P. Bellesini si era dedicato con vera arte pedagogica e squisita carità alla riorganizzazione delle scuole comunali nella speranza che il governo austriaco restituisse agli agostiniani il convento di San Marco e permettesse loro di riprendervi la vita claustrale. Nel 1817, vedendo inappagate le sue attese, rinunciò all’incarico affidatogli ed espatriò clandestinamente da Trento per ricongiungersi alla sua famiglia religiosa che frattanto si era ricostituita a Bologna. Il governo austriaco lo richiamò a Trento comminandogli pene, ma avendo egli preferito restare fedele ai suoi voti, fu bandito per sempre dallo stato. Il beato in cuor suo ne esultò, ma perché fosse palese la sua innocenza, scrisse al fratello Angelo: “Ecco la solita paga del mondo, ecco come vanno a finire le sue ampie promesse”.
La città di Trento diede i natali a Luigi Bellesini il 25-XI-1774, terzo ed ultimo figlio di Giuseppe, pubblico notaio, e di Maria Orsola Meichipeck, entrambi nobili, ricchi e pii. Il padre lasciò alla sposa piena libertà nell’educazione dei figli. Sotto la sua guida Luigino crebbe tanto obbediente e devoto che a sette anni meritò di essere ammesso alla prima comunione. Da allora trastullo preferito del fanciullo fu quello di compiere ad un altarino, eretto con le proprie mani, le funzioni che vedeva fare in chiesa dal parroco.
Nell’adolescenza Luigi pose grande amore allo studio. Mentre frequentava il pubblico ginnasio, di tanto in tanto si recava a fare visita a P. Fulgenzio, suo zio materno, priore del convento agostiniano di San Marco. A poco a poco nacque in lui il desiderio di dare addio al mondo e farsi religioso. Il padre in principio se ne mostrò contrario, la madre invece gli disse: “Figlio mio, se la voce di Dio ti chiama, tu devi ascoltarla e compierne i decreti”. Nel 1790 il beato rinunciò a favore dei fratelli ai suoi diritti ereditari, e si recò a fare il noviziato nel convento di San Giacomo a Bologna. Nel giorno della professione religiosa assunse il nome di Stefano e tra l’altro annotò: “Prometto al Signore e alla Vergine SS. di umiliarmi ogni giorno volentieri per la gloria di Dio e di non risparmiarmi fatica veruna per amore suo; di soffrire con perseveranza i patimenti di questa vita con il pensiero dell’eternità; di castigare il mio corpo e di ridurlo in servitù reprimendo i suoi appetiti”.
Il Bellesini fu mandato a studiare filosofia a Roma, nel convento di Sant’Agostino (1794). Per lo studio della teologia fu richiamato a Bologna (1796), ma poco prima dell’ordinazione sacerdotale la città fu occupata dalle truppe francesi e il Bellesini fu costretto, come gli altri religiosi non oriundi dello Stato Pontificio, a ritornare in patria. Fu ordinato sacerdote a Trento nel 1797 e visse nel convento di San Marco con l’ufficio di sagrestano fino al 1810, segnalandosi specialmente nella predicazione e nelle confessioni. Altre sofferenze erano riservate al beato dalla tristezza dei tempi. Difatti, quando l’imperatore abrogò con un editto gli Ordini monastici, fu costretto a lasciare il convento per vivere con la mamma. rimasta vedova. Non per questo si raffreddò nell’esercizio del ministero sacerdotale, anzi, pur continuando ad osservare fedelmente le regole dell’Ordine, allargò la cerchia delle proprie fatiche bandendo la parola di Dio anche nelle più remote città del Principato di Trento.
Più ardua impresa il P. Bellesini meditava per l’educazione della gioventù. Vedendo come in tante scuole normali s’instillassero nei cuori dei ragazzi massime contrarie al Vangelo, ne aprì diverse nella propria casa e altrove spendendo somme ingenti per il loro buon funzionamento.
Gli invidiosi e i derisori di tanto bene che operava, fecero pervenire formali e ripetuti ricorsi al Podestà municipale perché lo costringessero a chiuderle. Il governo austriaco, succeduto a quello rivoluzionario, non solo approvò le scuole aperte da P. Bellesini, ma lo costituì Direttore generale di tutte le scuole del distretto con un assegno annuo di varie centinaia di fiorini. Il beato, fermamente deciso a trattare e considerare come il più grande amico chi gli faceva del male, riservò a sé l’ufficio di catechista e compose un codice di leggi per il buon funzionamento delle scuole comunali. Non per nulla ne è considerato il rinnovatore e il legislatore.
Tra l’altro prescriveva: “I maestri debbono essere persone assai morigerate ed esemplari tanto nell’agire che nel parlare… Anche la virtù della pazienza è loro necessaria. Chi ne è privo, è assolutamente inabile a tale ufficio… Il maestro non solo deve evitare ogni parzialità, ma persino il sospetto. I fanciulli dei ricchi e dei nobili non debbono godere nessuna prerogativa, poiché nelle scuole non si premia la nascita, ma soltanto l’adempimento dei propri doveri e la virtù”. Verso gli scolari più poveri il P. Bellesini fu di una inesauribile carità. Un teste depose nel processo di beatificazione: “Nella mia bottega di libraio il P. Stefano teneva un deposito di vestiti. Quasi ogni giorno vi conduceva due o tre ragazzi cenciosi ai quali donava qualcosa. Ai più poveri provvedeva carta e libri.
Una volta vide un povero senza camicia: lo condusse in un luogo appartato della mia bottega, si spogliò di quella che indossava lui e gliela diede”. Simile gesto doveva ripetersi sovente perché la mamma ogni tanto gli diceva: “Ormai le camicie stanno per finire!”. Il figlio le rispondeva con un sorriso sul labbro: “Dio provvederà!”.
P. Bellesini si era dedicato con vera arte pedagogica e squisita carità alla riorganizzazione delle scuole comunali nella speranza che il governo austriaco restituisse agli agostiniani il convento di San Marco e permettesse loro di riprendervi la vita claustrale. Nel 1817, vedendo inappagate le sue attese, rinunciò all’incarico affidategli ed espatriò clandestinamente da Trento per ricongiungersi alla sua famiglia religiosa che frattanto si era ricostituita a Bologna. Il governo austriaco lo richiamò a Trento comminandogli pene, ma avendo egli preferito restare fedele ai suoi voti, fu bandito per sempre dallo stato. Il beato in cuor suo ne esultò, ma perché fosse palese la sua innocenza, scrisse al fratello Angelo: “Ecco la solita paga del mondo, ecco come vanno a finire le sue ampie promesse.
Prima sembrava che volesse eternare nel marmo il mio nome, e ora, senza aver commesso qualche difetto, mi vedo more latronum esiliato per sempre dalla patria, privo di ogni diritto, spogliato anche dei beni e dei miei crediti, cioè di ciò che spesi per il bene della pubblica educazione”.
Per timore di fuorviare, avendo ricevuto dalla natura un temperamento molto attivo, nelle sue azioni volle dipendere sempre dalla volontà dei superiori. Preferiva morire anziché disubbidire. Era proverbiale l’esattezza con cui osservava le regole fin nei minuti particolari, per questo i superiori lo chiamarono a Roma, nel convento di Sant’Agostino, e gli affidarono la direzione del noviziato. Nel 1822 lo trasferirono con lo stesso ufficio a Città della Pieve (Perugia), e nel 1826 a Genazzano (Roma) dove, proprio allora, l’Ordine aveva ottenuto da Leone XII il permesso di riprendere la vita religiosa. Il P. Bellesini amava vivere conforme ai consigli evangelici. Pur essendo nato tra gli agi, faceva uso di vesti rattoppate e di scarpe grossolane tanto da meritare dai monelli l’epiteto di Padre ciabattone. I suoi discepoli ebbero modo di ammirare in lui, “la benignità di un padre, la familiarità di un servo, i consigli di un amico, le consolazioni di un angelo, il compendio di tutte le virtù”.
Non meraviglia quindi che Dio gli abbia concesso il dono dello scrutamento dei cuori, della profezia e dei miracoli. Il suo superiore generale, P. Angelucci, quando apriva le lettere che gli scriveva, percepiva una fragranza inesplicabile. Una sera, mentre il P. Bellesini si ritirava con i suoi alunni nel noviziato di Roma, ad uno di essi cadde di mano il lanternino di vetro con cui faceva lume. Intimorito, lo sbadato si attendeva un rimprovero dal maestro, invece costui raccolse da terra il lanternino rotto e glielo rimise sano e acceso in mano. Ad un novizio, colpito da una infiammazione alla gola, il medico aveva ordinato un’operazione chirurgica. Il beato non ne volle sapere. Ordinò: “Aspettiamo domani”. All’infermo disse: “Non temere, recita tre Ave Maria, e riposa tranquillo”. Il giorno dopo il medico, non avendo riscontrato nell’infermo più nulla, esclamò: “Il P. Maestro è un santo!”
Nella chiesa di Genazzano, alla quale è annesso il convento degli agostiniani, dal 1467 è custodito il quadro miracoloso della Madonna del Buon Consiglio. Quando il P. Bellesini ne fu eletto parroco (1831), si adoperò con tutte le forze per propagare la devozione alla Madonna, diffondendo immagini e boccette di olio della lampada che ardeva dinanzi ad essa. Grande devozione egli nutriva soprattutto per la Passione del Signore e il S. Cuore di Gesù, motivo per cui fino a tarda notte amava trattenersi in chiesa in preghiera. Il cardinale Pedicini. vescovo della diocesi, ne apprezzava molto lo zelo. Di lui disse pubblicamente: “Il P. Bellesini non è solamente un santo, ma vorrebbe tutti santi”. Nel 1833 S. Gaspare del Bufalo (+1836) si recò a predicare le missioni al popolo di Genazzano. Il P. Stefano fu felice di stringere amicizia con lui e coadiuvarlo nel sacro ministero, specialmente nel promuovere la fondazione di una casa religiosa delle Suore di Carità, raccogliendo consensi ed elemosine.
Per il suo gregge il beato era sempre pronto a tutti gli uffici nonostante la malferma salute. Soprattutto nell’esercizio della carità egli toccò il vertice dell’eroismo. Per i suoi poveri non si vergognava di chiedere denari, vesti e cibo a parenti, a vescovi, a principi. Un giorno fu visto portare un fascio di legna nel tugurio di un infermo. Dinanzi a così insolite azioni, un suo confratello soleva esclamare: “Oh, che brutta cosa sarà il succedere al parroco Bellesini!”. A favore dei detenuti, dei bisognosi di una grazia e di difesa faceva sovente ricorso a Gregorio XV tramite il P. Proia, sotto-sacrista. Poiché tali istanze erano frequenti, costui s’introduceva presso il sommo pontefice sospirando: “Santità vengo per il solito seccante”. Il papa aveva grande stima del beato e gli concedeva tutto quello che gli chiedeva.
Nel 1839 Genazzano fu colpita dal tifo petecchiale. In mezzo all’universale desolazione si vide aggirarsi tra le mura del paese senza posa né ombra di paura il pastore buono, preoccupato di non lasciare morire nessuno senza sacramenti. Il morbo colpì pure lui. Costretto a letto, si preparò alla morte negli otto giorni di vita che ancora gli rimasero recitando quotidianamente, come S. Agostino, i salmi penitenziali. Il 1-2-1840, sabato, volle ricevere la benedizione papale e della santa Cintura. Al P. Agostino Semeria, suo superiore e confessore, il quale gli aveva già distrutto tutti gli scritti, per fargli piacere disse: “Morirò domani, al momento in cui verrà ricoperta l’immagine della Madonna del Buon Consiglio”. E così avvenne. Pio X beatificò il Bellesini il 1-XI-1904. Le sue reliquie sono venerate a Genazzano nel santuario in cui si era santificato.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 38-42.
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