Di PADRE LUIGI TAPARELLI D\’AZEGLIO S.I., "Civiltà Cattolica", Serie III, vol. III, 21 Agosto, 1856, pp. 611-624. §. VII. Materia, scopo e limiti dell\’Economia sociale. SOMMARIO 1. Il detto spiega le incertezze degli economisti – 2. stringenti o allarganti il campo della scienza. – 3. Essa è guida dei governanti; – 4. ha per materia le cose – 5. non le persone. – 6. Schiavitù. – 7. Improprietà di linguaggio. – 8. Ricchezza. – 9. Scopo naturale dell\’Economia sociale -10. ordinar le persone nell\’uso delle cose. – 11. Sua definizione. 12. Conseguenze. – 13. 1° Schiarimenti intorno ad una Seduta accademica – 15. e alla confusione di tutte le scienze. – 15. 2° L\’Economia è subalterna alla morale. 16. ma in lei essenzialmente fondata – 17. Perché scienza ordinatrice – 18. ma in materia speciale. – 19. 3° Tirannia dell\’Economia eterodossa mostrata dal fatto – 20. logicamente si deduce dal suo principio. – 21. Può essere usufruttuata dai Cattolici. – 22. Epilogo.
1. Dal fin qui ragionato intorno al principio fondamentale delle due economie e alle caratteristiche differenze che ne derivano, il nostro lettore potrà raccogliere la spiegazione del fenomeno che al principio accennammo, vale a dire di quella nebbia in che, secondo quasi tutti, almeno i più periti economisti, s\’involgono tuttora lo scopo, la materia, i confini della sociale Economia. Essa viene più o meno ristretta o allargata dai suoi cultori in maniera da comprendere per gli uni tutta la scienza sociale, e per gli altri da restringersi poco meno che nell\’arte di negoziante non d\’altro sollecito che di far quattrini. Chi bramasse leggere un po\’ per minuto queste svariate opinioni degli economisti, potrebbe consultare i Principii della Scienza del ben vivere sociale e della Economia pubblica e degli Stati del. ch. cav. Lodovico Bianchini, parte prima capitolo III. Ivi troverà una critica ragionata degli autori incominciando da Senofonte e Aristotile appena accennati, e passando poscia ai Genovesi, Beccaria, Verti, Dupont Denemours, Smith, Say, Sismondi, Storch, Ganilh, Gioia, Romagnosi, Malthus, Ricardo, Wathely, Macculloh, Rau, Droz, Floresestrada, Sharbech, Rossi, ecc. Siegue poscia osservando che la maggior parte di questi ed altri autori nel definire l\’Economia sembrano accordarsi, perché le assegnano per iscopo la ricchezza: ma dissentendo poi nel definire il concetto di questa, la stessa loro consonanza apparente nel definire la scienza è una vera discordia: cotalchè dopo trenta anni di ricerche (sono parole del Malthus) e cinquanta volumi di scoperte, gli scrittori non sono potuti sino ad ora intendersi sopra ciò che costituisce la ricchezza (Ivi p. 22). Va più oltre il Rossi ripetendo che, non solo la ricchezza, ma tutte le principali voci di Economia Politica non hanno finora il vero significato (Ivi).
2. È facile il vedere che quel principio eterodosso dell\’indipendenza che divinizza, come dicemmo, per ultimo fine dell\’uomo il piacere, e per mezzo supremo di piacere riconosce le ricchezze, queste ricchezze medesime doveva proporre al governante da conseguirsi indefinitamente quale unico scopo di buon governo, poiché il buon governo deve render felici i popoli. Ma siccome per promuovere indefinitamente la ricchezza è mestieri mettere in giuoco tutte le molle dell\’umana natura; così tutto, l\’uomo e tutta la società vennero a poco a poco aggiogati al carro trionfale di codesta scienza; la quale assorbì non solo tutte le teorie dell\’agricoltura, delle arti, del commercio, ma eziandio quelle della politica e della morale, arruolate tutte quante all\’ossequio e al servizio del dio-quattrino: e l\’ingegno e il costume divennero un capitale accumulato (26), e l\’uomo al par del bue o del vapore uno strumento di lavoro. Così doveva accadere, non essendo possibile all\’uomo di sottrarsi interamente alla forza della logica, sicché non inferisca dai principii le conseguenze. Siccome peraltro neppur può sottrarsi ai contrarii istinti del sentimento, talchè abbia coraggio di giungere fin dove i rei principii lo condurrebbero, alla totale negazione cioè del senso comune e dei primi istinti morali; così tutti gli autori o tosto o tardi incontrano nelle conseguenze logiche un dio Termine che grida: Non plus ultra, e li costringe ad oscillare perpetuamente fra il rigore dialettico ed il senso comune.
In tanto variare di sentenze non recherà meraviglia che anche fra gli autori schiettamente cattolici si trovino molte divergenze, benché essi non possano a meno di non muovere da quel principio supremo che accennammo del Dio creatore e legislatore dell\’Universo. né noi intendiamo qui di richiamare a critico esame le varie dottrine di questi autori; sapendo che, salvo il principio, ben puossi ad una scienza concedere maggiore o minore larghezza secondo i vari punti donde altri muove a trattarla. Non dunque per censurare alcun autore cattolico, ma solo per contrapporci alle influenze eterodosse, proporremo qui alcune considerazioni fondamentali intorno ai tre punti accennati nel titolo di questo paragrafo: materia, scopo e limite dell\’Economia sociale.
3. Ma per ottenere più facile il consenso alle dottrine, mettiamci prima ben d\’accordo intorno al soggetto che vogliamo spiegare e che volgarmente s\’intende quando parlasi di Economia sociale. O in altri termini, prima della definizione reale accordiamoci intorno alla definizione nominale. Che cosa pretendono coloro che o studiano o insegnano l\’Economia sociale? Pretendono, crediamo, raggiungere una scienza che indirizzi i governanti nel modo con cui debbono ordinare la pubblica ricchezza, ossia gli averi della società. Vero è che anche altre materie, come testé notammo, vennero poscia attribuite all\’Economia: ma già udiste dal Bianchini essere codesta una giunta incerta, laddove tutti consentono nel mirare primitivamente alla ricchezza sociale. Ora questa ricchezza, questi averi che cosa sono eglino secondo l\’idea cattolica?
4. Già lo vedemmo; essa distingue e separa assolutamente la personalità umana dalle cose, destinate dal Creatore unicamente a sussidio di quella. Quindi il mettere l\’uomo tra gli stromenti di lavoro, tra i capitali ecc. è formola ripugnante al sentimento e alla proprietà del linguaggio cattolico. Ciò non vuol dire, che la scienza cattolica non debba riconoscere l\’influenza esercitata dall\’ingegno umano e dalla costumatezza, nella produzione e distribuzione delle ricchezze. Ma se l\’avervi qualche influenza permettesse ad un dicitore esatto, amante della proprietà del linguaggio, l\’annoverare l\’uomo tra gli stromenti e i capitali, chi vieterà di mettere fra questi anche le intelligenze superiori e perfino la suprema e sempiterna di Dio medesimo, più del quale niun altro certamente influisce alla produzione della ricchezza?
5. L\’assurdità della locuzione che annoverasse l\’onnipotenza e la sapienza divina fra le forze produttrici somministra al Cattolico un principio chiaro di distinzione fra la materia delle scienze economiche e quella di altre scienze morali. Chi è fine non può essere mezzo. Or Dio è fine supremo di tutte le intelligenze, la persona umana è fine di tutte le cose irragionevoli. Dunque l\’annoverare o Dio o l\’uomo fra i mezzi di produzione, egli è un falsare il linguaggio distornandolo dalla significazione giusta delle idee.
Quindi vedete nella vera antropologia cattolica la base di una giusta circoscrizione della scienza economica. Che cosa è l\’uomo secondo quella antropologia? È un composto di anima e di corpo, ciascuno dei quali principii concorre all\’operazione di tutto l\’uomo; ma per modo che l\’uomo stesso, nel valersene per vantaggio del tutto, mira però direttamente or al bene della parte materiale, or a quello della spirituale. Non per questo dee scindersi in due codesta operazione, essendone uno sempre l\’ultimo fine a cui mira tutto l\’uomo, ed essendo per conseguenza coordinate a tal fine le operazioni delle due parti, e regolate secondo natura dalla mente e volontà ragionevoli. Quando la ragione sostenta il corpo, mira ad avere uno stromento che aiuti le funzioni dello spirito: quando esercita nelle sue funzioni lo spirito, bada che l\’eccesso non pregiudichi al corpo. Una è dunque l\’operazione dell\’uomo, due sono gli stromenti con cui la esercita; e alla perfezione di questi due stromenti egli deve usare mezzi proporzionati, informando la mente a verità ed onestà, sostentando il corpo come utile ministro dell\’animo. Tutte le azioni che direttamente riguardano il corpo appartengono all\’ordine materiale; e le cose che si usano per suo sostentamento ed agiatezza, entrano nella sfera dell\’Economia. Quelle azioni all\’opposto che mirano direttamente alla perfezione dello spirito, la scienza e probità, colle quali esso viene perfezionato, sono di sfera interamente superiore, né possono direttamente entrare in commercio, altro non essendo che modificazioni dello spirito, il quale è fine e non mezzo dell\’umano composto.
Avvertite di grazia quel direttamente che abbiam più volte replicato e che specifica rispettivamente le due classi di operazioni e di mezzi. Non vi ha dubbio che indirettamente le azioni spirituali giovano al corpo, le corporali allo spirito: un uomo che sragiona fa male gl\’interessi anche della sanità e della borsa; uno che si ammala rende malagevole alla mente lo studio, alla memoria la ritentiva. Ma ciò non vuol dire che la gozzoviglia per cui questi si ammalò sia azione spirituale, o il sofisma di chi sragionò sia funzione corporale. né toccherà all\’economia insegnare le leggi del sillogismo, né al moralista determinare la capacità degli stomachi.
– E che? direte: è egli dunque falso che l\’ingegno, la costumatezza, le braccia dell\’uomo concorrano a produrre?
Non è falso che concorrano, ma è falso che possano assimilarsi come quantità omogenee coi valori di tutti i capitali da traffico. Se l\’uomo crea dei valori, li crea o direttamente o indirettamente per sostentamento del suo corpo ministro dell\’anima o per sostentamento dei suoi simili. Appena il vostro linguaggio ne riduce la mente o la volontà a materia di negozio e tosto ne viola la santità, l\’indipendenza, mirandolo qual mezzo invece di mirarlo qual fine. Ed ecco perché noi troviamo nei trattati economici perfino il prete ridotto al personaggio di produttore. Se colla parola produttore essi intendono ch\’egli opera qualche cosa, allora, torniam da capo, mettano tra i produttori e l\’Eterno Padre e il Verbo, dei quali sta scritto: Pater meus usque modo operatur et ego operor. Ma se codesta operazione divina comparisce superiore e non adequabile a veruna produzione negoziativa, si conceda a proporzione la medesima riverenza e al ministro di tale operazione sulle anime, e alle anime che servon di fine a tali operazioni, ed a tutta la persona in cui quell\’anima è incorporata.
6. Quando dunque impropriamente diciamo che l\’uomo mette a servigio altrui le braccia, l\’ingegno ecc. non diamo un valore alle braccia o all\’ingegno, ma sì alle opere che da codeste braccia da codesto ingegno si compiranno. E in questo dimora la differenza essenziale tra la schiavitù, contraria alla natura, ed il servaggio, a cui natura non ripugna; non già nella perpetuità della dipendenza, o nell\’essere più o meno volontariamente accettata; ma sì nel costituirsi il padrone o puro usufruttuario dell\’opera (e questo potrà talora essere ingiusto, ma non è per sé ripugnante alla natura), o disponitore libero della persona stessa (e questo è sacrilegio che toglie a Dio i suoi diritti e alla persona umana il suo ultimo fine), dandole per fine un altro uomo, giacché il padrone è fine della sua roba.
7. Allo stesso modo quando si dice la scienza, l\’ingegno, la costumatezza essere capitale accumulato, si usa un linguaggio improprio, mettendo una proporzione fra quella coltura di mente e di volontà che perfeziona la sostanza dell\’uomo, e quelle monete o alimenti, con cui ne venne sostentato il corpo, e gli furono somministrati i mezzi materiali d\’istruzione e di educazione.
– Ma a qual pro, domanderete codesto insistere sulla nomenclatura se infin dei conti concedete il concetto? E che altro intendono gli economisti col mettere tra i capitali l\’ingegno, se non indicare che dall\’ingegno nascono i valori materiali?
Che questo s\’intenda dagli economisti, nol disdiremo; ma ben disdiremo che il senso naturale di codesta terminologia non degradi l\’uomo alla bassezza delle cose materiali, e non sia per conseguenza o causa o anche effetto di storti giudizii intorno all\’umana dignità. La quale, strana cosa è che venga a questo modo avvilita nel tempo appunto che dall\’umano orgoglio si pretende sublimarla ad indipendenza assoluta. E notate che una tale stortura di giudizio non si ristringe ad un interno disprezzo dei proprii simili o, come dice il Cristiano, dei suoi prossimi: ma penetrando nell\’ordine pratico può introdurre gravissime ingiustizie nell\’Economia. Nei calcoli della quale chi non vede quanto sieno diversi i risultamenti se l\’uomo è riguardato qual fine, e se soltanto vien riguardato qual mezzo? In questo secondo caso il fabbricante, il capitalista si affacciano, sulla piazza e, mirando unicamente al proprio guadagno, sono lieti di raccogliere a minimo salario braccia numerose e potenti: e ne hanno il diritto sancito da molta offerta e da poca domanda. Quando all\’opposto l\’uomo è il fine della produzione, il primo calcolo che deve fare il capitalista o il fabbricante è questo: «quanto è il mantenimento che codesto operaio dee produrre per sè?» Questa quantità dovrà prelevarsi prima di qualunque altro guadagno del fabbricante o capitalista, essendo codesto il primo scopo per cui il Creatore diede al lavorante le braccia. Ma di questo diremo altra volta, non volendo per ora se non accennare l\’importanza pratica del divario che corre fra le due teoriche.
8. Concludiamo dunque che la materia propria della sociale economia sono le cose destinate dal Creatore a sussidio immediatamente dell\’uomo corporeo: e che la maggiore o minore abbondanza di queste è ciò che con proprietà di elogio puossi dall\’economista comprendere nella voce ricchezza. La quale se si adopera talvolta per significare le doti dell\’animo, prendesi allora in senso metaforico, che nelle trattazioni filosofiche vuolsi attentamente schivare.
9. Ora intorno a tale materia sotto quale aspetto dee l\’aggirarsi l\’Economia sociale? Interroghiamone l\’intento del Creatore. Esso ha dato all\’uomo, le cose per sostentamento del corpo e le forze perché a tal uopo le applicasse. Il sostentamento dunque di ciascun uomo, giunto ch\’egli sia a perfetto uso di ragione, è naturalmente di competenza di lui medesimo, né a veruno è lecito nell\’andamento regolare delle cose l\’intromettersi a darvi legge. Ed appunto per questo all\’individuo medesimo detta la sua legge il Creatore in modo a niun altro comunicabile, facendo sentire allo stomaco il bisogno personale del cibo, alle membra il bisogno di vesti e il disagio dell\’intemperie. Se non che, potendo l\’organismo umano andar soggetto a mille sconcerti repentini, a ciascuno si presenta dalla Provvidenza creatrice un sussidio nella quotidiana assistenza dei domestici, stretti e confortati da mille titoli soavissimi in una specie di unità o persona morale, che per organo del suo capo ai quotidiani bisogni veglia continuamente e provvede. Al quale intento la Provvidenza medesima che impone l\’obbligo, somministra nella convivenza domestica un\’opportunità e nel naturale affetto dei consanguinei un impulso cui mai non avrà il governante politico nelle minuzie di simili bisogne.
10. Le cose dunque destinate al sostentamento dell\’uomo dall\’uomo medesimo debbono naturalmente maneggiarsi: e se a tal uopo gli abbisogna sussidio, esso lo trova nell\’unità domestica. Ma qual funzione compete dunque all\’Autorità pubblica rispetto alle cose? La risposta dipende dall\’altro quesito: con quale intento volle Dio una pubblica Autorità? Già lo vedemmo; l\’Autorità ordina direttamente gli uomini; ma a servizio degli uomini stanno le cose. Dunque colla immediata influenza sugli uomini l\’Autorità viene ad ottenere un diritto nell\’ordinamento delle cose. Diritto che abbiam veduto presentarsi sotto due aspetti: 1° Regolando i sudditi nell\’uso delle cose per modo che, sia nel produrre, sia nel distribuire, sia nel conservare la ricchezza, mutuamente essi non si offendano; 2° Procacciando all\’universale tal quantità e qualità di ricchezza, quale è richiesta alla pubblica operazione.
11. l\’ECONOMIA dunque potrà dirsi scienza della ricchezza ossia scienza delle cose, in quanto esse giovano al sostentamento dell\’uomo corporeo: l\’epiteto poi di SOCIALE ristringerà codesta scienza alla parte che conviene a pubblico ordinatore. E congiungendo le due parti della definizione diremo: ECONOMIA SOCIALE essere quella scienza che ragiona le cause naturali, per cui un governante ordina rettamente le persone dei sudditti nell\’uso dei loro averi, sì nel rispetto civico, ossia nelle mutue relazioni fra gli individui, sì nell\’aspetto politico ossia nel contribuir com\’essi debbono al mantenimento e ai bisogni del Tutto sociale.
12. Molto avremmo a dire se volessimo quinci inferire tutti i corollarii che ne conseguono. Ma che altro possono essere tutte le future nostre disquisizioni in tal materia, se non conseguenze di queste definizioni? Contentiamoci qui dunque di far notare alcuni corollarii più immediati e che meglio chiariscono le competenze e i confini dell\’economia sociale.
E il primo corollario deducasi da quella funzione di Ordinatore, con cui circoscriviamo il soggetto a cui detta le sue leggi l\’Economia sociale e lo distingue accuratamente dall\’economo domestico e dal negoziante. L\’Economia sociale detta le sue leggi ad uso del pubblico ordinatore. Ora per conservare l\’ordine chi dee principalmente frenarsi, il forte che può soprusare, ovveramente il debole che appena osa ricordare i proprii diritti? Se consultassimo l\’uso generalmente invalso in certe società che diconsi più incivilite, dovremmo credere che la gran funzione del pubblico governante stia nel secondare ogni desiderio delle persone agiate e potenti: anzi questa è la tessera che da certuni suol prendersi per distinguere i buoni dai cattivi governi. Entrano in una città ove la notte aggiorna pel gas, gli edifizii splendono pei marmi, le botteghe ostentano il lusso, le vie son tirate e lastricate a smalto; ove tutto spira morbidezza e piacere? Oh beata codesta gente e benedetti i suoi governanti! né si briga il touriste se sotto quella bella vernice i popolani più miseri muoion di fame, se dormono nel fango di fetidi abituri, se passeggiano con le nottole per ribrezzo di mostrare al giorno i loro cenci. Entrino all\’opposto in un paese in cui viva agiatissimo il popolo, e senza molta nettezza nei ricoveri, pure non vi s\’incontri un mendico; ma le vie mal lastricate loro tormentino i calli, manchi un teatro ove ammazzar la noia, un caffè ove novellar di politica, un bigliardo ove vuotare la borsa: ove le impannate suppliscano ai vetri, i portici al salotto, ai materassi il saccone, alle posate la mestola: «Dio buono! grideranno scandolezzati; in qual barbara terra siam noi capitati! o qual Governo è cotesto senza cura, senza pietà dei sudditi!»
– Ma i sudditi son lieti e tranquilli.
– Perché non conoscono la civiltà.
– Ma se non la vogliono!
– Tocca al Governo di farla loro e conoscere e volere.
– Ma ci vorrebber danari per fabbricar teatri, per lastricare strade, per lussureggiare in chincaglierie, per aprire ridotti e casini.
– E ci vuol tanto a imporre una tassa? –
Ecco, lettore, la gran panacea per render felici le società: imporre ai poveri dimezzandone il boccone, per somministrare ai ricchi agiatezza e sollazzi. Noi non bramiamo per fermo di tornare alle impannate e alle mestole, e ci gioviamo ben volentieri di quelle agiatezze che la società odierna sì copiosamente ne fornisce. Ma pretendere che dalla moltiplicità di queste agiatezze comprate col sangue dei poveri debbasi sentenziar buono un Governo, questo diciamo essere precisamente l\’opposto di ciò che ai governanti imporrebbe la loro funzione di Ordinatori. I ricchi; i potenti, non dubitate, sapranno pensare a sé e farsi ragione: quelli di cui un buon governo dee principalmente occuparsi, son quelli i cui interessi possono venir conculcati dalla prepotenza, i poveri, i deboli. Tutelando questi contro l\’oppressione dei forti compirà il governante la funzione di Ordinatore e farà regnare nella società la giustizia.
Questo corollario che scende dal nostro concetto di Economia sociale, viene continuamente inculcato dal Vangelo e in generale dalla Scrittura Santa, la quale non cessa di raccomandare ai regnanti la cura del povero, dell\’orfano, della vedova, dell\’oppresso. E il Cattolico che a tali suggerimenti obbedisce, ad altro non pensa che all\’autorità divina da cui scende venerabile e venerato il comando. Ma voi, savio lettore, che state or ricercando filosoficamente le ragioni che debbono guidare un governante nell\’ordinamento della pubblica ricchezza, osserverete qui, come per tutto altrove, la perfetta conformità della rivelazione con la ragione. Questa ci detta che le violazioni dell\’ordine nelle relazioni scambievoli suppongono la forza nell\’offensore e la debolezza nell\’offeso: e ne inferisce ufficio dell\’Ordinatore essere principalmente proteggere la debolezza contro la forza. Ma questi dettati di ragione quanto facilmente vengono o ignorati per inavvertenza, o abbandonati per codardia, o violati per interesse! Sopravviene la rivelazione e al Cattolico ricorda e raccomanda i diritti del povero e l\’amor del fratello. Giustizia e tenerezza vengono così chiamate a proteggere l\’ordine della società e contro la spietatezza del prepotente che calpesta il povero, e contro il comunismo del povero che s\’inalbera contro il prepotente.
Ecco dunque uno dei caratteri più insigni della vera Economia sociale, dell\’Economia cattolica. Destinata come ella è a formare un savio Ordinatore delle relazioni tra i cittadini nel fatto dell\’interesse, ella prenderà per prima sua cura di proteggere la miseria del debole, invece di pensare principalmente a soddisfare ogni capriccio del forte.
13. Passiamo agli altri corollarii delle nostre dottrine: e in secondo luogo osservisi come l\’idea da noi contornata dell\’Economia sociale confermi la censura del ch. Intrigila (27) contro la società degli economisti di Parigi, la quale nella tornata dei 10 Marzo 1803 trattando di «determinare il limite dell\’Economia politica e, per esempio, di dire, se il prete, il magistrato, l\’amministratore, il professore, l\’uomo di stato sono da considerarsi dall\’Economia politica al medesimo grado di chi produce la biada o il calicot… postisi i disserenti in questo terreno al pari del Dunoyer, il Renouard, il Fontenay, M. Blaise (des Vosges) portaron parere contro lo Chevalier ed altri, che la scienza debba trattare ugualmente di tutti i produttori, sia che producano ricchezza materiale o immateriale, in modo diretto o indiretto» (28). Una somigliante decisione, come ben vede il lettore nascea dall\’aver preso questa scienza non già come ordinatrice, ma qual fabbricatrice delle ricchezze, e dall\’aver chiamato ricchezze qualsivoglia valore o pregio dell\’opera. Con tal confusione d\’idee è chiaro che tutte le opere dell\’uomo, e tutte le scienze anche razionali cadono sotto il dominio della Economia, giacché niun uomo di senno opera se non col fine di produrre una qualche utilità. Come produrre buona la biada? Lo impareremo dagli agronomi; come il calicot? ce l\’insegnerà la meccanica e la chimica: come la buona predica e la buona confessione? l\’udremo dal prete, sotto il magistero della rettorica, del vangelo, della morale. Come la buona sentenza? lo sapremo dalla giurisprudenza e dal diritto pubblico. Così agricoltura, meccanica, chimica, morale, ascetica, eloquenza, giurisprudenza, diritto pubblico tutto entrerà nell\’Economia (29). Se all\’opposto quegli scienziati avessero abbracciato il principio «l\’Economia politica essere quella scienza che insegna ad ordinare gli uomini in società rispetto all\’uso delle cose»; avrebbero tosto compreso, uomini e cose doversi supporre già o producenti o prodotti, e la economia sociale intervenir qui soltanto per ordinare le persone in modo che nell\’uso delle cose l\’una non violi il diritto dell\’altra e tutte rispettino ed osservino i diritti della società. Sotto tale aspetto ben potrà essa ricercare qual effetto produca nell\’andamento della ricchezza lo stipendiar preti o professori; l\’imporre lo stipendio del magistrato alle parti contendenti ovvero al pubblico; l\’attribuire all\’amministratore questo o quel diritto nell\’ordinare tasse e dogane, giacché tutto ciò serve di regola al governante nel dar legge ai sudditi rispetto all\’uso delle cose. Ma l\’utilità prodotta dal prete, dal magistrato, dal professore; e il prete, il magistrato, il professore in quanto producono morale, giustizia, scienza comparirebbono al tutto stranieri sul campo della scienza economica.
E che? replicherà taluno, negherete voi che l\’azione del prete e del giudice sia utilissima alla produzione delle ricchezze? Che senza la compressione del giudice le borse si vuoterebbero dal ladro, senza l\’ammonizione del Confessore il ladro non farebbe mai restituzioni? Che per conseguenza e confessore e giudice concorrano all\’aumento ed alla distribuzione della ricchezza?
Nol neghiamo no! ma neghiamo bensì che codesta loro opera abbia per iscopo di aumentar la ricchezza, e a questa ricchezza prodotta possa equipararsi. Il giudice mira a ristabilire l\’ordine morale nella società; il Confessore a ristabilirlo soprannaturalmente nelle coscienze: e farebbe orrore ad un animo ben nato chi volesse calcolare quanto merita un giudice o un Confessore pagando gli un tanto al cento per ogni pagamento o restituzione ottenuta.
14. Se queste nostre parole giugnessero sotto l\’occhio del ch. Intrigila, indi vedrebbe che nel ridurre la scienza alle cose materiali gliele facciamo riguardare sotto l\’aspetto dell\’ordine che è aspetto morale, senza ricorrere alle obbiezioni ch\’egli annovera e scioglie da pag. 90 a 99: e crediamo con ciò di concedere alla scienza economica quell\’ampiezza e nobiltà che a lei per sua natura compete. Il volerne allargare i confini, facendo sì che l\’Economia abbracci tutte le scienze, come del Molinari dice il Garnier citato nei Saggi (pag. 86), non ci sembra un allargare i confini della scienza, ma un distruggere quei confini di specialità che, per meglio studiare il proprio soggetto, l\’analisi dei dotti avea stabiliti. Egli è appunto come chi per ingrandire un uomo volesse farne una torre o una montagna.
15. Ma in qual modo la Economia si attiene alla morale? È facile il comprendere dal sin qui detto che l\’Economia si attiene alla morale come alla scienza primaria si attiene la subalterna. Se le cose debbono usarsi dall\’uomo per sostentamento del corpo, e questo deve servire di stromento all\’anima per tendere, onestamente vivendo, al suo fine; l\’Economia è evidentemente subordinata alla morale; una Economia contraria alla morale è scienza falsa; una Economia che prescinda dalla morale è una scienza priva del precipuo suo fattore, quale sarebbe una giurisprudenza che prescindesse dalla idea della società o una geometria che dal concetto di estensione. Infatti se l\’Economia deve ordinare la ricchezza, fuor dell\’ordine non può esservi Economia, come fuor della estensione non vi può esservi geometria, e fuori della società non può esservi diritto. Ma non per questo può dirsi che la economia sia la scienza della morale, ma solo che è a lei subalterna; ed appunto per questo ella viene collocata, cattolicamente parlando, fra le scienze morali; laddove per gli eterodossi ella dovrebbe annoverarsi unicamente fra le scienze naturali di osservazione, ed abbracciare tutte le scienze ed arti che insegnano a produrre qualche cosa per soddisfare in qualunque modo i desiderii e bisogni dell\’uomo: e così appunto la definiscono il Carey e il Ramon de la Sagra presso il citato Intrigila (pag. 87): «La scienza che tratta di quei fenomeni sociali, i quali derivano dal desiderio che ha l\’uman genere di mantenere e migliorare la propria condizione.» Secondo la quale definizione voi vedete che fenomeno economico sarà l\’adunarsi gli eserciti in Crimea, il concorrervi le suore di carità ad assistervi gl\’infermi, il raccogliersi di molte persone divote nel ritiro degli esercizii, il mettersi tutti gli astronomi in corrispondenza per osservare un passaggio od un eclisse: giacché tutto codesto non si fa egli nella società per migliorare di condizione?
16. Se poi l\’Economia è scienza essenzialmente morale, si capirà non averla il Rossi abbastanza connessa con la morale medesima, allorché disse, l\’Economia dover rispettare la morale. Non solo ella dee rispettarla, come la fisica esempligrazia rispetta la teologia, ma se è cattolica dee trarre dalla morale la propria esistenza. L\’Economia eterodossa non potendo avere principii fissi di morale, e riducendosi tutta ad insegnar l\’arte di far quattrini, ben può dire ai suoi cultori: «quest\’arte esige i tali e tal\’altri mezzi or leciti or illeciti: pensate voi a sceglierli secondo la vostra coscienza»: ma un\’Economia di tal fatta dovrebbe rassegnarsi ad insegnare tutti i modi di far quattrini: tra i quali l\’arte del falsario, dello scroccone, dell\’assassino hanno un primato di efficacia, a cui appena arrivano gli stessi usurai. Se poi l\’introdurre codeste arti nell\’Economia ripugna ad ogni cuore ben fatto, fia giuocoforza riconoscere che morale ed economia sono essenzialmente l\’una dall\’altra inseparabili. Il che viene in fatti riconosciuto anche dagli economisti eterodossi quando la logica dell\’errore giunge, come poc\’anzi abbiam notato, a ferire gl\’istinti morali senza poterli sopraffare; allora anche gli eterodossi si accorgono che l\’Economia è essenzialmente morale, ossia è una scienza subalterna alla morale, come l\’astronomia è subalterna alla matematica. Ella non solo dee rispettarla, ma derivarne i suoi principii.
17. E così appunto fa l\’Economia cattolica, la quale è l\’arte e la scienza di conformare nel fatto della ricchezza l\’andamento sociale coll\’ordine stabilito dal Creatore. Questa scienza, come ognun vede, trae necessariamente dalla morale la propria esistenza, giacché ogni suo problema sempre si riduce a questo: «qual è l\’ordine voluto dal Creatore rispetto all\’uso (30) delle ricchezze in questo o in quell\’altro caso»? La serie di tutti questi problemi coi teoremi che vi rispondono, forma pel Cattolico il contesto della scienza economica essenzialmente inseparabile dalla morale al pari che la politica, la legislazione ed altre scienze subalterne.
18. Le quali non per questo vengono a confondersi colla scienza primaria, avendo il loro speciale oggetto intorno a cui si travagliano (ricchezza, leggi, utilità dello Stato); come l\’astronomia e la nautica, benché dalla matematica essenzialmente derivino, pure non sono la matematica; perché hanno lo speciale oggetto a cui applicando la matematica assegnano principii e leggi.
19. Un altro corollario che dalle cose dette ricavasi è il gran divario che corre fra le due Economie sotto l\’aspetto della mitezza o piuttosto della giustizia: essendo l\’economia eterodossa, come tutte le altre dottrine sociali di codesta scuola, essenzialmente dispotica anche a dispetto dei suoi proprii cultori; laddove la Economia cattolica è pei suoi principii essenzialmente amorevole e paterna, benché possa accadere che poco amorevolmente e paternamente venga da amministratori imperfettamente cattolici adoperata. Potremmo confermare questa nostra antitesi colla prova del fatto, mettendo in mostra ciò che accade nei tre Governi superlativamente ammodernati d\’Europa in questo tempo; vale a dire nei tre Governi che hanno abbracciato e s\’ingegnano di applicar fedelmente il principio d\’indipendenza, Spagna (31), Piemonte e Svizzera. Se ivi fosse soltanto oppressa la Chiesa, potrebbe credersi che la tirannia nasca dall\’odio della religione, anzichè dal principio scientifico. Ma al vedere tiranneggiati economicamente al par della Chiesa i Comuni, al par dei preti gli altri cittadini; ogni equo ragionatore inferisce esservi di codesto dispotismo altra causa oltre lo spirito irreligioso.
20. E\’ questa causa il lettore può vederla nello svolgimento del principio eterodosso, trasformato nella smodata cupidigia di pubblica ricchezza, costituita dagli economisti quale ultimo fine del governante. Se l\’ULTIMO FINE dà legge ai mezzi, i cittadini debbono essere sacrificati alla ricchezza pubblica, e le tasse debbono pareggiare l\’imponibile. Dato all\’opposto il principio cattolico, fine essendo dell\’autorità, non già accumulare ricchezza, ma sì coordinare i sudditi rispetto all\’uso della ricchezza, salvando qui come altrove ogni loro diritto; questo fine di salvare i diritti del suddito avrà il predominio nell\’amministrazione pubblica, e l\’accumulare ricchezza sarà, qual mezzo, subordinato alla salvezza degl\’individui. Laonde rettamente il ch. Mons. Peraldi. «I dotti della ragione sociale e della giustizia pubblica energicamente inculcano di proporzionare le spese alle forze economiche della nazione, riducendo quelle al minimum possibile, onde lasciare al cittadino il maximum del godimento della proprietà» (32). L\’Economia cattolica dunque è pel suo principio osservante dei diritti del cittadino, come l\’eterodossa pel suo principio ne è conculcatrice, qual che esser possa nella pratica la mitigazione delle applicazioni ispirata agli amministratori da naturale bontà e giustizia. Quindi vedete che molte delle osservazioni del Bastiat in favore del libero commercio sono generalmente assai conformi all\’indole dell\’Economia cattolica, benché nella loro universalità possano, come altra volta vedremo, tacciarsi di esagerazione. Così p. e. nulla di più conforme allo spirito cattolico, che il riprovare quei balzelli, i quali condannano, come egli dice, i montanari dei Pirenei al patimento di tutto il necessario alla vita per sostenere un qualche gran capitalista o fabbricatore (33); il riprovare quell\’interesse dei produttori che implorano la fame, il freddo, le malattie per ismaltire pane, vesti, medicine (34). Se l\’amministratore deve riverenza agli individui ed ai rispettivi loro diritti, è chiaro che prima dovrà pensarsi al sostentamento del povero, poi alla maggiore agiatezza del ricco. Tale è naturalmente parlando l\’Economia cattolica, contraria pel suo principio alla eterodossa.
Non per questo abbiamo a sentenziare inutili per un amministratore cattolico gli studii profondi degli eterodossi intorno alla produzione e distribuzione della ricchezza. Codesta scienza produttrice sempre sarà necessaria come sussidio alla scienza cattolica ordinatrice: sì perché non è possibile ordinar saviamente le cose, di cui s\’ignora totalmente la natura e l\’operazione; si perché, come abbiamo accennato, il pubblico amministratore, non solo dee stabilire in ordine alla ricchezza le giuste relazioni fra cittadini uguali, ma traendo dalle loro borse il necessario pei pubblici carichi, deve maneggiarlo colla integrità, accortezza e industria d\’un savio padre di famiglia. Deve dunque conoscere quali sieno i balzelli che men gravano i capitali, quali le forme meno costose di esazione, quali i modi di rendere fruttiferi i capitali che sopravanzano e di spender bene quelli che a fornire i materiali stromenti sono necessarii; e così dite di altre ragioni, per cui l\’arte di accumulare e di spendere il danaro entra nelle funzioni di un pubblico amministratore; in quella guisa che ne fa parte anche la scienza medica, quando trattasi di regolare gli averi senza danno della pubblica igiene; la canonica, quando entrano in giuoco gll\’interessi della società religiosa; l\’archittettonica, se debbasi regolare la costruzione di pubblici edifizii. Nei quali casi tuttavolta l\’amministratore non è obbligato a conoscere codeste scienze, se non quanto è necessario a ravvisare il bisogno di consultare i periti. Sia però fermo tra noi che la primaria sua funzione è quella di ordinare secondo giustizia, rispettando in tutto la personalità dei sudditi; e che per conseguenza il principio cattolico forma un\’Economia paterna, come l\’eterodosso un\’Economia tirannica.
E questo abbiam detto in ragione del principio. Molto più potremmo aggiungere se volessimo considerare la società ammodernata, in quanto è lotta perpetua di partiti, fra i quali il vincitore mira essenzialmente a smugnere le borse dei vinti. Ma questa e altre simili osservazioni ci trasporterebbero dalla Economia alla politica, e però fuor del presente nostro soggetto.
22. Aggiungiamo per ultimo un quarto corollario intorno alla stima ed onoranza che forma nella società secondo l\’impulso di natura un mezzo gagliardissimo di rimunerazione, e però di incitamento al bene. Ogni intelletto che abbia un qualche acume e non sia digiuno affatto in quella parte di Storia che racconta i morali opinamenti dei popoli, non può a meno di non restare attonito mirando la grande mutazione accaduta da poco più di un secolo in qua negli oggetti della stima, dell\’ammirazione, della riverenza universale. Se voi riguardate le antiche idee, troverete per ogni dove, anche fra le tenebre del paganesimo, chiaramente distinti due ordini di azioni e di oggetti contrariamente valutati nella pubblica estimazione. Vi hanno delle azioni tendenti per sé medesime a soddisfare passioni ed appetiti in sé non biasimevoli, ma pel soverchio impeto delle umane tendenze facili a trasmodare; e a codeste azioni nei tempi di minor corruttela il senso comune attribuiva un non so che d\’imperfetto e di vile che disgradava in qualche modo il concetto dell\’operante: utile ed appetibile ne compariva l\’oggetto, ma insieme sordido e spregevole l\’attendervi per professione: se non si giudicava illecito, non si teneva certo per onorevole: onde vi aveano le professioni più o meno onorate come le azioni più o meno perfette; intorno alle quali tanto più cresceva la pubblica stima e riverenza, quanto meno appariva il soddisfacimento della sensualità.
Quindi dopo lo schiavo che giudicavasi venduto corpo ed anima ad ogni libito del suo padrone, turpi e spregevoli si consideravano quelle professioni, per cui un uomo si consecrava o al guadagno proprio o al divertimento altrui: e non solo giocolieri e saltimbanchi, ma ballerini, cantanti, attori erano riguardati come persone poco meno che infami, riputandosi grande abbassamento di un uomo il vendere l\’opera sua ad altrui diletto. Ma tostochè il godimento fu giudicato ultimo fine dell\’uomo, e la somma dei godimenti sua felicità, era naturalissimo che le professioni destinate a moltiplicare i piaceri si equiparassero a quelle che promuovono il pubblico bene: e non solo gli istrioni e i giocolieri entrarono a parte della società più forbita sotto nome di Artisti, ma quell\’animal di Epicuro che tutti conoscono sotto il nome di Geremia Bentham, osò stampare (e v\’ebbe chi lo lesse senza orrore!) il panegirico della meretrice consecrata al pubblico bene; e nondimeno nello svergognato suo cinismo codesto utilitario era logico, in quanto che egli medesimo aveva annoverato tra i delitti contrarii alla natura e alla società il digiuno, il celibato, le minacce dell\’inferno, la vita solitaria e mortificata ed altri simili esercizii contrapposti dal Cattolicismo alla passione del piacere.
Dicasi altrettanto rispetto alla passione del danaro esaltata dall\’utilitario inglese nell\’usuraio come atto ugualmente prudente per sé e filantropico per bene altrui. Il qual panegirico non garberà certamente a molti onesti anche liberali, come potè vedersi nelle discussioni piemontesi, ove tanti sorsero a combattere la legge proposta dal De Foresta in favore dell\’usura. Ma non per ciò abbiamo a negare che eziandio fra gli onesti e fra cattolici molto non sia alterata la severità dei giudizi rispetto all\’amor del guadagno. Leggeste altra volta le sentenze di Agnolo Pandolfini con cui dissuadeva ai nipoti, come professione degradante, la mercatura. Or quel valente economo, che potrebbe in questo sembrare interprete di qualche volgare pregiudizio, sapete voi donde avea tolta codesta sentenza? l\’avea tolta di peso dalla somma teologica dell\’Aquinate, il quale ben sanno i lettori con qual ponderazione scrivesse ogni sillaba e con qual forza di filosofici argomenti la rincalzasse. Or ecco come parla in tal proposito S. Tommaso, esaminando se sia lecito negoziare vendendo a più caro prezzo che non si acquistò. «Il guadagnare, dic\’egli, è per sé opera indifferente; e però può ordinarsi a qualche bene, per esempio, a sostentamento della propria casa o dei poveri ma se si considera la professione del guadagnare, codesta professione ha un non so che di turpe, perché tende indefinitamente al guadagno» (35). E codesto modo di giudicare durava ancora in certe famiglie sul principiare di questo secolo, specialmente fra patrizii, come altrove dicemmo.
Progredirono i tempi e le idee cambiarono e il cambiamento non fu sempre in male, essendosi discreditata in gran parte quell\’aura di ozio e di orgoglio che spirava fra la corrotta nobiltà nei palagi. Ma è egli ugualmente un bene il cangiamento di stima intorno alle professioni e al vario grado del loro merito? la smania introdottasi anche tra i grandi di farla da negozianti, da cocchieri, da cantanti? Il bene o il male in genere di giudizii tutto si riduce finalmente a verità o a falsità. Or chi può negare, senza combattere il senso comune e il giudizio di tutti i secoli passati, che tra le azioni lecite ve ne sieno di più o meno onorevoli? Chi può negare ammirazione alla persona che si offre in olocausto pel ben sociale sacrificando piaceri, interessi, affetti anche legittimi e la vita stessa? E se questa specie di azioni, già mirabili nel primo loro mostrarsi, divengano abituali per una professione, chi può negare a codesta professione quella riverenza medesima che non potrebbe rifiutarsi ad ogni atto isolato? La è codesta, a parer nostro, la segreta magia che rende per tutto il mondo incivilito sì onorata la professione delle armi, benché non sempre sia pari a tal grandezza colui che le impugna: la milizia è vita di sacrifizio per bene della patria; il negozio è vita di guadagno per beni della borsa. Vengano pur quanti vogliono sofisti ugualitarii a perorare contro l\’ingiustizia della società nei suoi giudizii, mai non riusciranno a togliere la differenza che pose natura fra codeste e simili professioni: e il militare che cade in battaglia sarà onorato, e il negoziante se perdesse la vita per non perdere il lucro, sarebbe anche oggi vituperato e deriso.
Ciò nondimeno, non può negarsi: gli accumulatori di ricchezza, gli uomini che di lor persona fanno stromento al diletto altrui, trovano oggi nella società, e specialmente nella più leggiera e scostumata, non che ammirazione, fanatismo e quasi dicemmo idolatria. E una prima donna o una gran ballerina avrà le entrate d\’una principessa, e pari alle entrate l\’accesso ai Grandi e le riverenze della moltitudine. Che vuol dir questo? Vuol dire che l\’amor del piacere altera i giudizi della ragione e si inchina a quegll\’idoli che la ragione calpesterebbe.
E tanto basti per ora dei corollarii che dalle due Economie naturalmente discendono: gli ulteriori svolgimenti di essi daranno campo agli articoli seguenti. L\’importante in questo era di presentare una ragionata idea della radicale diversità che determina le dottrine economiche intorno alla ricchezza, materia dell\’Economia, al suo scopo che è l\’ordinamento della ricchezza, ai suoi confini per cui deve sceverarsi come scienza speciale e non invadere le altre scienze, benché talvolta le tocchi; e finalmente alla sua indole cattolicamente morale e soave, contrarissima all\’indole della scienza eterodossa, tirannica essenzialmente e materiale. NOTE(26) «Da che questa parola è stata pronunziata: l\’ingegno di un uomo è un capitale accumulato, l\’Economia politica ha fatto un passo di più nel dominio delle scienze morali» (Journ. des econom. 1815 tom. 2).
NOTE
(27) INTRIGILA Saggi pag. 83.
(28) V. Jour. des éc. Avril 1853.
(29) «Lo studio della natura e delle funzioni delle differenti parti del corpo sociale ha creato un insieme di nozioni detto Economia politica» (V. ivi p. 84).
(30) Non creda il lettore che parlando dell\’uso intendiamo escludere l\’autorità pubblica da ogni ingerenza sulla produzione. Chiariremo altra volta il nostro pensiero in tal quistione: per ora basti il riflettere che non si può produrre senza usare e capitali e materia. Dunque chi regola l\’uso regola per questo in qualche modo anche la produzione.
(31) Questo articolo fu scritto nei tristi giorni della rivoluzione passata: il nuovo indirizzo degli affari ci dà speranza di migliore avvenire.
(32) PERALDI, Stato economico e politico dei dominii della S. Sede tit. III, discus. II, pag. 333.
(33) V. Sophismes économiques; I ser. XIV. Conflit de principes.
(34) Ivi II sofisme. Obstacles, causès.
(35) Cfr. S. THOMAS, 2-2, q. 77, art. 4, corp.