico e clinico, non disgiunto da un ampio dibattito pubblico sulle sue implicazioni etiche, sociali e giuridiche, continua a circondare lo studio delle cellule staminali. Queste cellule, capaci di autorinnovarsi in coltura e non specializzate per svolgere un’unica e definitiva funzione all’interno dell’organismo, ma ancora relativamente indeterminate e potenziali rispetto ad essa, rappresentano la naturale sorgente citologica dalla quale si formano tutti i tessuti del corpo durante lo sviluppo e attraverso la quale gli stessi tessuti possono rinnovarsi ove richiesto in alcune condizioni fisiologiche o patologiche, sostituendo le cellule non più funzionali. Gli aspetti tecnici e le prospettive terapeutiche, così come le questioni antropologiche e morali sollevate da questa importante area della ricerca biomedica contemporanea, sono già stati considerati in precedenza (L’Osservatore Romano, 11-12.09.2000, p. 10 e 16.09.2000, p. 9). Tuttavia, il rapidissimo evolversi degli studi in materia di identificazione, caratterizzazione biologica e manipolazione di vari tipi di cellule staminali animali e umane, nonché l’aprirsi di nuove ipotesi sulla produzione di cellule staminali cosiddette “autologhe” (immunologicamente compatibili con i tessuti del paziente), suggerisce di ritornare sull’argomento per aggiornare il quadro delle attuali conoscenze e precisare i criteri che consentono di qualificare moralmente alcuni nuovi sviluppi dell’attività di ricerca scientifica che sono stati recentemente prospettati. Tale qualifica morale, che caratterizza ogni atto umano (cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 1, a. 3), trova le sue fonti nell’oggetto della ricerca stessa, ragionevolmente scelto dallo studioso, nel fine che la ricerca si prefigge (in quanto termine primo dell’intenzione del ricercatore) e nelle circostanze in cui essa si svolge (ivi comprese le conseguenze prevedibili della sperimentazione). (cf Summa Theologiae, I-II, q. 18; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1750-1754; Lett. enc. Veritatis Splendor 74-83)
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Gli ultimi mesi dell’anno che si è chiuso hanno visto l’apparire nella letteratura scientifica internazionale di eleganti studi sulle cellule staminali da tessuti di adulto che mostrano con sempre maggiore ricchezza di evidenze sperimentali la straordinaria plasticità intra-germinale di queste cellule (pluripotenzialità differenziativa verso linee cellulari dello stesso foglietto germinale), la loro insospettata capacità di transdifferenziazione inter-germinale (derivazione di linee cellulari appartenenti a foglietti germinali diversi), la possibilità di coltivarle in vitro e in vivo, espanderle ed anche modificarle geneticamente (inserimento di un gene mediante vettore virale) e, infine, la loro disposizione ad innestarsi nei tessuti danneggiati di un organo. Potranno qui trovare spazio solo alcuni di questi recentissimi risultati che confermano la competitività epigenetica delle cellule staminali da tessuti di adulto (ASC) rispetto a quelle embrionali (ES) e la loro valida candidatura per la terapia cellulare (trapianti autologhi ed eterologhi) e la terapia genica somatica. Kenneth W. Liechty et al. (Nature Medicine, novembre 2000, 6: 1282-1286) hanno mostrato in un modello xenogenico (pecora) che le cellule staminali mesenchimali umane (HMSC), isolate dal midollo osseo di adulti e già caratterizzate come capaci di differenziarsi in vitro e in vivo a dare vari tessuti, sono in grado di innestarsi in diverse sedi dell’organismo e di andare incontro a differenziazioni sito-specifiche che includono condrociti, adipociti, miociti e cardiomiociti. Secondo i ricercatori statunitensi, “la cellula staminale ematopoietica è più pluripotente di quanto sinora abbiamo pensato”, e il loro studio documenta “la potenzialità di queste cellule per i trapianti, la terapia genica e le applicazioni della ingegneria tissutale” (p. 1285). In un lavoro apparso nello stesso fascicolo di Nature Medicine (pp. 1229-1234), Eric Lagasse et al. mostrano come le cellule staminali ematopoietiche (HSC) del midollo osseo siano in grado di generare epatociti nel roditore, e possano anche essere usate per correggere una grave malattia del fegato, la tirosinemia ereditaria di tipo 1. Commentando questi e altri risultati, Stuart H. Orkin (Cancer Institute, Harvard Medical School, Boston) osserva che “i ricercatori si accorgono ora che la plasticità di sviluppo non è limitata all’ambiente embrionale” (Nature Medicine, novembre 2000, 6: 1212-1213, p. 1212), e che, “sebbene il completo potenziale di sviluppo delle cellule staminali tissutali deve essere ancora scoperto, possiamo essere certi di una cosa: ulteriori sorprese attendono senza dubbio i ricercatori delle cellule staminali” tissutali (ivi, p. 1213). L’osservazione dello stesso Orkin che “il loro potenziale terapeutico può essere ampliato notevolmente sfruttando i metodi di trasferimento dei geni, superando così, forse, gli ostacoli che ci separano dalla terapia genica somatica” (ivi, p. 1213), trova in ulteriori ricerche sulle cellule staminali da adulto una preziosa conferma. Tra di esse ricordiamo i brillanti studi sulla correzione di geni mutanti nelle colture di cellule staminali ematopoietiche attraverso la ricombinazione omologa (S. Hatada et al., Proceedings of the National Academy of Sciences USA, dicembre 2000, 97: 13807-13811), sulla transduzione di cellule staminali mesenchimali mediante vettori retrovirali anfotropici in vista di possibili terapie basate sul trasferimento di geni (J.D. Mosca et al., Clinical Orthopedics, ottobre 2000, 379: S71-S90), e sulle prospettive delle cellule staminali epidermiche quali promettenti targets per la terapia genica (recensite in: F.M. Watt, Human Gene Therapy, novembre 2000, 11: 2261-2266). A questi risultati si aggiungono la scoperta – da parte di un gruppo di ricercatori italiani – che cellule staminali neurali di topo e umane, sinora ritenute capaci di differenziarsi solo in neuroni, cellule gliali e cellule ematiche, sono in grado, se esposte ad appropriati segnali epigenetici, di produrre miotubi scheletrici in vitro e anche in vivo, qualora innestate in animali adulti (R. Galli et al., Nature Neuroscience, ottobre 2000, 3: 986-991); la messa a punto di una tecnica per l’isolamento diretto, dal sistema nervoso centrale di feti abortiti, di cellule staminali clonogeniche in grado di espandersi in vitro, di differenziasi in neuroni e cellule gliali e di innestarsi, proliferare, migrare e differenziarsi nel cervello del topo immunodeficiente (N. Uchida et al., Proceedings of the National Academy of Sciences USA, dicembre 2000, 97: 14720-14725); e la capacità delle cellule staminali midollari, dimostrata in un modello animale, di migrare nel cervello e di differenziarsi in cellule che esprimono antigeni specifici dei neuroni (E. Mezey, Science, dicembre 2000, 290: 1779-1782).
Quanto sopra ricordato ed altri studi non menzionati per l’economia del presente testo, mostrano che la realistica previsione della percorribilità e fecondità della ricerca sulle cellule staminali tissutali da adulto e fetali non risulta contraddetta dai risultati più recenti e scientificamente accreditati su prestigiose riviste internazionali, ma, semmai, ne esce rafforzata nella prospettiva che un giorno, ormai non lontano, si potranno vedere le prime applicazioni cliniche di questi studi a vantaggio di innumerevoli pazienti affetti da gravi malattie metaboliche, neurologiche, muscolari, cardiovascolari, neoplastiche ed altre ancora. Ciò conforta quanto espresso alcuni mesi fa dal Santo Padre con una indicazione pienamente accessibile alla ragione: “La scienza lascia intravedere altre vie di intervento terapeutico che non comportano né la clonazione né il prelievo di cellule embrionali, bastando a tale scopo l’utilizzazione di cellule staminali prelevabili in organismi adulti. Su questa via dovrà avanzare la ricerca se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale”. (Giovanni Paolo II, Discorso al XVIII International Congress of the Transplantation Society, Roma, 29 agosto 2000; in: L’Osservatore Romano, 30.08.2000, p. 1). La scelta di questa linea di ricerca positiva appare quindi essere ad un tempo tecnicamente valida e scientificamente competitiva – sotto il profilo delle prospettive cliniche sia della terapia cellulare sia della terapia genica somatica – rispetto a quella che prevederebbe il ricorso a cellule staminali embrionali; essa risulta altresì moralmente accettabile, fatta salva la non complicità con gli interventi abortivi dai quali è risultato disponibile al prelievo di cellule staminali un feto morto, ed escluso, nel caso di donatori adulti, un rischio eccessivo per il volontario, che deve avere inoltre espresso “in modo cosciente e libero il suo consenso” (Giovanni Paolo II, disc. cit., p. 5).
La volontà deliberata del ricercatore – che è chiamato a scegliere come oggetto della propria attività di ricerca ciò che è “conforme al bene della persona nel rispetto dei beni per essa moralmente rilevanti” (Lett. enc. Veritatis splendor 78) – non potrà non rivolgersi anzitutto verso quella via di indagine conoscitiva e di sviluppo biotecnologico che prevede l’isolamento e la manipolazione delle cellule staminali umane da adulto, da cordone ombelicale e da feto abortito, con le avvertenze in precedenza ricordate. Egli riserverà invece la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali esclusivamente a quelle d’origine animale, al fine di ricavare le informazioni genetiche e citologiche necessarie ai propri studi. Alla luce dell’attuale stato dell’arte e in considerazione delle implicazioni negative che la via alternativa avrebbe (sperimentazione diretta su cellule staminali embrionali umane, con conseguente distruzione di embrioni umani allo stadio di blastocisti), la scelta sopra indicata appare come una determinazione razionale della moralità nell’agire del ricercatore. Senza riconoscere la legittimità e la necessità di tali determinazioni razionali d’ordine pratico, sarebbe impossibile convenire su qualsiasi normazione, determinata dal punto di vista del contenuto e vincolante senza eccezioni, della ricerca scientifica; e ciò andrebbe a scapito del bene comune e del rispetto dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, primo fra i quali quello alla vita. La razionalità dell’atto della ricerca sotto il profilo della scelta di un bene da perseguire (oggetto della ragion pratica) ha come premessa l’incidenza della moralità nella dinamica della conoscenza, o onestà intellettuale, che porta ad onorare la realtà oggetto di studio, secondo tutti i suoi fattori conoscibili, più che l’idea su di essa da cui si è partiti all’inizio della ricerca.
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Uno degli aspetti più rilevanti della indagine scientifica e della pratica clinica degli innesti di tessuto e dei trapianti d’organo riguarda il noto fenomeno immunitario del cosiddetto “rigetto” di questi da parte dell’organismo del paziente che non li riconosce come “propri” a motivo di una eterogeneità citologica che ha la sua origine in una differenza genomica tra le cellule del donatore e quelle del ricevente. In ragione di questa difficoltà spesso documentata dalla esperienza dei trapianti “classici”, l’interesse di una parte dei ricercatori che lavorano sulle cellule staminali si è concentrata sulla possibilità di ottenere colture di cellule staminali autologhe (cioè riconoscibili come “proprie” da parte dei tessuti del paziente) dalle quali far derivare, per differenziazione in vitro o in vivo, le cellule destinate a riparare le lesioni tissutali. Poiché la questione della compatibilità immunologica riguarda sia le cellule staminali da tessuti di adulto o fetali sia quelle di origine embrionale, i ricercatori in entrambi i settori hanno disegnato possibili percorsi procedurali per giungere a cellule autologhe. Nel primo caso, quello di cellule staminali di origine non embrionale, le più accreditate e meno complesse possibilità al presente sembrano essere due: (1) la raccolta e la crioconservazione di cellule multipotenti provenienti dal cordone ombelicale all’atto della nascita (S.J. Fasouliotis and J.G. Schenker, European Journal of Obstetrics & Gynecoloy and Reproductive Biology 2000, 90: 13-25), da tenere a disposizione per un’eventuale terapia cellulare di patologie insorte nell’individuo in età pediatrica o anche adulta (ad esempio, alcune forme di leucemia); (2) il prelievo di cellule staminali tissutali dal paziente che necessita di trapianto, la loro coltura in vitro e differenziazione o transdifferenzione (intra– e inter-germinale), e il loro reinnesto nel corpo dello stesso paziente, come avviene, nel caso più semplice e già sperimentato da un decennio, dell’autotrapianto di cellule del sistema ematopoietico (N. Saba, R. Abraham e A. Keating, Critical Reviews in Oncology/Hematology 2000, 36: 27-48). La ricerca di tali strategie terapeutiche cellulari, fatti salvi i criteri etici legati alla sperimentazione clinica, appare essere moralmente accettabile per le stesse ragioni che rendono lecito il ricorso a cellule staminali eterologhe da tessuti di adulto o cordonali. In questo caso, inoltre, non si pone il problema del prelievo da donatore e delle condizioni di liceità e validità del suo consenso.
Quanti, invece, intendono perseguire la ricerca sulle cellule staminali embrionali propongono da qualche anno una via che è stata indicata da diversi autori ed in più sedi scientificamente autorevoli come “clonazione terapeutica”. Pur prescindendo da ogni considerazione sulla possibile equivocità di tale espressione in seno al dibattito pubblico (risulta comunque evidente agli studiosi di ogni disciplina interessata la differenza procedurale rispetto alla cosiddetta “clonazione riproduttiva”, che prevede lo sviluppo dell’organismo clonato fino alla nascita), non vi è dubbio a proposito di che cosa tale procedimento dovrebbe implicare: il prelievo del nucleo (diploide) di una cellule somatica del paziente ed il suo inserimento in una cellula uovo (oocita) privata del suo nucleo (oocita enucleato o ooplasto). A seguito della attivazione (con ioni Sr2+ o mediante impulsi elettrici) della nuova cellula epigeneticamente totipotente così ottenuta (zigote o embrione unicellulare clonato, avente lo stesso genoma nucleare del paziente), prende avvio lo sviluppo embrionale, così come documentato da tutta la letteratura sulla clonazione dei mammiferi per trasferimento di nucleo. Giunto allo stadio di blastocisti (ca. 5 giorni di sviluppo), l’embrione verrebbe sacrificato per estrarre le sue cellule dalla massa interna (embrioblasto), dalle quali ricavare una coltura di cellule staminali (ES) autologhe rispetto al paziente.
L’autorizzazione alla creazione, attraverso questo processo, di embrioni umani clonati da destinare alla ricerca sulle cellule staminali è stata recentemente suggerita dal Rapporto Donaldson (Stem Cell Research: Medical Progress with Responsibility, London 2000); questo ed altri documenti talora preferiscono utilizzare l’espressione “sostituzione di nucleo cellulare” (cell nuclear replacement) al posto di “clonazione terapeutica”, ma in ciascuno di essi non è mai venuto meno l’esplicito riferimento alla generazione di un embrione umano, seppure ai primi stadi del suo sviluppo, quale esito previsto e ineludibile di tale procedura. A fronte di questo atto clonatorio e delle sue conseguenze sull’embrione umano, il giudizio morale è di assoluta inaccettabilità (cf Giovanni Paolo II, disc. cit., p. 1; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae (22 febbraio 1987), I, 6, in: AAS 1988, 80: 84-85; Pontificia Academia pro Vita, Dichiarazione sulla produzione e sull’uso scientifico e terapeutico delle cellule staminali embrionali umane, in: L’Osservatore Romano 25.08.2000, p. 6) in quanto “l’uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni persona” (Lett. enc. Evangelium vitae 63; cf Carta dei diritti della famiglia, Città del Vaticano 1983, art 4b).
La generazione per clonazione di un embrione umano al fine di utilizzarlo come fonte di cellule staminali da destinarsi alla coltura e alla differenziazione, e successivamente all’innesto nel corpo dei pazienti che hanno fornito il nucleo delle loro cellule somatiche per la clonazione medesima, è un’azione indegna della persona umana perché si oppone al suo bene, e nessuna intenzione buona o circostanza particolare è capace di cancellarne la malizia. Neppure la ventilata circostanza dello stato di necessità nel quale si troverebbe attualmente la ricerca sulla terapia cellulare e la terapia genica somatica (legata alla manipolazione delle cellule staminali) – e dovuto, secondo alcuni, alla apparente impossibilità di disporre altrimenti di cellule staminali autologhe idonee – consente di modificare la specie morale della clonazione umana, anche limitatamente al solo embrione, la quale non può essere oggetto di un atto positivo di volontà nonostante sia pervasa dall’intento di salvaguardare o promuovere un importante bene individuale quale è la salute. A ben vedere, non mancano valide alternative ad essa sia per ottenere cellule staminali autologhe sia per rendere possibile la terapia genica somatica, anche se la strada delle cellule staminali autologhe da tessuti dello stesso paziente o da cordone ombelicale appare, a detta di certi studiosi, più lunga e laboriosa. Ma la tensione al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo, nel rispetto e nella promozione della sua vita e della sua dignità dal concepimento alla morte, che sola può ultimamente giustificare la nobile impresa della ricerca scientifica e salvaguardare il prestigioso credito che essa si è conquistata nella società contemporanea, rende pienamente ragione di una scelta che potrebbe anche accrescere la fatica degli studiosi e allungare i tempi necessari per trovare una soluzione al problema della terapia cellulare e genica.
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Recentemente, è stata proposta pubblicamente una nuova, ipotetica via per la produzione “diretta” di cellule staminali immunologicamente compatibili con l’organismo del paziente senza passare attraverso la formazione di un embrione, denominata “trasferimento di nucleo per la produzione di cellule staminali autologhe” (TNSA). Nuovi appaiono sia la sigla sia la descrizione sommaria dell’esito citologico cui potrebbe condurre siffatta procedura di trasferimento nucleare, ma non la procedura di trasferimento in se stessa, la quale prevede l’inserimento di un carioplasto (nucleo di una cellula somatica) in un citoplasto da oocita (cellula uovo enucleata od ooplasto), che risulta identica a quella sinora riportata per la “clonazione terapeutica”. Scopo del TNSA sarebbe quello di “riprogrammare il nucleo di cellule somatiche prelevate dal paziente tramite il contatto con il citoplasma di un oocita” enucleato. Tale riprogrammazione – sino ad oggi non facilmente e riproducibilmente ottenibile per tutti i nuclei di cellule somatiche di mammifero – sta alla base del successo di ogni clonazione per trasferimento di nucleo (cf T. Kono, Review of Reproduction 1997, 2: 74-80; J. Fulka et al., Bioessays 1998, 20: 847-851; K.H. Campbell, Seminars in Cell and Developmental Biology 1999, 10: 245-252). L’argomentazione addotta a sostegno della tesi che il TNSA non condurrebbe alla formazione di uno zigote e allo sviluppo di un embrione, ma bensì ad una proliferazione cellulare di tipo differente, appare singolare e richiederà di essere studiata con attenzione anzitutto sotto il profilo della documentazione scientifica che attende ancora di essere esibita. I proponenti di tale procedimento affermano che “un oocita ricostituito con il nucleo di una cellula somatica adulta non può considerasi uno zigote in senso classico, in quanto non deriva dall’unione di due gameti”. Se il rilievo non è puramente formale e terminologico ma intende avere una referenza empirica, non è immediatamente evidente a quale decisiva differenza epigenetica si riferisca l’affermazione, considerato che da quello che viene ora chiamato “oocita ricostituito” si sono in precedenza sviluppati, almeno in un certo numero di casi e per alcune specie, degli embrioni simili a quelli derivati dalla fertilizzazione, in grado di impiantarsi regolarmente (sebbene con un limitato successo, ma ciò è vero anche per alcune tecniche di fecondazione in vitro) e di dare alla luce un animale clonato. Del resto, gli stessi autori che descrivono i propri studi sulla clonazione usano regolarmente termini (nella letteratura di lingua inglese: zygote, one-cell embryo, two-cell embryo, …, blastocyst) identici a quelli impiegati dai colleghi che studiano la fertilizzazione in vitro e lo sviluppo embrionale precoce. La invocata necessità di “stimolazioni artificiali” per l’avvio dello sviluppo embrionale dopo il trasferimento di nucleo non trova la sua ragion d’essere in una pretesa indeterminazione (o plurideterminazione) dello zigote clonato rispetto al suo destino epigenetico, ma nella assenza della attivazione naturale della cellula uovo ad opera dello spermatozoo (mediata dalla induzione di oscillazioni nella concentrazione intracellulare di ioni Ca2+), come la letteratura ampiamente conferma ed ha recentemente scritto anche un noto studioso di clonazione animale (R.S. Prather, Science, settembre 2000, 289: 1886-1887): “Lo stimolo di attivazione fornito dopo il trasferimento di nucleo [è] destinato a simulare il segnale fornito dallo spermatozoo alla fertilizzazione” (p. 1886). Quanto alla possibilità che l’”oocita ricostituito” possa “essere indotto a proliferare e ad incanalarsi verso la formazione di sfere embrioidi (non di blastocisti) la cui differenziazione può essere indirizzata verso specifici stipiti cellulari”, se il termine “sfere embriodi” intende indicare quello che letteratura chiama “corpi embrioidi” (embryoid bodies, EBs) o talora anche “corpi embriodi cistici” (cystic embryoid bodies, CEBs), si deve riconoscere che essi potrebbero costituire una sorgente di elementi istologici pre-differenziati e differenziati di tipo eterologo (se non derivanti da trasferimento di nucleo) od autologo (se ottenuti attraverso il trasferimento di nucleo di cellule somatica in un oocita enucleato), potenzialmente utili per la terapia cellulare e quella genica somatica. Infatti, la letteratura degli ultimi trent’anni documenta con abbondanza che i “corpi embrioidi” contengono cellule multipotenti pluristratificate e differenziate (cellule della linea ematopoietica, endoteliale, muscolare, neuronale, ecc.) ed anche cavità ed elementi morfogenetici che ricordano quelle delle prime fasi dello sviluppo peri-implantatorio e post-implantatorio degli embrioni. Ma non si può negare il fatto che i “corpi embrioidi” sinora studiati in vitro sono stati prodotti a partire da linee di cellule staminali embrionali (ES), e non viceversa. Anzi, proprio la capacità di dare origine in vitro e in vivo a “corpi embrioidi” viene considerata, insieme alla teratomogenicità nel topo immunodeficiente, una delle prove più evidenti della “staminalità” (stemness) di colture di cellule embrionali derivate della massa cellulare interna della blastocisti (per le cellule ES umane si veda: J.A. Thomson et al., Science 1998, 282: 1145-1147). Per ottenere in vitro “corpi embrioidi” animali e umani, e isolare da essi specifiche linee cellulari, a tutt’oggi si è dovuti passare attraverso la coltura di cellule staminali (ES) derivate dall’embrione (cf ad esempio C. Gimond et al., Differentiation, ottobre 2000, 66: 93-105; A. Rovira et al., Blood, dicembre 2000, 96: 4111-4117; A. Gualandris et al., Molecular Biology of the Cell, dicembre 2000, 11: 4295-4308), e nessuno studio ha sinora mostrato che sia possibile giungere a queste strutture “direttamente” dall’oocita fertilizzato o che ha subito un trasferimento di nucleo.
Considerati i dati empirici sopra esposti ed altri ancora, l’ipotesi del TNSA appare non sufficientemente corroborata da evidenze sperimentali appartenenti al sapere scientifico reso noto pubblicamente e si presenta come una discontinuità rispetto alle linee di ricerca sulle cellule staminali embrionali, umane o animali, fino ad oggi condotte nei laboratori. In linea di principio, non si può tuttavia escludere – a motivo della rapidissima evoluzione delle conoscenze in questo campo e della riservatezza con cui talune indagini scientifiche sono svolte in certe strutture di ricerca – che tale via innovativa alle cellule staminali autologhe possa mostrarsi effettivamente percorribile nei termini in cui è stata proposta, e cioè senza passare attraverso la formazione di un embrione in nessuno dei suoi stadi di sviluppo, da quello unicellulare in avanti. Il giudizio morale sulla liceità o meno di tale ricerca in campo umano – ovvero il TNSA mediante trasferimento di nuclei di cellule somatiche umane in oociti enucleati e in altre cellule della linea germinale umana o animale, o in cellule embrionali ancora capaci di dare origine ad un embrione – rimane sospeso in mancanza di una adeguata identificazione della materia (oggetto fisico o genus naturae) dell’azione, la quale, secondo la tradizione della teologia morale (Summa theologiae, I-II, q. 1, a. 3, ad 3; q. 18, a. 5, ad 3; cf M. Rhonheimer, Natur als Grundlage der Moral, Innsbruck-Wien 1987, pp. 367 ss.) concorre insieme all’oggetto morale (genus moris) a definire l’oggetto proprio dell’atto umano. Tale sospensione di giudizio non esime però dall’obbligo morale di astenersi da ogni azione che potrebbe implicare la clonazione di un embrione umano e la sua distruzione: in dubio pars tutior eligenda est. Per quanto concerne la sperimentazione del TNSA, o di tecniche simili, con ricorso a nuclei di cellule somatiche animali ed oociti animali, essa appare invece lecita ed anzi necessaria in ordine al chiarimento dovuto a proposito della reale natura del processo che si intenderebbe promuovere e delle sue implicazioni biologiche e cliniche. L’onere della prova che il TNSA non comporta la generazione di un embrione in nessuno stadio del suo sviluppo resta a carico dei proponenti della nuova via alle cellule staminali autologhe. Una simile evidenza non potrà tuttavia fondarsi sulla costruzione di una distinzione concettuale, avente pretesa di referenza empirica, tra struttura biologica “pre-organismica” o “pre-embrionale” (fino allo stadio di blastocisti) e organismo embrionale “proprio” (dopo l’impianto), poiché la suddetta bipartizione dello sviluppo embrionale umano risulta arbitraria, sia sotto il profilo delle proprietà che identificano il processo biologico in questione (coordinazione, continuità, gradualità), sia in relazione alla stadiazione convenzionale di tipo morfologico-temporale del medesimo, tuttora in vigore nella biologia dello sviluppo dei mammiferi (cf ad esempio S.F. Gilbert, Developmental Biology, 6th ed., St. Louis/London 2000). Come tale, questa distinzione concettuale non è decisiva in ordine alla definizione dello statuto ontologico dell’embrione umano all’inizio del suo sviluppo. Anche qualora sussistessero insolubili dubbi sulla natura della entità che è stata prodotta attraverso il TNSA, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad un embrione per giustificare la più netta proibizione di un’applicazione di tale procedura in campo umano (cf. Lett. enc. Evangelium vitae 60).
La ragionevolezza e la convenienza di un percorso scientificamente rigoroso ed eticamente guidato nella ricerca di una terapia per diverse malattie che affliggono la vita di tanti uomini e donne del nostro tempo, continua ad essere percepita da parte di numerosi studiosi e medici come una naturale corrispondenza alla propria coscienza e alla vocazione professionale, come ha ricordato il Santo Padre ai partecipanti a due congressi scientifici: “Questa “guida dell’etica” non toglie nulla, naturalmente, all’indipendenza epistemologica della conoscenza scientifica. Piuttosto, essa assiste la scienza nell’adempimento della sua più profonda vocazione che è servizio alla persona umana. Ogni conoscenza della verità – inclusa la verità scientifica – è un bene per la persona e per tutta l’umanità. Ma, come sapete, la verità conosciuta attraverso la scienza può essere usata dalla libertà umana per scopi che sono opposti al bene dell’uomo, il bene che l’etica conosce. Quando in una civiltà la scienza si separa dall’etica, l’uomo viene continuamente esposto a gravi rischi. L’amore per la persona umana deriva da una visione della verità dell’uomo, della sua dignità e del suo incomparabile valore”. (Giovanni Paolo II, Insegnamenti 1984, VII/1: 1637-1642, p. 1638-1639).
Juan de Dios Vial Correa
presidente della Pontificia Academia pro Vita
Elio Sgreccia
vice-presidente della Pontificia Academia pro Vita