Congregazione PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Chiarimento a “Institutio generalis” circa la normativa riguardante la comunione sotto le due specie. 31 luglio 2001: Nomine, 37(2001) 256-258.
La institutio generalis Missalis romani approvata dal santo padre Giovanni Paolo II in data 20 aprile 2000, contiene al n. 283 diverse disposizioni che estendono, nell’ambito del solo rito romano, le possibilità della distribuzione della santa comunione sotto le due specie.
Lo scopo di questo breve commento non è di tracciare la storia di questa prassi liturgica e nemmeno di approfondire il senso di questa forma di ricevere il sacramento del corpo e sangue del Signore Gesù, ma si tratta semplicemente di cercare di meglio spiegare la normativa in vigore al riguardo.
Ecco il testo della Institutio generalis Missalis romani, n. 283: “Communio sub utraque specie permittitur (1), praeter casus in libris ritualibus expositos: a) sacerdotibus qui sacrum celebrare vel concelebrare non possunt; b) diacono et ceteris qui aliquod officium in Missa implent; c) sodalibus communitatum in Missa conventuali vel in illa quae communitatis dicitur, alumnis seminariorum, omnibus qui exercitiis spiritualibus vacant vel conventum spiritualem aut pastoralem participant.
Episcopus dioecesanus normas circa communionem sub utraque specie pro sua dioecesi definire potest, etiam in ecclesiis religiosorum et in parvis coetibus servandas. Eidem episcopo facultas datur communionem sub utraque specie permittendi, quoties id sacerdoti cui liti pastori proprio communitas commissa est opportunum videatur, dummodo fideles bene instructi sint et absit omne periculum profanationis sacramenti vel ritus difficilior evadat, ob multitudinem participantium aliamve causam.
Quod autem ad modum distribuendi fidelibus sacram communionem sub utraque specie, et ad facultatis extensionem conferentiae episcoporum normas edere possunt, actis a Sede apostolica recognitis”.
Queste norme liturgiche costituiscono un’estensione notevole di quanto finora stabilito, e sembra opportuno darne al riguardo qualche spiegazione.
I principi generali sono i seguenti:
1. Rimangono in vigore tutti i numerosi casi contenuti nella legislazione precedente e nei libri liturgici finora promulgati, per ciò che riguarda le diverse possibilità di distribuire la s. comunione sotto le due specie.
2. I casi segnalati nelle lettere a), b) e c) sono riformulazioni o ritocchi di concessioni precedentemente ammesse.
3. D’ora in poi è competenza del vescovo diocesano (e questo è un atto legislativo che non può essere delegato, cf. cann. 135 § 2, 391) di emanare norme per la sua diocesi sulla distribuzione della s. comunione sotto le due specie. La competenza del vescovo è, conforme al diritto, primaria (cf. can. 381 § 1), e non è sottoposta ad una previa “autorizzazione” della conferenza episcopale.
4. La competenza del vescovo diocesano si estende sino a rimettere a ciascun sacerdote in quanto pastore proprio di quella comunità il giudizio sull’opportunità di distribuire la s. comunione sotto le due specie, al di fuori dei casi segnalati nei quali essa viene sconsigliata.
5. Il paragrafo finale del n. 283 concede alle conferenze dei vescovi la facoltà sussidiaria di legiferare in materia.
Questa facoltà deve essere correttamente intesa, cioè:
I vescovi membri dell’assemblea della conferenza possono emanare norme in materia, ma non è necessario che lo facciano. Se decidono di emanare norme, questo dev’essere perché lo giudicano necessario, e non per il semplice desiderio di legiferare. Se emanano norme, esse debbono essere approvate in seduta dell’assemblea plenaria della conferenza, con la dovuta maggioranza dei 2/3 dei membri aventi pieno diritto.
Le norme approvate debbono essere sottoposte alla recognitio della Sede apostolica, senza la quale non hanno valore vincolante.
La materia dell’eventuale normativa è d’altra parte:
– il modo della distribuzione della s. comunione sotto ambedue le specie, cioè se bevendo nel calice, se utilizzando un cucchiaino o una cannula, se per intinzione, e d’altra parte
– l’estensione della facoltà, stabilendo qualche restrizione richiesta dalle particolari circostanze generalizzate nell’ambito delle diocesi appartenenti alla Conferenza.
È chiaro che le norme della legislazione particolare della conferenza non possono né annullare le concessioni generali contenute nel diritto liturgico, e nemmeno annullare le facoltà del vescovo diocesano.
Sembra che possa essere applicato un principio generale enunciato dal Concilio Vaticano II, sebbene in un’altra materia: “La libertà non viene ristretta, a meno che ciò sia necessario e nella misura che lo sia” (Dignitatìs humanae, n. 7).
Sembra opportuno che i vescovi diocesani studino quanto stabilito nel n. 283 della Institutio generalis Missalis romani, ed emanino poche e semplici norme sulla distribuzione della s. comunione sotto le due specie, sottolineando soprattutto i criteri pastorali affinchè essa diventi uno stimolo per una fede sempre più consapevole del fatto che la comunione eucaristica è partecipazione al sacrificio di Cristo, che si fa presente in ogni celebrazione della s. Messa. Ricevere degnamente la s. comunione è certamente ricevere il corpo e il sangue di Cristo, veramente e sostanzialmente presente sotto le specie eucaristiche, ma va sottolineato che questa presenza ha una dimensione sacrificale, poiché, nella celebrazione dell’eucaristia, Cristo è presente come offerto in sacrificio ed è ricevuto come vittima della Nuova Alleanza: pertanto chi riceve la s. comunione inserisce se stesso nel movimento di offerta che è quello di Cristo e che è la sostanza della vita cristiana (Rom 12,1).
Traduzione del testo della Institutio generalis Missalis romani, n. 283
(1) “Si concede la comunione sotto ambedue le specie, oltre che nei casi indicati nei libri rituali, anche: a) ai sacerdoti che non possono celebrare o concelebrare; b) al diacono e agli altri che esercitano un ufficio nella messa; c) ai membri delle comunità nella messa conventuale o di “comunità”, agli alunni dei seminari, a tutti coloro che prendono parte agli esercizi spirituali o prendono parte a un convegno spirituale o pastorale.
Il vescovo diocesano può stabilire per la propria diocesi norme circa la comunione sotto le due specie, da osservare anche nelle chiese dei religiosi e nelle piccole assemblee. A lui è data la facoltà di permettere la comunione sotto le due specie ogni volta che ciò sembrerà opportuno al sacerdote al quale la comunità è affidata come pastore suo proprio, purché i fedeli siano bene istruiti e sia escluso qualsiasi pericolo di profanazione del sacramento, o il rito diventi più difficoltoso a causa della moltitudine dei partecipanti o per altra ragione.
Quanto al modo di distribuire ai fedeli la sacra comunione sotto le due specie e quanto all’estensione della facoltà, le conferenze dei vescovi possono emanare norme mediante atti da sottoporre alla revìsione-approvazione della sede apostolica” (IGMR a. 283: EV 19/506-508).>